59ª Biennale di Venezia: Turchia, Füsun Onur

Füsun Onur (1939), Once upon a time, Dance, 2022 – filo metallico, carta crespa, tulle, palline da ping pong,
Padiglione della Turchia, Arsenale, Venezia

Galleggiano leggeri e fragili, su bianche piattaforme, i protagonisti di questa favola messa in scena da Füsun Onur: cani e gatti si alleano per contrastare il potere agito dagli uomini sull’ambiente, distruggendo gli equilibri naturali e generando effetti devastanti, non ultimo, la pandemia di Covid.

L’artista del Padiglione Turco visualizza la nostra situazione di uomini di fronte alla diffusione del virus utilizzando un linguaggio che coglie in pieno tutta la fragilità e l’incertezza della nostra specie.

Füsun Onur (1939), Once upon a time, 2022 – filo metallico, carta crespa, tulle, palline da ping pong,, filo di rame
Padiglione della Turchia, Arsenale, Venezia

Cani e gatti, come in ogni favola che si rispetti, incarnano le esperienze e i vissuti degli umani, paure, preoccupazioni, ma vivono anche i momenti più emozionanti della vita, la collaborazione per risolvere un problema, momenti di festa, incontri d’amore.

Füsun Onur (1939), Once upon a time, 2022 – filo metallico, carta crespa, tulle, palline da ping pong,, filo di rame
Padiglione della Turchia, Arsenale, Venezia

A loro l’artista sembra affidare il compito di ‘salvare l’umanità’, proponendo un necessario ribaltamento di visione dei rapporti tra le specie viventi, riflessione ricorrente all’interno della Biennale.

Per apprezzare i dettagli di questa estesa messa in scena dobbiamo curvarci, accovacciarci, dialogare con un mondo in miniatura, alla caccia di particolari che la nostra vista, superficiale, spesso non coglie. Füsun ci sfida anche in questo, non solo decostruendo linguaggi più aulici e tradizionali, ma anche costringendoci a ‘farci piccoli’, a metterci allo stesso livello dei suoi protagonisti. Così troviamo una feroce denuncia nei confronti dell’antropocentrismo costruita con poesia e delicatezza, con sensibilità e serenità.

Füsun Onur (1939), Once upon a time, 2022 – filo metallico, carta crespa, tulle, palline da ping pong,, filo di rame
Padiglione della Turchia, Arsenale, Venezia

Accompagna il racconto il tema del viaggio in mare, immaginando i protagonisti partire da Istanbul per arrivare a Venezia, per trovare alleati alla propria impresa. E il racconto si ferma lì, rimane sospeso, in coerenza con l’atmosfera di sogno, così poeticamente allestita.

Testo e foto di Ivetta Galli

59ª Biennale di Venezia: Uganda, Acaje Kerunen e Collin Sekajugo

Acaje Kerunen, Radience – They Dream in Time, 2022 – Padiglione Uganda, Palazzo Palumbo Fossati, Venezia

Persi tra i labirinti di calli e rii veneziani, giungiamo finalmente al Padiglione dell’Uganda, in Palazzo Palumbo Fossati, scrigno prezioso dei lavori di due artisti quarantenni ugandesi, Acaje Kerunen e Collin Sekajugo.

Un’energia vitale sprigiona dalle opere dei due protagonisti, esposte in dialogo tra loro.

Acaje Kerunen è un’artista multidisciplinare, spazia tra performance, installazioni, scrittura, recitazione ed attivismo politico.

Acaje Kerunen, Ouganda, 2021 – Mixed Media, Palazzo Palumbo Fossati, Venezia

L’artista, per la realizzazione dei suoi lavori, ha coinvolto le donne della propria terra, creatrici di ceste, tappeti, borse, stuoie, per riannodare, in un percorso di crescita collettiva, gesti e motivi della cultura indigena; dall’intreccio di fibre vegetali presenti in loco, di banani e sorgo, da foglie di palma, dalla rafia, ha dato loro la possibilità di affermare con orgoglio il proprio ruolo e la propria esistenza.

Acaje ha curato l’aspetto formale, l’accostamento cromatico, trasformando oggetti d’artigianato in opere d’arte. Con quest’intervento artistico ha realizzato alcuni dei suoi obiettivi sociali e politici: l’affermazione del lavoro delle donne, in funzione di un riscatto definitivo dallo sfruttamento coloniale e patriarcale, la ricerca di un dialogo con gli elementi naturali, motivo urgente di fronte alle tematiche ecologiche attuali.

Nell’installazione Rain of Prayer, una fitta presenza di nastri intrecciati che cadono dall’alto, rievoca un rito antico volto ad augurare la pioggia (quanto necessario lo comprendiamo oggi, in questo periodo di siccità!).

Acaje Kerunen, Rain of Prayer, 2022 – Mixed Media, Palazzo Palumbo Fossati, Venezia

L’emersione di una antica cultura africana, riletta in chiave artistica contemporanea, portata alla luce con un intento quasi antropologico, accanto alla voce data alle donne e al loro fare creativo, volto alla cura delle persone e alla progettazione di un ambiente accogliente e collaborativo, è un tema ricorrente nella 59ª Biennale, curata da Cecilia Alemani.

Acaje Kerunen, Radience – They Dream in Time, 2022 – Padiglione Uganda, Palazzo Palumbo Fossati, Venezia

Accanto alla ricerca di Acaje si impongono i dipinti di Collin Sekajugo: potenti tele, dipinte con acrilici, con inserti a collage di stoffa di corteccia o cotone cerato, utilizzando ciò che la tradizione ugandese offre.

Collin Sekajugo, due opere della serie Stock Image 0 in ‘Radience – Dream in Time’, 2022 – Padiglione Uganda, Palazzo Palumbo Fossati, Venezia

Ritratti di persone rubati in momenti di intimità, spontanei e profondamente umani; frammenti di racconti di quotidianità e di vissuti. Figure che si perdono tra pezze decorative di tessuti o carte da parati, pattern di simboli che ci ribaltano nella cultura africana. Trame ritmiche di tinte cariche e sature in primo piano, più smaterializzate, quasi al confine del sacro, sul fondo, per rimarcare la tensione emotiva narrata.

Collin Sekajugo, Stock Image 001 – Boy In Wheelchair, 2021 e Stock Image 010 – Falling in love, 2018-21

L’artista coglie frammenti di realtà, trasfigurati in cromie e decorazioni che ne avvolgono le sembianze, documentando il desiderio inarrestabile di superare una condizione di subalternità alle culture ed economie eurocentriche, per rivendicare con orgoglio la propria esistenza.

Testo e foto di Ivetta Galli

Otobong Nkanga, Agnieszka Kurant, Bracha Ettinger:

percorsi nello spazio, nel tempo e nella memoria

Bracha Ettinger, Notebooks, 1984-2021 – Castello di Rivoli

Salire e scendere le numerose rampe sospese del Castello di Rivoli rappresenta un buon viatico al viaggio che si intraprende immergendosi nei progetti artistici di tre protagoniste del mondo contemporaneo: Bracha Ettinger, nata nel 1948 a Tel Aviv, Otobong Nkanga, nel 1974 a Kano (Nigeria) e Agnieszka Kurant, nel 1978 a Lodz (Polonia).

