Partiamo dal Padiglione dell’Austria, all’interno del quale Renate Bertlmann costruisce un percorso che titola “Discordo ergo sum”, generando subito un conflitto con la grande scritta al neon, da lei apposta all’ingresso, “Amo ergo sum”; la riflessione sull’ambivalenza dell’esistenza e dell’amore si fa ancora più esplicita nella pregnante installazione del cortile del Padiglione, dove un fitto mare di rose rosse/coltelli evoca la ricerca che l’artista, fin dagli anni Settanta, ha realizzato intorno alle tematiche di “genere” .
Cathy Wilkes (Belfast, 1966) – Untitled, 2019, installazione site specific – Padiglione della Gran Bretagna
Uno spazio rarefatto, silenzio, l’essenziale: Cathy Wilkes crea nel Padiglione della Gran Bretagna un ambiente permeato da uno sguardo femminile, distribuendo qua e là idoli dal portamento infantile, da corpicini smaterializzati e sguardi incantati ma capaci di una potenza generativa che prorompe dall’ingombrante ventre gravido; figure femminili filiformi e fiabesche accostate a frammenti di membra e simboli di una vita domestica ripetitiva e faticosa, quasi dolente. Sospensione in un luogo del sacro, omaggio poetico e malinconico al potere creativo femminile.
Samira Alikhanzadeh (Teheran, 1967) – The Rigid Phantom of Memory, 2019, Padiglione dell’Iran
Nel Padiglione dell’Iran, Samira Alikhanzadeh affronta il tema del passato come memoria e come radice di un presente/futuro permeato dalla presenza di figure di donne, sue antenate, indispensabili all’esistenza; volti stampati su rete metallica, appesi a gruccette come abiti, si stagliano su una trama fitta di versi poetici in “farsi”, si completano nell’installazione con eleganti coppie di scarpe, simboli femminili per eccellenza.
Suki Seokyeong Kang (Corea, 1977) – GRANMOTHER TOWER, 2018, Struttura in acciao dipinta – Giardini
All’interno del Padiglione centrale dei Giardini un inconsueto monumento alla propria nonna, realizzato dall’ artista coreana Suki Seokyeong Kang, la cui articolata struttura in acciaio dipinto, modellata su forme curve ed “ingobbita” ad evocare l’età della signora, rende omaggio alla forza e alla tenacia dimostrata dalla donna in epoca di guerra e di grandi trasformazioni sociali e politiche della Corea.
Teresa Margolles (Messico, 1963) – Lo Busquedo, 2014 – Tre lastre di vetro con cornice di legno, frequenze sonore, manifesti – Arsenale
Un’inquietante installazione ci accoglie all’Arsenale, dove Teresa Margolles ricostruisce un angolo della cittadina di Ciudad Juarez, al confine tra Messico e Usa, teatro di numerosissimi femminicidi; l’artista messicana ne denuncia l’emergenza che va oltre il proprio paese, stimolando una reazione collettiva e culturale. Su pannelli di vetro, che vibrano ai rumori di fondo di una strada, sono appesi “pezze” di manifesti reali di donne scomparse: frammenti di reale creano un ambiente carico di drammaticità.
L’artista Zahrah Al Ghamdj, nell’allestimento del Padiglione dell’Arabia Saudita, ha creato un ‘altrove’ giocoso e sorprendente, costruendo un percorso visivo, tattile e sonoro, delimitato da pareti curvilinee di tela leggera e sensibile al passaggio, rivestite di migliaia di piccoli oggetti in cuoio con forme morbide. Il lieve tocco delle strutture genera suoni avvolgenti e naturali.
Zahrah Al Ghamdj (1977)- Mycelium Running, 2018 – installazione in cuoio nel Padiglione dell’Arabia Saudita – Arsenale
Lo stupore generato dall’immersione in un mondo quasi magico si arricchisce con la consapevolezza di un “fare” artistico che recupera materiali naturali e tradizionali, e con la riemersione di una ricca cultura anche poetica dell’Arabia; il titolo dell’installazione “After illusion” è tratto da un verso di un poema arabo del VII secolo che celebra il ricorso all’illusione/immaginazione anche per risolvere problemi concreti.
