59ª Biennale: voci dalle minoranze non binary, trans, queer.

Yuki Kihara,  Fonofono o le nuanua: Patches of the rainbow (After Gauguin), 2020. Fotografia tableau, parte del progetto Pardise Camp, Padiglione della Nuova Zelanda, Arsenale, 59ª Biennale

Cecilia Alemani ha dichiarato, presentando la sua Biennale lo scorso anno, di volere dare voce alle espressioni marginali e minoritarie nel mondo dell’arte e, dico io, nella vita; una sfida coraggiosa, ma necessaria, se l’obiettivo della sua proposta è fare emergere, dalla moltitudine dell’arte contemporanea, quei germogli di ricerca e percorsi innovativi che colgono temi e urgenze poste dalle giovani generazioni.

Tra i materiali esposti nella Mostra e nei Padiglioni Nazionali ho raccolto alcune opere intorno al tema all’identità di genere, al mondo no binary e queer, trovando molti spunti interessanti, sia tra le proposte di figure artistiche storiche del Novecento, che contemporanee: una presenza discreta, ma che si offre al mondo dell’arte con determinazione, a sottolineare quanto sia necessario conoscere e portare alla luce le unicità della natura umana.

Annodare immagini e messaggi in questo percorso non è stato facile. Ci sono vissuti, un tempo rimossi o sconosciuti, che oggi nelle giovani generazioni prendono forma e corpo; alcuni artisti ne diventano portavoce, protagonisti di una rivoluzione culturale e sociale che si fa travolgente, che va oltre i temi specifici della comunità LGBTAQ+, per abbracciare le voci tutte delle minoranze, in modo intersezionale.

– Claude Cahun (1894-1954), esponente della rivoluzione surrealista.

Tra le artiste che hanno alimentato le ricerche delle avanguardie storiche, emergono figure molto interessanti, le cui storie e identità, non sempre facilmente definibili, raccontano di esistenze non conformi ai generi.

Emblematica è la figura di Claude Cahun, pronome di Lucy Renée Mathilde Schwob, fotografa, scrittrice e performer, protagonista della stagione del Surrealismo in Francia, di origine ebrea e impegnata nella Resistenza Francese.

Claude Cahun (1894-1954), Autoritratto riflesso allo specchio, 1928 ca., fotografia Giardini 59ª Biennale

Claude Cahun (1894-1954), Self portrait, in robe with masks attached, 1928, fotografia Giardini 59ª Biennale

Dalle opere selezionate nel percorso espositivo ho tratto due immagini significative: Autoritratto riflesso allo specchio, scatto fotografico in cui Claude, guardandoci, sembra fuggire dalla propria immagine riflessa, per offrirci quella percepita, non conforme a generi strettamente binari; in Self portrait, in robe with masks attached si traveste da bambola, oggetto/stereotipo di uno sguardo maschile da cui vuole affrancarsi, celando, attraverso il gioco di maschere, il proprio sé.

Claude Cahun si lega sentimentalmente alla sorellastra, Marcel Moore, pronome di Suzanne Malherbe; con lei, rifugiatesi sull’isola di Jersey nel 1938 per fuggire alla persecuzione antisemita, intraprenderà una lotta di resistenza contro i Nazisti, che occuperanno l’isola nel 1940. Sfruttando metodi di provocazione surrealista, diffondono di nascosto sull’isola volantini contro gli occupanti, firmati “soldato senza nome”.

Scoperte e arrestate nel 1944, saranno salvate dalla pena capitale in seguito all’armistizio nel 1945.

Segnalo un omaggio alla “resistenza poetica ” delle due protagoniste: il cortometraggio di Astré Desrives: Héroïnes, (dal titolo di un’opera di Claude Cahun), proiettato al Sicilia Queer Filmfest 2023, anno di produzione dello stesso.