Otobong Nkanga, Of Cords Curling around Mountains, installazione site-specific, 2021Castello di Rivoli

Le artiste, che utilizzano mezzi espressivi anche molto differenti, frutto della loro formazione e cultura, con i progetti esposti danno forma ad alcuni ‘topos’ ricorrenti, quali: la figura del paesaggio, della mappa geografica e della rete di connessione tra luoghi, storie e vissuti; la corda, la linea, il filo, il segno che può delimitare, contenere, e anche legare, intrecciare o tessere collegamenti tra nodi, punti significativi.

Agnieszka Kurant, Maps of Phantom Islands, 2011, pigmenti di colore su carta cartone – Castello di Rivoli

Al fondo di molti lavori si percepisce un senso di perdita, nella coscienza di vite e di mondi inorganici che si esauriscono e si trasformano e, nello stesso tempo, si fa il forte il desiderio di ricreare e modellare, attraverso la bellezza dei procedimenti artistici, lo spazio in cui siamo immersi.

Otobong Nkanga

Otobong Nkanga disegna, al terzo piano del Castello, un planisfero multisensoriale disponendo una corda che inanella sculture di forma organica, simbolo della terra, degli alberi, di bozzoli di esseri viventi, ricchi di concavità che raccolgono erbe ed olii curativi e profumati, frammenti delle risorse naturali della sua terra, o sfere che diffondono piacevoli voci narranti.

La corda, intrecciata manualmente con fili di cotone, è il ‘filo conduttore’ che penetra le pareti delle sale del piano, invitandoci ad esplorare l’al di là del muro, con un percorso di sorprese successive, fino a trovare il “tesoro”, due morbidi e vivaci tappeti, dalle nervature del quarzo e della malachite, da cui la corda ha origine.

Materiali e risorse naturali, di cui è ricca la terra africana, immagine di una cultura troppo a lungo colonizzata e sfruttata, diventano gli elementi protagonisti dell’intervento di Otobong: l’artista lavora recuperando un operare artigianale, manipolando sapientemente le ‘materie’ in modo sostenibile ed ecologico.

Sulle pareti dipinte, di un giallo caldo, Otobong traccia versi poetici, quasi cassa di risonanza al richiamo della nostra responsabilità alla cura degli elementi del mondo naturale, della vegetazione, della materia organica ed inorganica che supporta la nostra vita. Una ‘poetica’ denuncia anche del pesante sfruttamento coloniale delle risorse africane.

Agnieszka Kurant

Agnieszka Kurant costruisce i propri progetti sfruttando le potenzialità dell’intelligenza artificiale, convinta che ciascuno di noi può influenzare i cambiamenti nella collettività utilizzando, in particolare, le risorse del mondo digitale. Nello stesso tempo l’artista sceglie modalità di intervento volte a sostenere gruppi e associazioni che operano politicamente per informare criticamente sull’uso dei social media.

Agnieszka Kurant, Conversions 2019-2021- frame1 – Inchiostro a cristalli liquidi su lastra di rame, programmazione personalizzata, transistor 58 3/4 x 36 3/4 pollici – Castello di Rivoli
Agnieszka Kurant, Conversions 2019-2021- frame2 – Inchiostro a cristalli liquidi su lastra di rame, programmazione personalizzata, transistor 58 3/4 x 36 3/4 pollici – Castello di Rivoli

Il dipinto a cristalli liquidi produce un’immagine in trasformazione che richiama un paesaggio notturno registrato da droni che colgono punti-luce di una mappa in evoluzione.

La dilatazione dei punti colorati è determinata dall’intensità delle emozioni di attivisti che partecipano a manifestazioni di protesta, rilevata ed elaborata da algoritmi che attingono, dalle banche dati dei social media, tali informazioni.

In Adjacent Possible, Agnieszka Kurant utilizza migliaia di immagini di segni grafici dei dipinti rupestri Asiatici ed Europei, raccolte in archivi di dati, per generare, attraverso procedimenti algoritmici, nuovi segni, che risultano frutto di un’intelligenza collettiva. L’artista costruisce un ponte con un passato lontano rielaborando tracce di impronte preistoriche attraverso strumenti digitali.

Agnieszka Kurant, Adjacent Possible, 2021, pietra di Luserna e pigmenti vivi – Castello di Rivoli

Il supporto, la pietra di Luserna, viene ricoperto da segni realizzati con pigmenti vivi, cioè da una miscela studiata osservando la trasformazione dei colori dei dipinti paleolitici, dovuta alla colonizzazione nel tempo di batteri e funghi; l’artista, con la collaborazione di biologi, ha sintetizzato nuovi pigmenti utilizzando particelle di funghi, licheni, coralli e meduse.

Agnieszka Kurant sperimenta con la sua ricerca il concetto che l’opera d’arte può essere frutto dell’intelligenza artificiale e dell’intelligenza collettiva, umana e non, mettendo in discussione il tradizionale concetto di ‘autorialità’.

Bracha Ettinger

Paesaggi dell’inconscio, mappe di frammenti della memoria, sono tracciati da Bracha Ettinger sui taccuini, utilizzati anche nell’attività di psicanalista e, per questo, ricchi anche di note scritte, in inglese, ebraico e francese. Nootebooks che vengono poi rilegati a mano con estrema cura, racchiusi in copertine di tessuto, ricamate con simboli, segni, note varie e nastri colorati.

Bracha Ettinger, Notebooks, 1984-2021 – Castello di Rivoli

Bracha Ettinger, filosofa, psicoterapeuta e artista, dà forma ad una materia complessa, quale è il territorio della nostra parte più oscura, utilizzando una gamma cromatica definita: il rosa, il color glicine, nelle sue sfumature anche più intense di viola, la gamma dal grigio al nero.

Bracha Ettinger, Notebooks, 1984-2021 – Castello di Rivoli

La raccolta dei taccuini, giacimento prezioso anche per i contenuti che raccolgono di riflessione e documentazione psicanalitica, testimoniano quanto l’arte possa ‘curare e guarire’.

Bracha Ettinger, Notebooks, 1984-2021 – Castello di Rivoli

Della necessità di riparare traumi, si fanno testimoni anche i quadri dipinti da Bracha (i cui genitori sono sopravvissuti all’Olocausto), nati dall’elaborazione di fotografie del 1942 di donne e bambini ebrei nel ghetto di Mizoch (oggi Ucraina), prima di essere uccisi dai Nazisti.

Bracha Ettinger, Euridice n.54, 2015-16, olio su carta su tela – Castello di Rivoli

Le velature sovrapposte di colori evocano forme che, piegate dal dolore, si stringono disperatamente.

“Nei quadri, pur nell’infinità degli strati, nulla viene propriamente cancellato. In un processo che allude a un divenire infinito, essi liberano ‘memorie della dimenticanza’ che appaiono come fantasmi.” (da Il processo della pittura è senza fine di Marcella Beccaria, dal Catalogo alla Mostra su Bracha Ettinger al Castello di Rivoli, Skira 2021)

Viaggio nella memoria e nella storia, le opere autobiografiche di Bracha urlano il dolore della tragedia dell’Olocausto, aprono alle inquietudini e angosce dell’inconscio, eppure, magneticamente attraggono e confortano per la forza dell’elaborazione estetica.