Volti: dipinti, fotografati, ripresi in video, scolpiti, ci seguono con i loro sguardi fieri, attraenti, spaventati, sofferti, orgogliosi, spiazzanti, realizzati in varie dimensioni e di una bellezza a volte struggente.
Racconto di un’umanità che ricerca un ugual posto nel mondo.
Njideka Akunyili Crosby (Nigeria, 1983) – Someday I’ll Tell You AboutThis, 2019 – olio e acrilico su tavola – Arsenale.
Artista di origine nigeriana, Njideka Akunyili Crosby, oggi residente a Los Angeles, nei sapienti e delicatissimi volti esposti all’Arsenale, riflette una profonda nostalgia e un forte radicamento alla propria cultura d’origine, contaminando le proprie iconografie con riferimenti a modelli artistici occidentali (ad esempio al ritratto seicentesco) .
Zanele Muholi (Sudafrica, 1972) – Somnyama Ngonyama, Hail the Dark Lioness 2012, serie di autoritratti fotografici – Arsenale.
Zanele Muholi è un’artista sudafricana, impegnata col proprio lavoro ad affermare le tematiche di genere e LGBTQI+; i suoi ritratti e/o autoritratti rivendicano prepotentemente e con fierezza quella dignità che è stata negata dalla cultura dominante alle persone che vivono orientamenti sessuali non etero.
Christian Marclay (Usa, 1955) – dalla serie Scream, 2018, incisione su legno – Padiglione centrale dei Giardini.
Le immagini di Marclay, che siano fisse o video, nascono dalla manipolazione di materiali preesistenti; in questa serie di incisioni l’artista assembla parti di fumetti americani e giapponesi costruendo volti terrorizzati dei quali si percepisce il grido di angoscia. Volti che condensano le tragedie contemporanee e diventano “allarmi universali”.
Soham Gupta (India, 1988) – dalla serie Angst, 2013-17 – Stampa a pigmento – Padiglione Centrale dei Giardini.
Angoscia quasi rassegnata, ma carica di dignità, è quella che cogliamo nei profondi ritratti di Soham Gupta; protagoniste di una Calcutta notturna ed emarginata, le figure si impongono per la loro umanità, per il loro disperato desiderio di vivere.
Cameron Jamie (Usa 1969) – Untitled, 2014-15 – Ceramica smaltata – Padiglione Centrale dei Giardini
Il “verso” accattivante per effetti di forma e di colore delle maschere in ceramica di Jamie, ribalta e ridiscute il tema del ritratto, proponendo una interpretazione della maschera quale oggetto liberatorio della propria autenticità.
Nicole Eisenman (Francia, 1965) – King Head, 2018 – Alluminio e acciaio inossidabile lucidato – Arsenale.
Le teste decostruite di Nicole Eisenman, ritratti fantastici e ambivalenti di esseri mostruosi e pericolsi (in questo caso è un re, uomo di potere), paiono contemporaneamente osservate con sguardo compassionevole; volti della complessità delle dinamiche psicologiche che possono coinvolgere tutti.
Kahlil Joseph (Usa, 1981) – BLKNWS, 2018 in corso – installazione video a due canali – Padiglione Centrale dei Giardini Kahlil Joseph (Usa, 1981) – BLKNWS, 2018 in corso – installazione video a due canali – Padiglione Centrale dei Giardini
Severi e giudicanti volti di monache sulla parete fanno da sfondo a due video, costruiti dall’artista con un collage di trasmissioni televisive, filmati di youtube, storie da Istagram o da altri media, in continuo aggiornamento. La realtà viene raccontata in tempo reale e i volti dei protagonisti scorrono velocemente, proponendo un frenetico rituale di uso dell’immagine. il conflitto che si genera tra la fissità del fondo, opprimente ed ingombrante, e la velocità incalzante dei racconti degli schermi, crea un corto circuito di inquietudine, disagio, di controllo occulto delle nostre libertà.
La continua ed esasperata esposizione ai volti/selfie in cui viviamo fa sì che il genere del ritratto rischi di perdere del tutto la sua pregnanza.
Tuttavia, nonostante l’abuso di questo soggetto a livello mediatico, la Biennale di quest’anno è la prova che questo genere artistico è lungi dall’essere esausto!