– Sguardi dalle giovani generazioni

Particolarmente interessanti sono due videoinstallazioni; la prima era allestita nel Padiglione della Romania ai Giardini, creata da Adina Pintilie (1980), You are another me. A cathedral of the body, 2022, l’altra, collocata nel percorso espositivo dell’Arsenale, di Eglé Budvytyté (1981), Song from the Compost: Mutating Bodies imploding Starts,

Adina Pintilie (1980), You Are Another Me. A Cathedral of the Body, 2022, frames da videoinstallazione a tre canali – Padiglione della Romania, Giardini, 59ª Biennale

Adina Pintilie, artista rumena, crea uno spazio safe, evocando una cattedrale contemporanea, con proiezioni multicanali, in cui possiamo esplorare il dialogo intimo e poetico vissuto all’interno di convivenze oltre il binarismo di genere: celebrazione del corpo e delle relazioni umane al di là di ogni preconcetto.

Eglé Budvytyté, artista lituana, ha realizzato un video poetico in cui dà forma alle teorie della biologa Lynn Margulis, (teorica dell’endosimbiosi: l’evoluzione è data dall’interazione e cooperazione tra organismi) e della filosofa Octavia Butler (apre al concetto d’identità di genere, svincolato dal sesso assegnato alla nascita).

Eglé Budvytyté (1981), Song from the Compost: Mutating Bodies imploding Starts, 2020, frame da videoinstallazione, Arsenale, 59ª Biennale

Le immagini che scorrono nel video ci conducono in un’ambientazione onirica, dove un gruppo di giovani persone si muovono tra le dune sabbiose e le foreste lituane, incarnando forme e gesti fortemente interconnesse con il mondo vegetale, animale e minerale/geologico.

La colonna sonora, e le parole che accompagnano le sequenze, evocano una profonda nostalgia per uno stato “primordiale” in cui la vita è germogliata da una simbiosi tra organismi di specie differenti; nello stesso tempo, le visioni, carche di poesia, sono create per scardinare i presupposti della cultura antropocentrica, causa delle attuali gravi alterazioni ambientali nel nostro pianeta, alla ricerca di una via d’uscita dalle stesse.

Eglé Budvytyté (1981), Song from the Compost: Mutating Bodies imploding Starts, 2020, frames da videoinstallazione, Arsenale, 59ª Biennale

A questi temi di natura ecologica si intrecciano riflessioni sul corpo e l’identità di genere.

E’ evidente quanto negli ultimi anni sia emerso, in particolare nel mondo giovanile e a livello planetario (la Biennale lo certifica), una nuova consapevolezza rispetto all’ identità sessuale. Ci piaccia, o ci crei disorientamento, il tema sottende un processo rivoluzionario inarrestabile, frutto di nuove acquisizioni teoriche, filosofiche, mediche, scientifiche che appartengono all’ evoluzione del pensiero e della conoscenza in merito alle questioni di genere.

L’immagine che propongo, potente a riguardo, sintetizza le questioni più dibattute e i vissuti più profondi che alcunǝ giovanǝ trans hanno portato alla luce, a volte anche con sofferenza: un corpo che non si riconosce come rappresentativo della propria identità sessuale (da cui la necessità di cancellare il seno) e il complesso tema della maternità/genitorialità che ne deriva.

Eglé Budvytyté (1981), Song from the Compost: Mutating Bodies imploding Starts, 2020, frames da videoinstallazione, Arsenale, 59ª B

La creazione del video di Egle Budvytyté nasce dall’esigenza di cercare nuove vie per costruire relazioni e mondi possibili, all’insegna dell’inclusione e del rispetto, al di là di ogni confine oggi ancora troppo definito e di stabilire una relazione con l’ambiente fondata sulla conoscenza e la collaborazione con tutte le specie viventi.

– Da Samoa, Yuki Kihara, artista Fa’afafine

Dell’universalità delle tematiche di genere è testimonianza il progetto del Padiglione della Nuova Zelanda, Paradise Camp, allestito in Arsenale dall’artista Yuki Kihara.

Yuki Kihara, progetto Pardise Camp, Padiglione della Nuova Zelanda, Arsenale, 59ª Biennale

Siamo dall’altra parte del mondo occidentale, su di un’isola “mitica” allo sguardo coloniale, l’isola di Samoa.

Paradise Camp immagina l’utopia Fa’afafine che frantuma l’eteronormatività coloniale per aprire la strada ad una visione del mondo indigena, che sia più inclusiva e sensibile al cambiamento della natura” afferma Yuki Kihara.