Testo e foto di Ivetta Galli

CHEN ZHEN, ‘Short-circuits’. Le forme del pensiero

Opening of Closed Center, 1997, particolare dei ‘Pots de riz’

Finalmente si può tornare ad esplorare lo spazio dell’immaginario e della creatività degli artisti!

E l’Hangar Bicocca ci regala un affascinante viaggio nell’arte di Chen Zhen, artista cinese nato a Shangai nel 1955 e morto per malattia prematuramente nel 2000 a Parigi.

Le grandi installazioni che si incontrano durante il percorso della mostra aprono flash ‘illuminanti’ sulle tematiche della seconda metà del Novecento.

L’artista rielabora la propria esperienza plasmando forme pregne di simboli create con oggetti e materiali attinti dagli elementi che il pensiero taoista utilizza per descrivere l’ambiente che ci circonda, legno, fuoco, terra, metallo e acqua, e base della medicina tradizionale cinese, integrando le sue radici orientali alla cultura occidentale.

Le chemin/Le Radeau de l’écriture, 1991, particolare
Le chemin/Le Radeau de l’écriture, 1991

Mettiamoci in cammino dall’opera ‘Le chemin/Le Radeau de l’ecriture’, del 1991, seguendo un itinerario cronologico delle opere esposte, che non corrisponde alla collocazione delle stesse nello spazio espositivo.

Traversine ferroviarie in disuso, sulle quali l’artista incide il proprio nome, evocano il viaggio, memoria del proprio emigrare a Parigi, nel 1986; le travi di legno poggiano su giornali e libri deteriorati dall’uso e mescolati ai frammenti di roccia alla base. Natura, cultura, tecnologia si compattano in questa piattaforma alla deriva, motivi comuni alle culture dell’est e dell’ovest, facendoci percepire la vertigine della velocità delle trasformazioni in atto, sull’onda della globalizzazione.

Simile riflessione si coglie in ‘Le Rite suspendu/moullié’, opera dello stesso anno, concepita come riflessione sui medium del fare arte.

Chen Zhen ingabbia cornici di legno e strumenti tradizionali dell’operare artistico in teche di vetro e metallo, annegandoli in acqua, qua e là tinta di rosso. Il ‘rosso’ è forse l’unico colore che l’artista utilizza: memoria ‘visiva’ del suo vissuto infantili della lettura imposta del Libretto Rosso di Mao? Al centro delle quattro teche un gruppo di una decina di cilindri trattati in modo simile: contenitori di rotoli di antiche pergamene dipinte, preziosi documenti della storia della pittura cinese.

Chen Zhen, ora a Parigi, si apre ad un fare artistico contemporaneo sollecitato dalla rivoluzione dadaista facendo propri i linguaggi dei movimenti della seconda metà del Novecento: New-Dada, Nouveau Réalisme e Arte Povera.

In ‘Round Table’, del 1995 lo sguardo poetico di Chen Zhen, nutrito dai propri vissuti personali, si intreccia con i temi politici e sociali della propria epoca.

Round table, 1995

L’essenziale ed ampio tavolo di legno rotondo, luogo del pasto consumato nelle feste e spazio di incontro e di dialogo, qui richiama le ‘tavole rotonde’ delle Nazioni Unite, nazioni incarnate dalle sedie sospese di foggia diversa, attorno al cerchio centrale su cui sono incisi alcuni temi della Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo.

Round table, 1995 particolare

Diritti dell’Uomo ancora lontani da essere realizzati per tutti, come ci ricorda in ‘The voice of Migrators’, dello stesso anno.

The voice of Migrators, 1995

La forma del globo/mondo che ritorna nell’immaginario artistico di questi anni, simbolo dell’esplosione dei temi della globalizzazione, tinta di vari colori dei lacerti di vestiti intrecciati, emette, da altoparlanti, voci di uomini che raccontano storie di migrazione.

Chen Zhen, figlio di medici, scopre nel 1970 di avere una malattia autoimmune; la ricerca di terapie di guarigione lo induce ad approfondire la medicina tradizionale cinese ed a vivere esperienze di meditazione buddista; patrimonio che si riversa nel suo operare artistico, vissuto anche come cura.

Obsession de longévité, 1995, stanza che racchiude medicamenti della medicina tradizionale cinese

Lavoro suggestivo e ricco di simboli stratificati è l’installazione ‘ Daily Incantations’, del 1996.

Daily incantation, 1996

L’artista costruisce un’orchestra silente con strutture lignee a forma concava a cui sono appesi e allineati una serie di vasi da notte, sul modello di un antico strumento musicale cinese, il Bianzhong; la percussione delle campane di bronzo creava suoni e armonie musicali suggestive per la meditazione.

Bianzhong, from the Tomb of Marquis Yi of Zeng dated 433 BC

Ogni mattina mi recavo a scuola al suono dei vasi da notte che venivano risciacquati…”, racconta Chen Zhen. L’evocazione di questo umile gesto, come colonna sonora di un rito quotidiano, da un lato appare permeata da sottile ironia, dall’altro lato trasforma il vaso di legno in un prezioso scrigno artistico, oggetto di creazione artigianale e cassa di risonanza del ritmo vitale.

Daily incantation, 1996, particolare

Il grande globo che racchiude scarti di ferraglie di oggetti contemporanei legati alla riproduzione del suono elettronico, ripropone quel corto-circuito tra passato e presente, tra antichi e lenti tempi e vorticose mutazioni dell’oggi, generanti un “mondo di scarti”.

Daily incantation, 1996, particolare

Dal lavoro di Chen emerge una forte tensione spirituale, come il desiderio di ritualizzare momenti della quotidianità per ricreare un forte senso di collettività tra gli uomini; la propria esperienza personale/individuale è collegata a quell’energia universale di cui è solo una delle tante espressioni, come principio delle filosofie orientali.

In Crystal Gazing, del 1999, la limpida sfera di cristallo di una semplice ampolla di laboratorio, richiama la nostra attenzione dopo esserci avvicinati a una intrigante forma organica avvolgente, grande goccia d’acqua o utero o frutto, appesa ad una struttura lignea.

Racchiusa da file di sferette di legno, tratte dagli abachi per contare, ma anche palline per pregare dei rosari buddisti, la superficie convessa della sfera/mondo di cristallo, riempita di acqua fisiologica, riflette l’universo attorno capovolto, con le nostre piccole sagome.

Siamo piccole parte di quell’universo collettivo, siamo fragili e bisognosi di cura.

Chen Zhen era attratto dal mondo della medicina, a lui contiguo per i problemi di salute oltre che per motivi familiari; nel fare arte cerca e trova una funzione terapeutica e la grande ‘installazione relazionale’ ‘Jue Chang – Dancing Body – Drumming Mind (The last Song)’, del 2000, è concepita proprio come una summa della sua ricerca ed una proposta di apertura ad una partecipazione collettiva che, tuttavia, oggi, per il Covid 19, non è esperibile.

Jue Chang – Dancing Body – Drumming Mind (The last Song), installazione, 2000

L’artista assembla attorno ad uno spazio centrale sedie e strutture lignee di letti, intelaiati tra loro con uno spago che disegna una regolare maglia intrecciata; tende poi sugli oggetti pelle di vacca, come negli antichi strumenti di percussione, proprio per invitarci a battere ritmicamente insieme, danzando, creando una grande cassa di risonanza del nostro mondo emotivo.