Jon Rafman (Montréal, 1981) – Disasters Under the Sun, 2019 – still da video, Giardini
L’impressione che rimane dopo alcuni giorni di cammino tra i percorsi dei Giardini, dell’Arsenale, dei Padiglioni Nazionali e di alcune mostre collaterali alla Biennale di Venezia è quella di una energia creativa dirompente espressa da giovani artisti, tra cui moltissime donne, alla ricerca di vie “interessanti” di uscita dagli orrori e dalle tragedie che imperversano nel nostro tempo, di cui sono validi e sensibilissimi testimoni.
La mostra di Venezia quest’anno dà voce ad una generazione di artisti giovani e a molte giovani donne. Uno sguardo fresco e innovativo, ma nonostante questo spesso carico di dolore.
Ed Atkins (Oxford, 1982) – Old Food, 2017-19, still da video_installazione all’Arsenale
Trovo entusiasmante entrare nei lavori degli artisti, attraversando le diverse rappresentazioni di pezzi di mondo, per cogliere il “sentire”, le “emozioni”, i “vissuti” e le “storie” messe in scena con medium espressivi diversissimi e coinvolgenti, dai più tecnologici ai più tradizionali.
Kudzanai Violet Hwami (Gutu, Zimbabwe, 1993) – Jovian Swirl, 2019, olio e acrilico su tela – Padiglione dello Zimbabwe
Ascoltare racconti visivi dalle parti più disparate del pianeta, intravvedere fili comuni tra le figure e le forme, costruire trame di collegamento tra temi, interessi e problematiche, costituisce un’esperienza unica, che la Mostra di Venezia riesce a far vivere.
Nella 58° Biennale si coglie un respiro profondamene contemporaneo, e l’abilità del curatore, Ralph Rugoff, a mio parere, risiede proprio nell’aver dato voce alle istanze emergenti della cultura giovanile che, si scopre, convergere su una comune linea d’onda e di prospettive, nei vari continenti.
Mari Katayama (Saitama, 1987) – Gambe protesiche dell’artista da lei stessa decorate. Fotografia, Arsenale
Globalizzazione e urgenze comuni mettono in moto immagini e riflessioni pressanti sulla centralità dell’”essere umano”, essere vivente che rivendica dignità per le proprie specificità e diversità, che anela alla libertà di espressione e alla costruzione di relazioni tra gli esseri viventi positive e gratificanti, confrontandosi e rispettando l’ecosistema in cui vive, alla ricerca di un “nuovo umanesimo” (espressione coniata dallo stesso curatore della Biennale).
Rugilė Barzdžiukaitė 1983, Vaiva Grainytė 1984, Lina Lapelité 1984 _ Sun & Sea – Opera lirica per 13 voci, site specific, Padiglione della Lituania.
Nei prossimi appunti analizzerò alcuni motivi ricorrenti, colti tra le opere esposte.
È un cammino all’interno di uno sguardo prevalentemente femminile; non nel senso di divisione di generi, ma inteso come presenza invisibile di una moderna Atena, dea delle “attività creatrici”, tra cui, soprattutto, la tessitura, ma non solo, che a Venezia diviene un medium pervasivo, ma necessario, per provare a ricucire un mondo che sta implodendo.
Con un lavoro puntiglioso che riflette anche la qualità/virtù della “sapienza” dell’antica dea, Christine Marcel raccoglie esperienze di artisti volte a creare comunità, a ricostruire momenti di socialità e di condivisione, anche attraverso la leggerezza, il gioco, la danza e il “rito”, esprimendo il desiderio di provare a governare la complessità del mondo senza lasciarsi travolgere dalla tragedia del male.
Opere avvolgenti, morbide, tessuti, pelli che rivestono
Il Leone d’oro all’artista tedesco Franz Erhard Walther (1939), qui presente con Wallformation, sintetizza uno tra i principali significati di questa mostra: le installazioni murali, tra pittura e scultura, create con materiali e tessuti intensamente colorati, invitano lo spettatore ad una piacevole immersione fisica e sensoriale.