La comunità Fa’afafine dell’isola di Samoa annovera persone indigene del “terzo genere”, cioè persone alla nascita uomini che si percepiscono donne, o con identità fluida; nella cultura dell’isola sono sempre state riconosciute parte integrante di tutta la comunità.

Il progetto trae spunto dall’iconografia di Gauguin, che, pur non avendo vissuto sull’isola di Samoa, aveva raccolto materiale fotografico e documenti anche dalla stessa, riproducendo in alcuni ritratti persone del terzo genere.

Yuki Kihara, progetto Pardise Camp, Padiglione della Nuova Zelanda, Arsenale, 59ª Biennale

Yuky Kihara elabora, con la tecnica fotografica, “tableau vivantes”, in cui da voce alla storia queer polinesiana, con l’obiettivo di decostruire i concetti di razza, genere, sessualità e geografia propri alla cultura coloniale.

Yuki Kihara, progetto Pardise Camp, Padiglione della Nuova Zelanda, Arsenale, 59ª Biennale

Accanto ai protagonisti, i colori sgargianti, i vestiti e i tessuti della tradizione locale, i paesaggi tropicali di fondo, che hanno subito pesanti devastazioni dallo tsunami nel 2009, sono gli ingredienti del linguaggio artistico di Kihara, volto a provocare una discussione sulle trasformazioni in atto in merito al cambiamento climatico, ai temi di genere e agli effetti delle colonizzazioni.

Testo e foto di Ivetta Galli

59ª Biennale: ‘intrecci’ tra simboli preistorici e arte contemporanea

Disegni da simboli astratti della Grotta di La Pasiega (Spagna), attribuiti alla cultura dell’uomo di Neanderthal, 64000 anni fa. Simboli astratti dalla Grotta di Altamira, Paleolitico Superiore e
Ruth Asawa, (1926-2013), Untitled, 1952 ca. – fil di ferro – Arsenale, 59ª Biennale di Venezia

una foglia una zucca un guscio una rete una borsa una tracolla una bisaccia una bottiglia una pentola una scatola un contenitore

Toshiko Takaezu (1922-2011), Vasi in ceramica, Arsenale, 59ª Biennale di Venezia.

Il percorso, proposto nella “IV capsula” della Biennale di Cecilia Alemani, parte da questa lista, intrigante.

La suggestione, attorno cui la curatrice ha raccolto opere del secolo scorso accanto ad altre contemporanee, nasce dal saggio della scrittrice di fantascienza Ursula K. La Guin, “The Carrier Bag Thoery of Fiction” (1986), a sua volta ispirata dalla tesi dell’antropologa Elisabeth Fischer, esposta in “Woman’s creation, Sexual Evolution and the Shaping of Society” ( 1980), volta a costruire una diversa narrazione sull’origine della cultura umana.

Questa narrazione è tesa a sovvertire il racconto dell’uomo nomade dell’epoca paleolitica che, in quanto cacciatore, forgia i primi manufatti in funzione di questa attività, creando intorno a sé un’aura mitica dell’eroe forte e aggressivo, mito che sta alla base di un modello ‘maschiocentrico’, caposaldo della cultura patriarcale.

Un immaginario che persiste ancora nella nostra cultura contemporanea, ribadito recentemente anche dall’etologo Frans De Waal in DiversiLe questioni di genere viste con gli occhi di un primatologo (Raffaello Cortina Editore, 2022), in cui sostiene:

“Il mito secondo cui l’evoluzione avrebbe luogo principalmente attraverso la linea maschile è ancora in auge. Basta aprire un qualunque libro sulla preistoria umana per veder immagini di uomini che fanno la guerra, accendono il fuoco, cacciano grandi prede, costruiscono ripari e difendono donne, bambini e bambine che con aria spaventata si raccolgono in gruppo contro le minacce esterne. “

Il contributo di Ursula Le Guin, scritto negli anni ’80 sull’ onda del femminismo americano, propone una narrazione diversa: alla figura della freccia/lancia dell’uomo/eroe cacciatore (legata anche ai soggetti dei dipinti rupestri e dai reperti archeologici rinvenuti), antepone un’altra ‘immagine’, ovvero quella della borsa/contenitore/cesto/recipiente, invenzione necessaria per raccogliere e conservare semi e frutti, cibo per poter prendersi cura e proteggere la vita (oltre che per contenere e trasportare armi o frecce o altri utensili).