Jue Chang – Dancing Body – Drumming Mind (The last Song), installazione, 2000, particolare
Jue Chang – Dancing Body – Drumming Mind (The last Song), installazione, 2000, particolare

Peccato non poter prendere parte a questo rituale di liberazione e gioia che nasce da una massima buddista per cui battere, colpendo le parti coinvolte in una disputa, viene considerato un modo necessario per risolvere i conflitti.

Il gesto si fa metafora della ricerca di un’armonia universale.

Uno sguardo disincantato ai conflitti violenti del mondo contemporaneo e un racconto del dramma dell’emigrazione/fuga soprattutto dei più giovani dalle proprie terre invivibili prende forma nell’opera ‘Six Roots Enfance/Garcon‘, 2000

Non servono commenti, il messaggio è esplicito per chi vuole capire.

Six Roots Enfance/Garcon’, 2000, installazione, tre particolari

L’ultima sala dell’esposizione, racchiude una riflessione sgomenta/serena sulla morte; ancora un corto circuito che Chen Zhen ci propone come lascito della sua intensa e affascinante ricerca artistica.

Lo stesso titolo, ‘ Jardin lavoir’, ci costringe a fare i conti con il concetto di trasformazione e ciclicità della vita, percezione che viene valorizzata dalla forma letto/fontana.

Undici letti/fontana sono distribuiti nell’ampio spazio cubico della sala; il pellegrinaggio che siamo invitati a percorre da un’opera all’altra, reliquie della nostra storia, ci permette di scoprire forme e colori che circondano la nostra esistenza e, come la nostra esistenza, diventano ‘nature morte’, oggetti che hanno una vita limitata, che nel tempo della storia e nella corrosione lenta determinata dall’acqua e degli elementi naturali, si riscatteranno, forse, in qualcosa d’altro.

Molto altro si può scoprire in questa mostra, di cui ho selezionato solo alcune opere; Chen Zhen si rivela essere un grande artista, interprete della seconda metà del Novecento.

Testo e foto di Ivetta Galli

“NON E’ UNA BIENNALE (58ª) PER VECCHI” – 7. RIPARTIAMO DAL RITO

Appunti sulla 58ª Biennale di Venezia

Vai all’introduzione di “non è una biennale per vecchi”

RIPARTIAMO DAL RITO

Shilpa Gupta (Mumbai 1976) For in You Tongue I cannot fit – Sound Installation with 100 speakers, microphones, printed text and metal stands, Site Specific. Arsenale, Biennale di Venezia 2019

Il richiamo di un recitativo corale, ritmato da melodie meditative, sottotono, diffuse, mi ha prepotentemente attirato all’interno dell’ intensa installazione dell’artista indiana Shilpa Gupta.

In una sala con luci basse e soffuse, una selva di 100 aste metalliche simili a leggii, al posto di sorreggere spartiti musicali trafiggono con punte affilate bianchi fogli con frammenti di versi di altrettanti poeti; l’artista ha raccolto testimonianze di poeti incarcerati, e a volte condannati a morte, di diverse nazioni, dal VII secolo ad oggi.

Shilpa Gupta (Mumbai 1976) For in You Tongue I cannot fit – particolare. Sound Installation with 100 speakers, microphones, printed text and metal stands, Site Specific. Arsenale, Biennale di Venezia 2019

Una pioggia di microfoni dal soffitto si lega a ciascun poema, dando voce ai versi e alle diverse lingue che li raccontano, seguiti da cori che potenziano e diffondono il messaggio di libertà. Si intrecciano, tra altri, versi di lingua azera, inglese, araba, indi, russa, in una babele sonora carica di suggestione.

Shilpa Gupta (Mumbai 1976) For in You Tongue I cannot fit – Sound Installation with 100 speakers, microphones, printed text and metal stands, Site Specific. Arsenale, Biennale di Venezia 2019

Non so quanto sia condivisa la forte emozione che ho provato, ma sicuramente quest’opera d’arte totale, avvolgente che, via via, diviene narrazione di violente censure, sguardo sulla potenza della parola e riflessione sull’universale bisogno di difendere il diritto alla libertà di espressione, testimonia quanto l’arte sia linguaggio necessario e urgente.

Shilpa Gupta ha orchestrato ‘medium’ differenti attorno alla creazione di un luogo immersivo, all’interno del quale il coinvolgimento delle diverse percezioni sensoriali ci porta a ‘condividere’, camminando lentamente tra le pagine trafitte da leggii appuntiti, le tragiche esperienze di oppressione di libertà: si partecipa così ad un rito collettivo, ad una celebrazione laica di forte impatto emotivo e poetico, in cui il vissuto di appartenenza ad una ‘comunità’ lenisce gli orrori della violenza repressiva e ci rassicura con il calore della vicinanza all’altro.

Pablo Vargas Lugo, Acts of God, frame da video, Padiglione del Messico – Arsenale 58ª Biennale di Venezia

L’artista messicano Pablo Vargas Lugo (Città del Messico, 1968)  propone una interessante e coinvolgente videoinstallazione partendo dalla riflessione sul ruolo della fede e delle religioni nel nostro mondo contemporaneo.

I due video proposti all’Arsenale mettono in scena una lettura del Nuovo Testamento che, seppur ambientata per costumi nell’epoca di Cristo, è decisamente attualizzata, creando sequenze di immagini fortemente evocative per l’insieme di simboli iconici: immagini/frame che spesso si caricano di nuovi significati, da noi colti con uno sguardo calato nell’oggi.

Pablo Vargas Lugo, Acts of God, frame da video, Padiglione del Messico – Arsenale 58ª Biennale di Venezia

La tensione dell’uomo al sacro e il bisogno di ritualità, secondo l’artista, non devono essere sfruttati dal potere politico per incentivare atteggiamenti identitari che portino a “ giustificare posizioni nazionaliste e settarie”.

Ivetta Galli

‘ANDANDO VIA’: Maria Lai e la memoria di Grazia Deledda

Al Mudec si può visitare fino all’11 ottobre 2020, Andando via, piccola ma intensa mostra nata dall’opera di Maria Lai (Ulassai, 1919-Cardedu, 2013). Omaggio a Grazia Deledda (Nuoro, 1871 – Roma, 1936, scrittrice premio Nobel nel 1926).

Il lavoro di Maria Lai fa germogliare esperienze coinvolgenti di ‘arte relazionale’ dando voce alla creatività femminile.

Maria Lai in un frame del video di presentazione alla mostra

L’operare silenzioso e paziente, volto a scandagliare le pieghe più ancestrali della cultura sarda, cogliendo miti, simboli e tradizioni attorno alla figura della donna, ha portato Maria Lai ad essere riconosciuta quale una delle principali artiste del Novecento, scelta per aprire il Padiglione dello Spazio Comune alla Biennale di Venezia, nel 2017.

Maria Lai, Leggenda del Sardus Pater, libro di tessuto, cucito e ricamato con fili e pezze ritagliate, 1990

Maria disegna con i fili, intrecciando sapientemente trame e orditi, costruendo attorno al telaio molte delle sue creazioni, il cui movimento diviene metafora del respiro e della vita. Seguendo leggende della sua terra, dai ricami delle janas (le ‘fate’ nella tradizione sarda) hanno preso forma le parole, e le parole sono state accostate per creare la poesia.