Sullo sfondo un elemento a parete del progetto di Franz Erhard Walther, Wallformation e in primo piano spazio labirintico metafora di percorsi difficoltosi, creato dall’argentino Martin Cordiano,
L’artista marocchino Achraf Touloub (1986), con le sue “Pelli“, intreccia tradizione e modernità:
Katherine Nunez (1992) e Issay Rodriguez (1991), giovani filippine, propongono libri in tessuto, carte lavorate e accessori da ufficio ad uncinetto:
Katherine Nunez end Issay Rodriguez, In Between the Lines
David Medalla, (1938, Manila), fa creare il lavoro dalle tracce impresse e ricamate dai visitatori della mostra liberamente su di un lungo tessuto sospeso:
David Medalla, A stitch in Time
Cogliamo nelle differenti proposte un disperato bisogno di comunicare, di “collegarci”, di tessere relazioni, scambiarsi idee ed esperienze realizzando trame e orditi coloratissimi.
Maestra di questa ricerca è sicuramente Maria Lai, artista sarda recentemente scomparsa, alla quale la curatrice ha consegnato un ruolo fondamentale, “…immagine leggendaria della piccola ‘Jana’- fata benevola del folklore sardo – che tesse e impasta miti e ricordi sepolti nella memoria collettiva” ( dal Catalogo Viva Are Viva, 2017).
Maria Lai (1921-2013), libro cucito tra quelli esposti, realizzati tra il 1981 e il 2008I
E il libro, metafora del racconto e della comunicazione, della memoria personale e collettiva, nelle varie interpretazione degli artisti, invade gran parte degli spazi della mostra.
Il giovane kosovaro Petrit Halilaj (1986) disegna fogli di libri/abbecedari immergendosi nella propria sofferta infanzia, segnata dalla fuga dalla guerra, trasformando una parete nel ricordo di un caleidoscopio insieme di segni, calligrafie, grafismi e illustrazioni:
C’è una costante consapevolezza del dolore dell’esperienza umana che si evince dalla proposta di lavori artistici volti ad esorcizzare il male e riscattare i valori più elementari dell’uomo.
La solitudine e lo sgomento che leggiamo nelle le figure di Firenze Lai (1984, Hong Kong), come le trasparenti e fragili sagome femminili di Kiki Smith (1954), o le impenetrabili e labirintiche tracce disegnate su corpi da Huguette Caland (1931, Beirut) ci raccontano di lacerazioni profonde e fratture di identità.
Firenze Lai, Shoulder Pain, 2012
Firenze Lai, Autism, 2013
Kiki Smith, Garland, 2012,inchiostro e collage su carta nepalese
Huguette Caland, Christine, 1995
Risuona costante l’urgenza del rito.
Meraviglioso è il progetto di Maria Lai (1921-2013), Legarsi alla montagna, del 1981, lavoro artistico che ha coinvolto la popolazione del suo paese, Ulassai, per costruire un collettivo Monumento ai Caduti, tramite un nastro azzurro che ha legato il paese alla propria montagna, sulla suggestione di un’antica leggenda del luogo; operazione difficile, ma riuscita, di partecipazione collettiva e attiva.
Un’immagine del video-documento dell’esperienza di Maria Lai e due foto dell’evento di Piero Berengo Gardin:
Monumentale è la ricostruzione del lavoro artistico-antropologico di Ernesto Neto (1964, Brasile), con la grande tenda che riproduce la “Cupixawa”, luogo di socializzazione, incontri politici e cerimonie spirituali degli indios amazzonici:
Ernesto Neto, Cupixawa, cotone, poliammide, marmo, sabbia, rafia, legno compensato, cristallo di rocca, ametista, amazzonite, perline di vetro, palle in vinile, pepe, chiodi di garofano, curcuma, zenzero, lavanda, strumenti musicali, candele. Ernesto Neto, Cupixawa
Il video di Marcos Avila Forero (1983, Parigi, lavora a Bogotà) presenta il progetto Atrato, in cui ridà vita alla tradizione delle popolazioni afroamericane di suonare percussioni, cantando, nel fiume Atrato, che attraversa la foresta di Choco in Colombia, linguaggio di comunicazione.
Marcos Avila Forero, fotogramma del video Atrato, 2014
Planetary Dance della coreografa americana Anna Halprin (1920, Usa), è un lavoro in cui la danza e il movimento mettono in gioco il corpo in relazione ad eventi e problemi sociali da affrontare comunitariamente:
Anna Halprin, Planetary Dence, 2003, foto della performence; schemi di studi coreografici
Senso del rito come antidoto all’individualità imperante del nostro tempo e anche “terapia” contro gli integralismi che minacciano la nostra terra.