Pinaree Sanpitak (1961), 1. Breast Vessel in the Reds, 2021, acrylic, pencil and feathers on canvas, 2. Offering Vessel, 2021, acrylic and pencil on canvas, 3. Offering Vessel II, 2021, acrylic and paper on canvas, Arsenale, 59ª Biennale di Venezia.

Certo, una diversa lettura della Preistoria, ricca di spunti per la nostra contemporaneità, volta a valorizzare aspetti etici di solidarietà e collaborazione, legati a modelli di socialità costruttiva, piuttosto che di aggressione e morte, di armi affilate e lotta sanguinaria!

Aggiungo che oggi si fa strada anche una visione aggiornata dei ruoli di genere nella Preistoria, grazie alle ricerche archeologiche, che vede anche la donna, oltre che raccoglitrice, partecipe alla caccia, e viceversa.

Alla ricerca di testimonianze visive di ‘Carrier Bags’ paleolitiche

Ma come possiamo dare a questa ‘narrazione’ una consistenza più ‘solida’, avendo a che fare con un’epoca così lontana, con documenti visivi e reperti archeologici che possiamo solo tentare di interpretare?

Mi sono in camminata alla caccia di segni, simboli e tracce tra quello che ci è rimasto della nostra storia più antica, tra le pitture, i graffiti e i reperti paleolitici, per dare un senso più concreto a questa narrazione.

Girovagando in Internet, ho trovato la recensione del libro di Silvia Ferrara, “IL SALTO – segni, figure, parole, viaggio all’origine dell’immaginazione”, edito da Feltrinelli nel 2021; non poteva esserci modo migliore per partire nella mia indagine, essendo un testo aggiornato sulle testimonianze preistoriche in varie parti del mondo, un viaggio appassionato dell’autrice alla ricerca dell’origine della scrittura.

Quindi, sulle tracce di ‘Carrier Bags’ paleolitiche, ho trovato studi di archeologia che sembrano avallare la lettura di Ursula Le Guin ed Elisabeth Fischer.

Tra interpretazione di dipinti rupestri, studi etnografici e racconti mitici

Approfondendo i dipinti rupestri australiani mi sono imbattuta nello studio di Emily Miller, archeologa presso la Griffith University in Australia, ‘Finding fibre in the rock art and ethnography of Western Arnhem Land, Northen Australia‘, (2021) uno scrigno prezioso di notizie intorno alle ‘Carrier Bags’ preistoriche.

E. Miller ci documenta rappresentazioni di oggetti in fibra vegetale, piccole o medie borse in corda, che gli uomini primitivi, come gli indigeni oggi, si appendevano al collo e al busto, probabilmente per motivi rituali, ma non solo, tratte dai dipinti rupestri nel Western Arnhem Land, nel nord dell’Australia, e dagli studi etnografici sulle popolazioni indigene della zona, strettamente legate a tale patrimonio di immagini.

Figura antropomorfa che indossa una borsa da cerimonia e impugna una lancia; 2. Figura antropomorfa con borsa a forma di pesce e manico a zig-zag; fotografie da :”Pathway: people, landscape, and rock art in Djok Country” project, tracing by E. Miller

Ciò testimonia la presenza di oggetti/contenitori realizzati con fibre vegetali intrecciate che, oltre a motivi rituali, potevano servire alle attività di raccolta e conservazione per cibo, ma che per la deperibilità del materiale non si sono conservate.

Purtroppo non sono riuscita a trovare la datazione dei dipinti rupestri pubblicati nel prezioso studio da E. Miller, probabilmente di difficile individuazione; più fortunati sono stati i dipinti rupestri della regione del Kimberley, dove alcune immagini, dette Gwion Gwion Bradshaw, essendo sottostanti a nidi di vespe, datati intorno a 12000 anni fa, dovrebbero risalire ad un’epoca simile o precedente.