Scrittura indecifrabile, tessuta dal laboratorio di Siliqua

Il video che ci accoglie nella prima delle due sale della mostra dà voce all’artista e ci conduce nel suo mondo creativo.

Frame dal video della mostra
Frame dal video della mostra

Nella seconda sala è allestita una suggestiva rivisitazione dell’ultima installazione dell’artista, incompiuta, a Nuoro, omaggio a Grazia Deledda.

Sulle tracce di Maria Lai, Giuditta Sireus ha concepito e seguito la realizzazione di un intervento di arte corale, coinvolgendo 25 laboratori tessili sardi, grazie al sostegno della Regione Sarda, di 23 Comuni e partner privati; le diverse tessitrici, seguendo le specificità tecniche e artistiche dei propri luoghi, hanno dato forma ai progetti ed ai disegni che Maria Lai aveva predisposto per il monumento pubblico.

Allestimento della mostra ‘Andando via’, con le figure delle donne protagoniste dei romanzi di Grazia Deledda disegnate da Maria Lai

Gli arazzi creati per rivestire le undici ‘stele’ del momumento citano alcune figure femminili degli scritti di Grazia Deledda, ma anche disegni di caprette, animale in cui Maria Lai amava identificarsi, e ‘scrittura indecifrabile’, insieme di segni di una poesia radicata nella memoria.

Arazzo e capretta dal laboratorio di Atzara

L’allestimento del complesso si presta ad essere itinerante, luogo di celebrazione di un fare arte collettivamente, e anche spazio scenografico per la rappresentazione teatrale dei testi di Grazie Deledda.

Figura di Maria Maddalena, da ‘La Madre’ di Grazia Deledda, arazzo tessuto a Urzulei

Mi piace chiudere questa breve nota citando un frammento (riportato sulla stele qui sopra fotografata) tratto dal romanzo ‘La madre‘, per valorizzare la forza espressiva e l’universalità di quella spessa e segmentata linea di contorrno che dà vita alla protagonista.

“Anche quella notte, dunque, Paulo si disponeva ad uscire. La madre, nella sua camera attigua a quella di lui, lo sentiva muoversi furtivo, aspettando forse, per uscire, ch’ella spegnesse il lume e si coricasse. Ella spense il lume ma non si coricò. Seduta … stringeva una contro l’altra le sue dure mani di serva, ancora umide della risciacquatura delle stoviglie, calcando i pollici uno sull’altro per farsi forza”

Ivetta Galli

#19NIGHTWALK: ALLA RICERCA DELLA PROPRIA IDENTITÀ DI GENERE

frame da: 19Nightwalk https://www.youtube.com/watch?v=9-aNR_3ZbgI

#19Nightwalk, cortometraggio di Małgorzata Szumowska, regista polacca, presentato alla 77° Mostra del Cinema di Venezia, è un piccolo capolavoro: un racconto per immagini, valorizzate da indovinati brani musicali, che in 8 minuti restituisce la profondità dei vissuti, dei conflitti, della solitudine generata dalla percezione del sé, della propria identità di genere, in un contesto sociale formale e sclerotizzato. E, con immagini potenti, la narrazione racconta la possibilità di ‘spogliarsi’ dalle convenzioni di genere imposte e di trovare, nel reciproco rispecchiarsi, autenticità, conforto e serenità.

Il marchio di moda Miu Miu promuove, dal 2011, Women’s Tales, la produzione di 2 cortometraggi all’anno, in cui le registe sono libere di creare una storia utilizzando gli abiti della collezione della casa, estiva ed invernale.

Tra i nuovi mecenati del XXI secolo, le aziende di moda si fanno promotrici di esperienze artistiche che spesso danno voce alle urgenze del nostro tempo.

Nulla di nuovo se pensiamo, ad esempio, al Tabernacolo dei Linaioli di Beato Angelico: l’artista dipinge attorno alla figura della Madonna col Bambino, diversi raffinati tessuti damascati in voga nella Firenze del Quattrocento, quale probabile omaggio ai committenti.

Beato Angelico, Pala del Tabernacolo dei Linaioli, 1433, Firenze, Museo di San Marco

Małgorzata Szumowska usa un linguaggio asciutto, severo, forte di una espressività ricca di sfumature, capace di arrivare alle nostre corde emotive più profonde; la finalità di presentare gli abiti della collezione diviene un accessorio non determinante; prevale l’urgenza di dare luce a quella minoranza di persone che non riconoscendosi nelle aspettative familiari e sociali vivono un percorso di crescita  sofferto per affermare la propria identità e farsi amare.

frame da: 19Nightwalk https://www.youtube.com/watch?v=9-aNR_3ZbgI

Ivetta Galli

“NON E’ UNA BIENNALE (58ª) PER VECCHI” – 6. ARTE, BIOLOGIA E ALGORITMI

Appunti sulla 58ª Biennale di Venezia

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ARTE, BIOLOGIA, LOGARITMI

Anicka Yi (Seul, 1971) – Biologizing the Machine (terra incognita), 2019 – Teche in acrilico, acciaio, limo, batteri, alghe, rilevatori di gas, algoritmo olfattivo, luci infrarosse. Padiglione centrale dei Giardini.

“Si fa con tutto”, titolo di una interessante riflessione sull’arte contemporanea di Angela Vettese, è proprio il primo pensiero che sorge di fronte a questi “quadri astratti” di accattivanti tinte naturali e in trasformazione, che si rivelano essere una originalissima creazione artistica, frutto delle più attuali ricerche scientifiche e tecnologiche. L’artista coreana Anicka Yi ha concepito un’opera mettendo in relazione programmi di intelligenza artificiale, volti a conferire un apparato sensoriale alle macchine, e gli odori emessi da alghe e batteri, al fine di attivare il controllo e la regolazione della proliferazione degli organismi viventi. La ricerca sperimentale, il cui esito in prima istanza è orientato a finalità estetiche, suggerisce interessanti riflessioni sui possibili scenari “post human” che ci attendono.

Orkhan Mammadov (Ganja, 1990) – Circular repetition, 2019 -videoinstallazione del Padigiione dell’Azerbaigian
Orkhan Mammadov (Ganja, 1990) – Circular repetition, 2019, progetto-installazione del Padigiione dell’Azerbaigian

Orkhan Mammadov, giovane artista azero, a partire da alcuni patterns geometrici caratteristici dell’ornamentazione islamica, progetta una videoinstallazione, sfruttando le potenzialità di algoritmi propri all’intelligenza artificiale; si generano, così, un’infinita moltiplicazione di nuovi modelli decorativi, che si disegnano con la luce, in continua trasformazione, su di una fascia circolare all’interno di uno spazio completamente buio. L’effetto è sorprendente e estremamente gradevole.

Orkhan Mammadov (Ganja, 1990) – Muraqqa, 2019, – videoinstallazione del Padigiione dell’Azerbaigian

Dello stesso artista multimediale, nel Padiglione azero è presentata “Muraqqa”, videoinstallazione costruita utilizzando approcci tecnologici/matematici; le immagini in questo secondo lavoro sono tratte dalle miniature islamiche raccolte in un antico libro, Muraqqa, risalente alla dinastia Safavida inizialmente insediatasi in Azerbaijan, poi diffusasi in tutta la Persia, dal XVI al XVIII secolo.  L’intervento di animazione delle miniature è volto a proporre riflessioni sul ruolo delle fake news veicolate dalle immagini, creando una proiezione che rapisce il nostro sguardo per forme, colori e racconti sorprendenti. Orkhan Mammadov sperimenta quanto possa essere ingannevole un’immagine che colpisce per l’efficacia della sua restituzione, impedendo alla nostra riflessione critica di esserne consapevoli. Il racconto narrato con le miniature che dovrebbero farsi documento della storia e cultura dell’epoca safavida, viene distorto con interventi di animazione che ne alterano la veridicità storica.