E il rito coinvolge il corpo, il nostro corpo, che si fa mezzo artistico per costruire un “nuovo umanesimo”, espressione tratta dalla presentazione della curatrice alla propria mostra.
Acuta è l’intuizione di esplorare con grande rispetto le culture del mondo, anche quelle più ancestrali, di entrare nel tessuto più profondo dell’uomo per farne emergere la natura sociale.
Per ricucire le diversità, oltre gli steccati e i confini.
Riti che ricollegano l’uomo alla natura, pur non demonizzando la tecnologia (presente in abbondanza nelle opere), pongono l’urgenza di costruire un nuovo equilibrio tra uomo, natura e cultura. E il richiamo al “Terzo Paradiso” di Michelangelo Pistoletto, presente sull’Isola di San Giorgio in una mostra collaterale, è un necessario omaggio al grande artista.
Olafur Eliasson (1967, Copenaghen) porta all’interno del salone centrale dei Giardini Green Light – An artistic workshop, creazione collettiva di lampade ecosostenibili, con la partecipazione di giovani rifugiati, studenti, e pubblico. Qui un ‘immagine del lavoro:
Cerchi disegnati, vissuti, realizzati.
La forma simbolica del cerchio che accomuna molte esperienze di azione pubblica e sociale si ritrova in altri progetti artistici.
Il cerchio ricorre nel lavoro della giovane artista Adelita Husni-Bey (1985), del Padiglione Italia. Un gruppo di ragazzi, seduti in cerchio, discutono tra loro a partire dalle carte dei tarocchi, arcani/pretesto per riflettere sui temi che riguardano la loro vita, il loro futuro; sul pavimento dell’installazione-video linee morbide definite da fili di sferette luminose disegnano forme curve e sinuose guidate da calchi di mani, strumento di disegno/creazione artistica.
Adelita Husni-Bey, The Reading / La Seduta, 2017
E, una lenta danza sul cerchio, con richiami alle “hore” balcaniche, ci viene proposta nel magico e surreale video Gardens di un’altra giovane artista, russa, Sasha Pirogova, (1986), nel Padiglione Russo, quale riflessione tra vita/luce e morte/oscurità, cercando nell’oscurità il principio della luce.
Nel Padiglione di Grenada, Jason de Caires Taylor (1974) documenta il proprio lavoro Vicissitudes; alcuni fotogrammi restituiscono la forza espressiva propria al girotondo di calchi di bambini di varie etnie immerso sui fondali marini, installazione mutevole nel tempo, che evoca molti significati:
Jason deCaires Taylor, Vicissitudes, 2016. Cemento con PH neutro e alghe coralline vive, 26 figure a grandezza naturale a 5 m di profondità.
Ancora, la fiaba nigeriana allestita dall’artista Peju Alatise (1975) in Flying Girs, viene illustrata con un dinamico movimento rotatorio di giovani donne alate, tra voli di farfalle e rondini:
Sfera, forma della fragilità/sacralità del mondo.
Siamo come palloncini colorati che galleggiano incerti, legati da un filo invisibile, ma cullati dal mare; possiamo scoppiare, colpiti, ma subito un altro palloncino coloratissimo è pronto a rinascere; Balloons in The Sea di Hale Tenger (1960, artista turca), è un’installazione multimediale poetica e profonda).
Hale Tenger, Ballons in The Sea, 2011, installazione video a sette canali con sonoro
Sfere di pietra con trame marmoree come pianeti caduti dal cielo a terra ci inquietano parlandoci con improbabili sussurri di Alicja Kwade (1979, polacca):
Sferoidali sono i gomitoli enormi e coloratissimi che tappezzano la parete di fondo dell’Arsenale, nella Scalata al di là dei terreni cromatici allestiti dall’americana Sheila Hicks (1934):
Quasi sferici sono i 77 deliziosi e quasi immateriali berretti di lana marocchini appoggiati sul pavimento, illuminati all’interno da una fonte di luce calda, dell’artista marocchina Younès Rahmoun.(1975); l’installazione, Taqiya Nur, è una meditazione sacra sul significato della luce, quale verità, da svelare.