Dipinti di figure umane riccamente abbigliate e ornate di accessori, dette Gwion Gwion Bradshaw, risalenti a 12000 anni fa ca. – regione del Kimberly in Australia

E’ evidente il linguaggio formale più dettagliato di questo modello rispetto alle due immagini precedenti; epoche e culture diverse? Tuttavia si ritrovano simili piccole borse che pendono dal collo delle figure.

L’aspetto cerimoniale, tema diffusamente documentato nei dipinti, ci permette di trovare tracce di quella cultura materiale di cui poco o nulla è conservato.

Accanto a questo, anche i miti, racconti ancestrali, che narrano l’origine della popolazione di un territorio, ci possono confermare del ruolo fondamentale proprio delle ‘Carrier Bags’, in questo come in altri contesti geografici.

Dipinto di Yingarna in Injalak Hill, Australia

Ci viene in aiuto il dipinto rupestre che rappresenta Yingarna, disegno che dà forma ad un insieme di racconti simili sulla creazione della civiltà del nord dell’Australia: una figura antropomorfa che porta, appese al collo, 15 borse di foggia più o meno rettangolare e decorate con diversi tratteggi paralleli.

I miti narrano che una donna, immagine della dea madre, arriva in Australia dal mare del nord; è gravida e porta con sé molte borse appese al collo. Camminando verso sud lascia qua e là sul territorio una borsa/cesto, all’interno della quale c’è una creatura e, in alcuni racconti, anche alcune patate; in questo modo, Yingarna dà vita alle diverse comunità locali e ai linguaggi del territorio australiano.

Questo ‘racconto della creazione’ mostra la stretta connessione che esiste tra l’origine della storia del territorio e gli oggetti in fibra vegetale, le ‘Carrier Bags’, appunto, come sostiene la stessa Emily Miller nell’articolo citato.

D’altra parte miti simili sono stati documentati anche in altre aree geografiche, come in Malesia.

Non so se lo posso dimostrare, ma forse, questi miti, hanno antiche radici comuni con le narrazioni in cui la vita di un piccolo essere umano inizia in un cesto (Mosè biblico) o viene portato in un cestino/fagotto (leggenda delle cicogne)?

Intorno ad un frammento di corda intrecciata dall’uomo di Neanderthal

Ma passiamo dalle suggestioni delle immagini e della narrazione a fatti concreti, a ricerche scientifiche che documentano, se ancora ne avessimo bisogno, la ‘creazione’ di ‘Carrier Bags’ dall’origine della cultura umana, dall’uomo di Neanderthal.

E qui ci viene in aiuto un prezioso studio, pubblicato su di una rivista “peer reviewed“, di B. L. Hardy, Direct evidence of Neanderthal fibre technology and its cognitive and behavioral implications, pubblicato nell’aprile 2020 su Scientific Reports.

Il lavoro analizza, con metodo rigorosamente scientifico, il frammento di corda rinvenuto nella grotta paleolitica di Abri du Maras, in Francia, definendone la datazione (45000 ca. anni fa), la composizione delle fibre vegetali intrecciate per creare la corda e confrontando questo reperto con i pochi altri rinvenuti anche in altri depositi paleolitici.

L’indagine, avvincente nel suo svolgimento, induce Hardy a sostenere che “Le fibre vegetali intrecciate forniscono la base per vestiario, corde, borse, reti. stuoie, etc.”.

Eccoci, forse siamo arrivati alla conferma che cercavamo!

Divagazioni interpretative personali su tracce dipinte di corde, reti, stuoie, cesti, borse

Tra i disegni lasciati dai nostri avi sulle pareti delle caverne, tra i graffiti rupestri realizzati anche su manufatti scultorei, ho cercato tracce di oggetti in fibre vegetali, in particolare tra quella ricca documentazione di simboli astratti conservati.

Qui propongo una personale interpretazione di alcuni simboli astratti, in alcuni casi classificati dagli studiosi come ‘tettiformi’, consapevole di muovermi su un terreno scivoloso ed esposto a contestazioni.