Christine e Margaret Wertheim (Australia, 1958) – Bleached Reef, 2005-16 – dal progetto: Crochet Coral Reef – gomitoli, perline, feltro, cavi, castini, sabbia, centrini vintage. Arsenale.
Christine e Margaret Wertheim (Australia, 1958) – Bleached Reef, 2005-16 – coralli di cavo elettro-luminescente di Eleanor Kent di San Francisco. Arsenale

Il fantastico mondo biologico delle forme naturali nelle barriere coralline, in pericolo di sopravvivenza, diventa oggetto di studio e creazione artistica delle gemelle Wertheim, fisica, l’una, poetessa e critica letteraria, l’altra. La ricreazione di apparenti frammenti di spazi corallini (l’intreccio di fili con l’uncinetto è protagonista, tra diversi materiali di scarto e cavi elettroluminescenti), disposti nelle ampie vetrine dell’Arsenale, documenta un progetto che coinvolge più discipline. Tra queste, la geometria e la matematica, e le relazioni tra forme biologiche e modelli di spazio iperpolico, come si evince dai disegni sulla lavagna visibili nella foto dell’installazione, studio che sta alla base dell’opera. Le artiste utilizzano la potenzialità del “fare” artistico e della ricerca della “bellezza” come strumenti di denuncia delle imminenti e catastrofiche trasformazioni ambientali ed ecologiche.

Ian Cheng (1984) – Life After BOB: First Tract, 2019 – disegni – Arsenale
Ian Cheng (1984) – BOB (Bag of Belief), 2018-19 – forma di vita artificiale – Padiglione Centrale dei Giardini

Ian Cheng ha sfruttato le potenzialità dell’intelligenza artificiale per programmare, all’interno di un ambiente vivente, una creatura “fantastica”, Bob, la cui vita/evoluzione viene determinata dagli spettatori che decidono, tramite un’app, di dialogare con lui, facendolo evolvere. L’opera d’arte, che qui documento con la foto di parte dei fumetti esposti all’Arsenale sul racconto della genesi dell’intervento artistico e un’immagine dello schermo che attiva il dialogo con i visitatori, appare un’esperienza molto complessa da comprendere, sicuramente da me, non invece da molti visitatori giovani della mostra, che, attivata la app, contribuivano a creare l’opera stessa, in un dialogo giocoso e coinvolgente con la creatura virtuale.

Hito Steyerl (Monaco, 1966) This is the Future, 2019 – installazione all’Arsenale.

Hito Steyerl, artista tedesca, presenta all’Arsenale l’installazione ‘This is the future’, un ambiente costruito con passerelle (simili a quelle veneziane per l’acqua alta) abitate da schermi digitali di diverse dimensioni sui quali si generano in continua trasformazione colorate e sensuali immagini di fiori e natura. Al centro del percorso il visitatore può sostare su alcune panche e ascoltare, di fronte ad un grande schermo sul quale fluttuano belle immagini che evocano una natura potente e rigogliosa, una voce che riflette sul presente e sul futuro, intrecciando valutazioni critiche sull’uso e i pericoli dell’intelligenza artificiale, ma, nello stesso tempo, sfruttandone le potenzialità comunicative.

Ivetta Galli

“NON E’ UNA BIENNALE (58ª) PER VECCHI” – 5. VIAGGI, LABIRINTI, MURI, RITORNI

Appunti sulla 58ª Biennale di Venezia

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VIAGGI, LABIRINTI, MURI, RITORNI

Gr Iranna (Sindgi, India, 1970) – Naavu (We Together), 2019 – installazione a parete con Padukas, scarpe di legno indiane – Padiglione dell’India all’Arsenale.
Gr Iranna (Sindgi, India, 1970) – Naavu (We Together), 2019 – particolare dell’installazione a parete con Padukas, scarpe di legno indiane – Padiglione dell’India all’Arsenale.

La metafora del cammino, del procedere lentamente e insieme agli altri, è ricca di allusioni: l’artista indiana, Gr Iranna, dispone in sequenza molteplici scarpe di legno indiane, abitate da oggetti/segni della vita del suo popolo, disegnando sulla parete una marcia corale che rievoca e celebra l’etica di Ghandi, l’esercizio della non-violenza e la disobbedienza civile. La forza visiva dell’installazione si impone anche come modello possibile tra le vie d’uscita in questi tempi complessi.

Laure Prouvost (Francia, 1978) – Deep See Blue Surrounding You/Guarda questo blu profondo che ti circonda, 2019 – frammento della videoinstallazione del Padiglione della Francia.

All’interno del Padiglione della Francia, Laure Prouvost dispone, attorno ad un video di grande valore artistico, una serie di oggetti, materiali e strumenti, creati e utilizzati per realizzare il suo progetto, Deep See Blue Surrounding You. Il lavoro affronta le tematiche più urgenti della nostra quotidianità, da riflessioni sulla natura e l’ambiente inquinato, ai rapporti tra culture e generazioni differenti, alle domande sull’identità; ed è proprio un viaggio, realizzato dalla periferia di Parigi al sud, verso il Mediterraneo per arrivare a Venezia, a divenire il perno di un racconto che si arricchisce di immaginazione, di visioni ideali, di momenti gioiosi, magici e surreali, sprazzi di utopia possibile. Il gruppo, in cammino, è formato prevalentemente da giovani di diversa estrazione sociale e di diverse etnie e anche da una donna anziana: il frammento fissato nel video da me proposto coglie un passaggio simbolico importante del viaggio, l’attraversamento di un ponte, accompagnato da un orecchiabile brano musicale italiano, scelto forse per andare oltre tutti i “nazionalismi” che oggi imprigionano la cultura e i nostri vissuti.

Ryoji Ikeda (Giappone, 1966) – Spectro III, 2019, installazione lampade fluorescenti e pannelli di vetro – Padiglione Centrale dei Giardini.

Il viaggio come metafora dell’esistenza prevede anche attraversamenti poco piacevoli: è fastidioso il passaggio obbligato nel tunnel che, all’inizio del percorso nel Padiglione Centrale dei Giardini, è stato pensato dall’artista giapponese Ryoji Ikeda. Il cammino è disorientato da una luce accecante che annulla la percezione dello spazio ed accompagnato da suoni disturbanti: una dimensione sensoriale inusuale, spiacevole, che da un lato incuriosisce ma al contempo crea spaesamento. Un’esperienza che può evocare i percorsi nel labirinto.

Particolare del Labirinto del Padiglione Italia, a cura di Milovan Farronato – Né altra né questa: la sfida al Labirinto, all’Arsenale.