Sferico è anche il sole nei 44 tramonti filmati da Charles Atlas (1949 Usa): una magnetica videoinstallazione accompagnata da suoni suggestivi e da un cronometro che misura con un conto alla rovescia il tempo del tramonto e, dopo il buio assoluto, una tenera drag quinn che racconta di sé e della politica americana.
Emisferiche e convesse sono le numerose gocce di ceramica dorata, depositate a terra su lastre si metallo nero, sparse nell’ampio salone dell’Arsenale, dell’artista cinese Liu Jianhua (1962), una ricerca intorno agli opposti, materiale liquido/solido, opaco/lucido, luce/ombra, che ha rimandi alla filosofia buddista.
Massicce e giocosamente minacciose sono le meteore colorate sospese nel Padiglione della Gran Bretagna, allestite dall’artista inglese Phyllida Barlow (1944):
5. Gettati nel mondo
Molti Padiglioni Nazionali premono tutt’attorno gettandoci con forza nel mondo e nei problemi urgenti della contemporaneità.
Forte è l’odore di muffa che ci perseguita nel Padiglione Israeliano: odore di materia che si decompone, lento e inesorabile deterioramento che rende quasi insopportabile la permanenza all’interno dello spazio; siamo tuttavia catturati dal meraviglioso paesaggio che la muffa disegna sulle pareti, attratti dalla bellezza della forma e del colore. Gal Weinstein, con Sun Stand Still tenta di “bloccare” il tempo, recuperando dal degrado la possibilità di un riscatto:
Simile sensazione di forte odore di putrefazione e di costrizione faticosa e si vive percorrendo la galleria post-umana creata da Roberto Cuoghi nel Padiglione Italia: Imago Christi è un lavoro complesso, difficile, intrigante, che nasce da una sollecitazione, radicata nella nostra terra, tratta dal titolo Il mondo magico, di Ernesto De Martino. E’ il desiderio di “eternare” l’uomo, con l’atto creativo di modellare la forma di un corpo-Cristo, corpo che nel percorso si deteriora, si corrode decomponendosi e, nonostante il tentativo estremo di bloccarne l’integrità con la mummificazione, si ritrova frantumato per parti, braccia, testa gambe, appeso alla parete come reliquia, frammenti fissati in un disperato tentativo di conservazione della vita.
Roberto Cuoghi, Imago Christi
Ansia, paura del vuoto, smarrimento si vivono camminando sul pavimento trasparente, sospeso, del Padiglione Tedesco (premiato con il leone d’oro), e su ciò che rimane sotto di noi, detriti, tracce di vita vissuta, a documentare la lunga e intensa performance di Anne Imhof (1978), purtroppo presente, con i suoi interventi, solo nei giorni dell’inaugurazione:
Anne Imhof, Padiglione Tedesco
L’angoscia che pervade il nostro mondo minacciato costantemente dalla violenza del terrorismo si rende percepibile nella coinvolgente e fantasmagorica installazione ambientale dell’artista Grisha Bruskin, Theatrum Orbis: un mondo fantastico di forme fisse e in movimento, tutte bianche in ambiente nero, ci racconta il rapporto tra potere e controllo delle masse, tra integralismi e gesti irrazionali e violenti.
Grisha Bruskin, Scene Change, 2016-2017
Violente repressioni e genocidi denunciati nel Padiglione Cileno da una selva di maschere terribili, simulacro di tutte le vittime che sopravvivono nonostante lo Stato abbia tentato di cancellarle dalla memoria; il Werken, messaggero, rappresenta la comunità mapuche sterminata di cui i nomi, in led rossi, scorrono ossessivamente in cerchio sulle pareti dell’ampia sala.
Bernardo Oyarzun, Werken
Suoni, musica, voci anche sussurrate accompagnano molte installazioni, presenze sonore che ci catturano e leniscono a tratti il senso di disorientamento, se non di forte disagio, che alcuni padiglioni nazionali comunicano.
E’ l’avviso di una presenza, la necessità di porsi in ascolto, la possibilità di aprire un dialogo. Il Padiglione Turco, così come quello Francese, o il percorso suggestivo nei Giardini all’Arsenale, creato dal giovane Hassan Khan, lavori molto diversi tra loro per medium e progetto artistico, risultano comunque affini per il significato che ricercano.