Si tratta, prevalentemente di disegni paleolitici in cui, all’interno di contorni non sempre regolari, vedono tratteggiate griglie, linee parallele, segni di diverso spessore; per questi simboli azzardo l’ipotesi che possano rappresentare oggetti creati dall’intreccio di fibre vegetali

1. Frammento di ocra con incisioni a griglia, Blombos, Sud Africa, 60.000 ca. anni fa – 2. Dipinti dalla Grotta de La Pasiega, Spagna, 65.000 ca. anni fa – 3 e 4. Dipinti dalla Grotta di Monte Castillo, (canestri?), Spagna, 22.000 ca, anni fa – 5. Disegni dalla Grotta di Altamira, Spagna, 16.000 ca. anni fa.

Aggiungo queste due immagini: una piccola statua in avorio la cui testa sembra coperta da una rete in fibra vegetale (se non è la stilizzazione di capelli ricci!) e un disegno rettangolare in cui la griglia disegnata si fa decisamente più regolare rispetto alle precedenti forme:

Testina in avorio della Venere di Brassempouy (la dame à la capouche), Francia, 25.000 ca. anni fa – Disegno dalla Grotta del Boxu, Spagna, 19.000 ca. anni fa.

Ancora due esempi di rappresentazioni che risalgono a circa 10.000 anni fa, interessanti in quanto: nella prima figura sono visibili due borse/fagotti appese ai polsi, mentre il secondo rilievo, ingrandito nella terza immagine, sembra proporre un capitello/canestro decorato con intrecci di rimando vegetale.

Dal deserto del Sahara, dipinti del periodo delle teste rotonde, Algeria, 9500 ca. anni fa; Pilastro a T, Gobekli Tepe, Turchia, 10000 ca. anni fa.

Nelle rappresentazioni neolitiche, espressioni di una cultura stanziale, le immagini di trame e tessuti si fanno più riconoscibili e identificate come tali dagli studiosi; riporto alcuni esempi da cui si evince l’evoluzione del linguaggio grafico verso una sintesi e geometrizzazione delle forme.

Particolare di menhir antropomorfo di Aosta, con trama di tessuto incisa; dai graffiti della Val Camonica, in alto, disegno di stuoia (?) e sotto rappresentazione riconosciuta di un telaio.

Dalle ‘Carrier Bags’ paleolitiche alle opere esposte ne “Il latte dei sogni”

Come si riflette la narrazione di Ursula Le Guin sui lavori artistici selezionati ed esposti alla Biennale, in questa sezione?

Consapevolmente o meno, dalle forme elaborate in alcune rappresentazioni artistiche si coglie una simile ‘forma mentis’ e un’adesione alla pregnanza simbolica propria al significato della creazione di recipienti/borse/contenitori, in particolare in relazione al ruolo della donna; premesso che nella realtà l’attività di intreccio di reti o ceste o altro non è stata e non è esclusivamente femminile, il percorso intrapreso dalla mostra privilegia il contributo delle donne artiste.

Ho scelto alcune opere realizzate nel Novecento, da artiste non più viventi; di seguito, presento lavori del nuovo millennio, di artiste contemporanee.

Ruth Asawa, (1926-2013), Untitled, 1952 ca. – fil di ferro – Arsenale, 59ª Biennale di Venezia

L’installazione di Ruth Asawa, artista giapponese, ma che ha vissuto negli Stati Uniti, propone forme/contenitori realizzati con filo di metallo, secondo tecniche di intreccio per realizzare ceste proprie del Messico. Il recupero di una sapienza artigianale antica, le cui radici affondano nella cultura precoloniale (motivo che ritorna in molti lavori esposti nella mostra), viene valorizzata da Ruth per proporre oggetti evocativi del corpo femminile, come di oggetti di raccolta, cura e conservazione.

Toshiko Takaezu (1922-2011), Vasi in ceramica, Arsenale, 59ª Biennale di Venezia.

Le variegate forme, modellate in ceramica smaltata dall’artista hawaiana, Toshiko Takaezu, rimandano a bozzoli, zucche, recipienti e contenitori della natura, che hanno perso l’originaria funzione di raccogliere o di preparare alla vita, non avendo aperture; si propongono come icone simboliche della potenza generatrice della natura.

Belkis Ayon (1967-1999), La pesca, 1989, collografia su carta – Arsenale, 59ª Biennale di Venezia.