Un vero e proprio labirinto è stato pensato da Milovan Farronato, curatore del Padiglione Italia, per presentare le opere di tre artisti, Chiara Fumai (Roma 1978 – 2017), Liliana Moro (Milano, 1961), Enrico David (Ancona, 1966); un allestimento geniale, sia per l’esperienza immersiva proposta al visitatore, sollecitato alla scoperta delle opere, sparse in modo suggestivo nei percorsi, e contemporaneamente disorientato nella difficile ricerca della via d’uscita. Progetto caratterizzato da un importante riferimento culturale, “La sfida al labirinto”, testo di Italo Calvino.

Particolare dal Labirinto del Padiglione Italia, a cura di Milovan Farronato, con opere di Enrico David – Né altra né questa: la sfida al Labirinto all’Arsenale.
Particolare 2 dal Labirinto del Padiglione Italia, a cura di Milovan Farronato – Né altra né questa: la sfida al Labirinto all’Arsenale.

Rimando ad un altro approfondimento l’intrigante indagine sulle opere dei tre artisti selezionati dal curatore; mi limito a proporre alcune immagini del Padiglione Italia che ritengo suggestive. Ho colto comunque un profondo senso di malinconia, che cercherò di esplorare meglio, ma credo in parte suggerito dalla presenza di una giovane e valida artista che ha scelto di togliersi la vita, un’esperienza che ci porta tra le maglie più oscure del labirinto fino a confrontarci con la morte.

A volte dal labirinto non si riesce ad uscire: si trova un muro.

Teresa Margolles (Messico, 1963) – Muro Ciudad Juarez, 2019 – installazione Padiglione Centrale dei Giardini

Di muri ce ne sono tanti. Percorrendo la Biennale se ne incontrano alcuni che, dalle utopie e dai sogni, ci riportano prepotentemente alla realtà. Il muro con filo spinato ricostruito da Teresa Margolles con i veri blocchi di cemento portati a Venezia dalla città messicana di confine, documenta in modo diretto e tragico, attraverso i fori delle pallottole rimasti, la morte di quattro giovani donne, in un contesto in cui la violenza perpetrata dai narcotrafficanti è di cocente attualità.

John Akomfrah (Ghana, 1957) – The Elephant in the Room – Four Nocturnes, 2019 – dalla videoinstallazione a tre canali nel Padiglione del Ghana, Arsenale

Una parete invalicabile appare in un’inquadratura del video dell’artista di origine africana John Akomfrah che, come in altre occasioni, allestisce nel Padiglione del Ghana una videoproiezione di immagini potentissime. E’ solo un frame, ma contiene il mondo e documenta il “cuore” della storia contemporanea.

Rula Halawani (Gerusalemme, 1964) – dalla serie: The Wall 2005, fotografia – Arsenale

Immerse in un’atmosfera cupa, senza via d’uscita, sono le immagini dell’artista palestinese Rula Halawani, che sa utilizzare la fotografia per raccontare una condizione, che da decenni vive il suo popolo, di controllo ossessivo e privazione di libertà. Il muro qui appare tra luci e ombre, superficie che sembra proiettarci gli incubi reali e comunque le ansie ed insicurezze che caratterizzano la quotidianità degli insediamenti confinanti.

Natascha Suder Happelmann (Tehran, 1967) – Gardens 2019, installazione, Padiglione della Germania.

Nel Padiglione Tedesco, l’artista Natascha Suder Happelmann (nome derivato dalle variazioni che gli errori di trascrizione hanno generato) ha voluto realizzare una parete di cemento imponente, tipo una diga di contenimento, che separa lo spazio del padiglione in due parti. I temi che affronta l’artista, tramite la collaborazione di altri creativi, rimandano alle questioni delle migrazioni e dell’identità. L’imponente muro può alludere anche alla storia recente della Germania e si carica quindi di molti significati; d’impatto anche lo scarto tra il titolo dell’opera, Gardens, e la sua forma, insieme di massi di roccia sparsi ai piedi della vertiginosa parete, tra cui scorre un rivolo d’acqua; la natura è totalmente assente.

La “parabola del figliol prodigo”, narrata nel Vangelo di Luca e dipinta da Rembrandt nel celebre quadro conservato a San Pietroburgo, è il perno attorno cui l’artista-regista Alexander Sokurov, con la collaborazione dell’artista teatrale Alexander Shishkin-Hokusai, ha costruito l’articolata installazione nel Padiglione Russo.

Il figliol prodigo, in viaggio, sperpera le ricchezze del padre e ci porta in terribili scenari di guerra e di violenza, proiettati in uno spazio quasi infernale per gli effetti di luci nel buio e per gli angoscianti rumori; l’umanità sembra sulla soglia dell’apocalisse se non fosse che dall’ombra prendono forma due figure, il padre anziano e il figlio che, inizialmente lontane e perse, si ritrovano successivamente in un abbraccio dolente, liberatorio e di riappacificazione, epilogo non scontato di un possibile ritorno e di un sincero perdono.

Alexander Sokurov (Russia, 1951) – Lc. 15:11-32 – Padiglione della Russia.

Il riferimento alla parabola evangelica del figliol prodigo è spunto per una riflessione profondamente laica sull’urgenza del recupero di atteggiamenti di compassione e di amore, di rispetto per l’umanità intera.

Ivetta Galli

“NON E’ UNA BIENNALE (58ª) PER VECCHI” – 4. INNO ALLE DIVERSITA’

Appunti sulla 58ª Biennale di Venezia

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INNO ALLE DIVERSITA’

Il mondo complesso e variegato delle persone “non conformi” e delle minoranze trova voce in numerosi lavori esposti nelle sedi principali della Mostra come nei Padiglioni Nazionali sparsi per la città di Venezia.

All’interno di questo mondo diffuse sono le riflessioni sulle questioni di genere LGBTQI+ (appartenenti alla galassia “queer”, definizione utilizzata in mostra per definire il tema), sigla che connota un ampio spettro di varianti di identità e orientamento sessuale; se ne fanno interpreti in particolare i giovani. Da racconti introspettivi personali, che testimoniano il difficile percorso di accettazione della propria diversità e di relazione con le figure genitoriali, a visioni frantumate del proprio corpo alla ricerca di una serena ricomposizione della propria identità, all’orgoglio “dipinto” attraverso immagini fisse e in movimento che rivendicano un’esistenza felice, anche attraverso atti di “resilienza”.

Billy Gerard Frank (Grenada) – 2nd Eulogy:Mind The Gap, 2019 – frame da video – Padiglione di Grenada

Billy Gerard Frank, artista originario di Grenada (oggi vive a New York), propone un poetico ed emozionante video in cui racconta il ritorno alla sua isola, viaggio che intraprende alla ricerca del padre con cui riconciliarsi, ma che non trova più, e alla riscoperta della propria cultura d’origine. Le magnetiche immagini narrano il difficile rapporto con una terra di cui si sente estraneo e il peso dei conflitti vissuti per la sua omosessualità (sul sito dell’artista il trailer del magnifico video).

https://www.billygerardfrank.com/VENICE-BIENNALE-2019-EULOGY

Korakrit Arunanondchai (1986) – No history in a room filled with people with funny names 5, 2018 – installazione video a tre canali – Arsenale.