Belkis Ayon, artista cubana, intreccia la propria esperienza con quella dei racconti e dei miti di una confraternita afrocubana, dando vita ad immagini cariche di simboli e codici che attinge da quella profondità culturale. Le sue opere sono valorizzate da una tecnica di stampa che, da una variegata gamma dal bianco al nero, risulta efficace nello svelare la stratificazione delle immagini sedimentate nella memoria di questo popolo afrocubano. Qui ho selezionato una scena di pesca, in cui la presenza di reti/involucri per la raccolta del pesce, evoca l’antico e necessario gesto di creazione di “Carrier Bags”.

Niki De Saint-Phalle (1930-2013), Gwendolyn, 1966-1990, Resina di poliestere dipinta, su base di metallo – Arsenale, 59ª Biennale di Venezia

Gwendolyn incarna il prototipo delle ‘Nanas’ di Niki de Saint Phalle, aggiornate Veneri preistoriche, che esibiscono con gioia ed orgoglio le forme femminili, il proprio potere creativo. Il corpo della donna diventa luogo in cui si raccoglie la vita, il contenitore per eccellenza, si carica del profondo e ancestrale significato insito nei miti della creazione.

Maria Bartuszova (1936-1996), Untitled, 1986, gesso – Arsenale, 59ª Biennale di Venezia

Artista di origine cecoslovacca, Maria Bartuszova modella col gesso forme tonde ed ovoidali, di rimando all’ uovo, ad elementi organici, luoghi di generazione di una vita. Tessuti fragili rivestono queste forme, avvolti in più strati per resistere in parte alla rottura, ma pronti a schiudersi.

Saodat Ismailova (1981), Palyack, tessuto ricamato e Chillahona, video a tre canali, 2022 – Arsenale, 59ª Biennale di Venezia

In questa installazione, la giovane artista uzbeka mette in dialogo il video a tre canali, girato a Tashkent, in Uzbekistan, con un Palyack, tessuto tradizionale da lei ricamato, che riporta il disegno della cosmologia femminile, la cui forma concava vuole potenziarne la funzione di protezione, guarigione e fertilità. La luce colorata, di cui il tessuto è imbevuto, proviene dalle immagini del video, girato intorno alle celle sotterranee disposte su tre piani e di forma ottagonale, dette Chillahona, luoghi per l’autoisolamento e la meditazione, spazi architettonici che assurgono a simboli di rinascita; in particolare nel video segue una donna in questo percorso di discesa nello spazio più profondo. Con questo lavoro l’artista ricerca le radici della propria cultura, recuperando i riti e le manifestazioni sacre in cui le donne hanno avuto un ruolo fondamentale.

Portia Zvavahera (1985), Captured Owls e Uplifted, part, 2021 – inchiostro da stampa su base oleosa, olio su tela – Arsenale, 59ª Biennale di Venezia

Le visioni oniriche di Portia Zrarahera, artista dello Zimbawe, sono contaminate dalla propria cultura indigena africana e portano alla luce soprattutto figure femminili in momenti di ritualità secolari (cortei nuziali, parto, momenti di preghiera…). La forma avvolgente in Captured Owls evoca un grande cesto, che contiene un racconto visionario ancestrale, dove un gruppo di donne si raccoglie per trovare conforto nell’amicizia e nella preghiera, per esorcizzare incubi e sofferenze e trovare la pace. Il cesto di fibre vegetali diviene forma simbolica di ricerca di libertà e della vita.

Emma Talbot (1969), particolari dell’installazione all’Arsenale, 2022, 59ª Biennale di Venezia.

L’intervento dell’artista inglese Emma Talbot è complesso e stratificato: da un grande e avvolgente telo di seta dipinto, diaframma leggero, Where Do We Come From, What Are We, Where Are We Going?, riflessione drammatica sul desiderio di fuga per le catastrofi climatiche, all’inquietante donna scura, inginocchiata e tesa in una lotta forse tra vita e morte. Un’Eva contemporanea, con serpente ai suoi piedi, si proietta su di un cerchio di metallo, rivestito da un tessuto di rete di rame sottile, frammento di natura imprigionato, recipiente che non contiene più nulla. Un disperato grido di desiderio di vita in cui la donna, portatrice di vita e di forza, è protagonista assoluta.