L’artista tailandese Korakrit Arunanondchai (1986) intreccia esperienze personali con la cultura, le tradizioni ed eventi recenti della propria terra. Nella complessa e molto suggestiva installazione video a tre canali, l’artista, attraverso la danza e le movenze eleganti, quasi sofferte, di boychild (artista performer queer di origine asiatica), ci conduce tra le riprese che documentano il salvataggio dei 12 bambini e del loro allenatore intrappolati in una grotta nel nord della Thailandia, avvenuto nel 2018, tra i malinconici ritratti dei nonni anziani e malati di demenza senile e tra le immagini di antichi riti e leggende sopravvissuti allo sviluppo economico e tecnologico del paese.

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Frida Orupabo (Norvegia 1986) – Untitled, 2018, collage con graffette su alluminio – Padiglione Centrale dei Giardini.

Frida Orupabo, norvegese, con radici nigeriane, affronta nei suoi lavori il tema della rappresentazione del corpo femminile di colore, utilizzando immagini della cultura di massa: ritaglia e riassembla parti del corpo esplorando i tabù legati all’etnia, alla sessualità e al genere. Le figure deformate che ne derivano sono espressive della fatica e della sofferenza vissute in funzione della ricerca della propria identità e dei rapporti di potere che vuole modificare.

Nicole Eisenman (Francia, 1965) – Morning Studio, 2016, olio su tela – Padiglione Centrale dei Giardini

I grandi, nitidi e quasi metafisici dipinti di Nicole Eisenman ci conducono in interni privati, ma anche in luoghi metropolitani, spazi in cui protagonista è la persona con tutte le sue sfaccettature emotive: figure colte in gesti teneri e sensuali, momenti di banale normalità contemporanea, come in situazioni grottesche ed inquietanti.

Martine Gutierrez (Usa, 1989) – Demons, Chin, 2018 – Padiglione centrale dei Giardini

L’artista Martine Gutierrez, giovane artista trasgender, indaga le radici della propria origine guatemalteca quale percorso necessario di legittimazione della propria identità.

Ai Giardini della Biennale sono esposte tre opere dell’artista della serie Demons, divinità azteche precoloniali in cui si personifica, tra cui Chin, divinità dell’omosessualità

Sono stata spinta a chiedermi: come si forma, si esprime, si apprezza e si soppesa l’identità come donna, come donna transessuale, donna latina, donna di origine indigena e come artista? È quasi impossibile arrivare a qualsiasi risposta definita, ma per me questo processo di esplorazione è squisitamente vivificante“ (M. Gutierrez)

siren eun young jung (Corea, 1974) – “A Performing by Flasch, Afterimage, Velocity, and Noise”, 2019 – frame da video – Padiglione della Corea

Il Padiglione della Corea del Sud, “History Has Failed Us, but No Matter”, mette al centro della scena “chi è nascosto, dimenticato, abbandonato, condannato o inespresso”. Tra gli interessanti lavori esposti si impone l’installazione audiovisiva su tre pareti: “A Performing by Flasch, Afterimage, Velocity, and Noise”; e’ un lavoro intenso e coinvolgente, di siren eun young jung (artista che non vuole maiuscole per il proprio nome) che parte dalla rimozione dei temi di genere, caratteristica della cultura coreana, ma non solo evidentemente, per difendere un tradizionale genere di teatro coreano interpretato da sole donne, attualizzandolo con tematiche queer. Intervengono nella performence visiva: KIRARA, musicista elettronica trasgender, Yii Lee, attrice lesbica, Seo Ji Wong, donna disabile e AZANGMAN, drag king. Riferita a quest’ultima protagonista è la fotografia da video che ho riportato: documentazione della storia desolante narrata da AZANGMAN, rifiutata dalla famiglia e dalla società, costretta ad una vita nomade, che trova nell’arte e nella musica il proprio riscatto.

Pauline Boudry (Losanna, 1972) e Renate Lorenz (Berlino, 1963) – Moving Backwards, 2019 – da videoinstallazione. Padiglione della Svizzera
Barbara Wagner (Brasilia, 1980) e Benjamin de Burca (Brasilia, 1975) – Swinguerra, 2019 – da videoinstallazione. Padiglione del Brasile

Le due videoinstallazioni, la prima del Padiglione della Svizzera mentre la seconda è del Brasile, propongono interessanti affinità, basate sul significato della danza, per le giovani generazioni, come atto di resilienza e di affermazione gioiosa e collettiva delle proprie varie identità di genere.

Pauline Boudry e Renate Lorenz ricostruiscono un ambiente da discoteca undergound e queer, proponendo un’esperienza immersiva ritmata da intensi brani di musica contemporanea, sui quali danzano cinque giovani performer; i gesti e le coreografie che i giovani interpretano con grande energia e a tratti, ironia, incarnano un’esperienza di resistenza a quelle prepotenti forze culturali regressive che sembrano oggi minare le libertà d’espressione.

Swinguerra, titolo della videoinstallazione di Barbara Wagner e Benjamin de Burca, deriva da un termine che unisce la parola swingueira, antico e popolare ritmo di danza del Brasile nordorientale, con guerra: la danza, che dunque rielabora musica, ritmo e gesti dalla tradizione brasiliana, diviene una potente espressione di resistenza e di riscatto sociale per i giovani, qualsiasi sia il loro orientamento sessuale. Il palcoscenico della performance diviene luogo in cui la “fisicità”, al di là dei ruoli “eteroimposti”, si esprime liberamente veicolando energie positive.

Oltre alle tematiche LGBTQI+ portate in superficie attraverso “corpi” che si fanno arte, altre “diversità” si impongono al nostro sguardo e ci interrogano sulla potenza creativa che può scaturire da una esperienza di sofferenza ed emarginazione.

Mari Katayama (Giappone, 1987) – Dalla serie Shadow Puppets 2016, fotografia – Padiglione Centrale dei Giardini

La giovane artista giapponese Mary Katayama, coipita da una malattia genetica che le ha distrutto le tibie e una mano, parte dalla propria disabilità fisica per costruire esuberanti installazioni con vivaci tessuti decorati a pattern floreali, ricostruendo e moltiplicando mani e oggetti antropomorfi, circondando la propria immagine di un mondo fantastico, corpo esposto che rivendica la propria esistenza e la propria sensualità.

Jos de Gruyter (1965) e Harald Thys (1966) – Mondo cane. Il pazzo, 2019 – particolare dell’installazione del Padiglione del Belgio

Il Padiglione del Belgio ha ricevuto una menzione speciale come partecipazione nazionale: “con il suo humor spietato offre una visione alternativa degli aspetti, spesso trascurati, dei rapporti sociali in Europa”. Al centro, una serie di “automi” incarnano attività artigianali e lavori caratteristici della società europea. I movimenti meccanici sono scanditi da rumori e suoni; tutt’intorno gabbie chiuse da robuste grate di metallo, rinchiudono, gli emarginati, gli invisibili, gli “altri”. Il mondo favoloso e folkloristico creato con la magia di bambole animate svanisce velocemente con la messa a fuoco di particolari spiazzanti, in quanto evocatori di terribili eventi storici del secolo scorso; emblematica è la figura centrale del gruppo che sembra incarnare il dittatore per eccellenza, Hitler.

Jos de Gruyter (1965) e Harald Thys (1966) – Mondo cane, 2019 – Padiglione del Belgio

Con linguaggio graffiante, gli artisti rappresentano lo spaccato contemporaneo di un mondo ancorato alle tradizioni, aggrappato alle proprie radici, chiuso su se stesso e incapace di aprirsi ai diversi da sé.

Ivetta Galli