Pinaree Sanpitak (1961), Breast Vessel in the Reds, 2021, acrylic, pencil and feathers on canvas, Arsenale, 59ª Biennale di Venezia.

L’artista tailandese elabora nelle sue opere le forme di parti del corpo femminile (seni, uova, linee incurvate…), trasfigurandole in recipienti che ricordano ciotole rituali, grazie alla raffinata e complessa tecnica di esecuzione dell’opera (all’uso di acrilici aggiunge texture ottenute con piume, foglie d’oro e argento e seta). In questo modo il corpo femminile viene valorizzato e celebrato per le sue ricche potenzialità.

Acaje Kerunen, Radience – They Dream in Time, 2022 – Padiglione Uganda, Palazzo Palumbo Fossati, Venezia

Per finire questo percorso voglio rendere omaggio ad Acaje Keruen, (di cui ho parlato nell’articolo: https://wordpress.com/post/notediarte.wordpress.com/3251), artista del Padiglione dell’Uganda, per il cui lavoro ha coinvolto donne della propria terra, creatrici di ceste, tappeti, borse, stuoie, per riannodare, in un percorso di crescita collettiva, gesti e motivi della cultura indigena; dall’intreccio di fibre vegetali presenti in loco, di banani e sorgo, da foglie di palma, dalla rafia, ha dato loro la possibilità di affermare con orgoglio il proprio ruolo di donne e la propria esistenza.

Testo e foto di Ivetta Galli

59ª Biennale di Venezia: Turchia, Füsun Onur

Füsun Onur (1939), Once upon a time, Dance, 2022 – filo metallico, carta crespa, tulle, palline da ping pong,
Padiglione della Turchia, Arsenale, Venezia

Galleggiano leggeri e fragili, su bianche piattaforme, i protagonisti di questa favola messa in scena da Füsun Onur: cani e gatti si alleano per contrastare il potere agito dagli uomini sull’ambiente, distruggendo gli equilibri naturali e generando effetti devastanti, non ultimo, la pandemia di Covid.

L’artista del Padiglione Turco visualizza la nostra situazione di uomini di fronte alla diffusione del virus utilizzando un linguaggio che coglie in pieno tutta la fragilità e l’incertezza della nostra specie.

Füsun Onur (1939), Once upon a time, 2022 – filo metallico, carta crespa, tulle, palline da ping pong,, filo di rame
Padiglione della Turchia, Arsenale, Venezia

Cani e gatti, come in ogni favola che si rispetti, incarnano le esperienze e i vissuti degli umani, paure, preoccupazioni, ma vivono anche i momenti più emozionanti della vita, la collaborazione per risolvere un problema, momenti di festa, incontri d’amore.

Füsun Onur (1939), Once upon a time, 2022 – filo metallico, carta crespa, tulle, palline da ping pong,, filo di rame
Padiglione della Turchia, Arsenale, Venezia

A loro l’artista sembra affidare il compito di ‘salvare l’umanità’, proponendo un necessario ribaltamento di visione dei rapporti tra le specie viventi, riflessione ricorrente all’interno della Biennale.

Per apprezzare i dettagli di questa estesa messa in scena dobbiamo curvarci, accovacciarci, dialogare con un mondo in miniatura, alla caccia di particolari che la nostra vista, superficiale, spesso non coglie. Füsun ci sfida anche in questo, non solo decostruendo linguaggi più aulici e tradizionali, ma anche costringendoci a ‘farci piccoli’, a metterci allo stesso livello dei suoi protagonisti. Così troviamo una feroce denuncia nei confronti dell’antropocentrismo costruita con poesia e delicatezza, con sensibilità e serenità.

Füsun Onur (1939), Once upon a time, 2022 – filo metallico, carta crespa, tulle, palline da ping pong,, filo di rame
Padiglione della Turchia, Arsenale, Venezia

Accompagna il racconto il tema del viaggio in mare, immaginando i protagonisti partire da Istanbul per arrivare a Venezia, per trovare alleati alla propria impresa. E il racconto si ferma lì, rimane sospeso, in coerenza con l’atmosfera di sogno, così poeticamente allestita.

Testo e foto di Ivetta Galli