Dalla 60ª Biennale d’Arte di Venezia: TERRA – ACQUA – FANGO – ARGILLA

Esterno del Padiglione della Germania, Thresholds, Giardini – Yael Bartana (Israele, 1970), Farewell, 2024, Padiglione Germania, 60ª Biennale di Venezia

Di terra, accumulata, se ne incontra molta, tra gli interventi artistici della Biennale.

E, come di terra, c’è anche tanta acqua.

Elementi basilari del nostro pianeta, impastati, possono dare forma ai pensieri ed alle immagini degli artisti; d’altra parte nei miti dall’argilla nasce la creazione di esseri viventi e di nuovi mondi.

Si respira l’urgenza di ricostruire, di ricreare, a partire dalle più essenziali risorse disponibili, ambienti desiderabili, accoglienti e inclusivi, in una ricerca di relazioni sostenibili e soddisfacenti tra gli esseri viventi e il pianeta.

Urgenza che nasce dal vissuto delle tragedie contemporanee, sottese alle esperienze svelate dagli artisti, come motivo di stimolo e di speranza per la ricreazione di un mondo in profonda crisi.

Il Padiglione della Germania ne è una felice sintesi: dalle frana di macerie terrose che blocca l’ingresso, alla congelata ricostruzione, all’interno, di un alloggio anni settanta completamente sommerso dalle ceneri terrose e velenose dell’amianto, simbolo del tramonto del progresso, alla ricerca di soluzioni di fondazione di nuovi mondi nello spazio intergalattico, narrata da video suggestivi, in cui si rigenera una visione di armonia tra le specie viventi. Danze rituali e ritmi coinvolgenti sulla parete concava interna magnetizzano l’attenzione: nostalgia di riti collettivi e appaganti, di movimenti cadenzati dalla musica e dai canti, di gesti che ci facciano riconoscere come comunità?

E’ questo un ‘leit motif’ che riemerge con prepotenza in moltissime altre opere.

John Akomfrah (Ghana, 1957), Listening all night to the rain, 2024, Padiglione della Gran Bretagna, Giardini, 60ª Biennale di Venezia

L’acqua è la protagonista dei meravigliosi video che rivestono le pareti del Padiglione della Gran Bretagna. Affidato a John Akomfrah, artista che con magia crea preziosi quadri in movimento, densi di racconti e di significati.

Attraverso i mari e i fiumi passano le storie di popoli in cammino, documentate con foto d’archivio anche drammatiche, oppure create dall’artista stesso con estrema sapienza.

John Akomfrah (Ghana, 1957), Listening all night to the rain, 2024, Padiglione della Gran Bretagna, Giardini, 60ª Biennale di Venezia

L’acqua come deposito di materiali e oggetti persi nel tempo, luogo in cui si stratificano testimonianze del passato, oppure che diventa ‘sentinella’ delle trasformazioni ambientali e dell’inquinamento.

Se le immagini poetiche di John Akomfrah che ci scorrono davanti agli occhi sono frutto di una ricerca sul passato, la storia, la cultura e la contemporaneità, l’immersione nei mari che ci accolgono nel Padiglione francese ci proiettano dal presente in un futuro fiabesco, a volte ironico e giocoso, a volte inquietante,

Julien Creuzet (Parigi, 1986), ‘Attila cataracte ta source aux pieds des pitons verts finira dans la grande mer gouffre bleu nous nous noyâmes dans les larmes marées de la lune’ , 2024, Padiglione della Francia, Giardini, 60ª Biennale di Venezia

L’artista franco-caraibico, Julien Creuzet, partendo dal suo immaginario infantile, ci porta tra le acque e nella terra delle sue radici, la Martinica; attorno ad un verso poetico del poeta Glissant, nato in Martinica e vissuto in Francia, Julien allestisce uno spazio immersivo in cui fonde mirabilmente scultura, musica, poesia e cinema: immagini di fondali marini, correnti d’acqua e cascate alimentano le nostre percezioni, stimolano la nostra immaginazione e fanno riemergere memorie collettive.

Julien Creuzet (Parigi, 1986), ‘Attila cataracte ta source aux pieds des pitons verts finira dans la grande mer gouffre bleu nous nous noyâmes dans les larmes marées de la lune’ , 2024, frames da video, Padiglione della Francia, Giardini, 60ª Biennale di Venezia

L’artista lavora sull’immagine della confluenza dei corsi d’acqua come metafora delle poetiche di relazioni, come luogo dello scambio con l’altro, immagine di uno spazio utopico molto potente, in cui abitano esseri viventi anche frutto di metamorfosi di varie specie, un luogo del tutto inclusivo e accogliente.

Mark Salvatus (Filippine, 1980), Waiting just behind the courtain of the age, 2024, Padiglione delle Filippine, Arsenale, 60ª Biennale di Venezia

Torniamo alle immagini di terra, molte, tra cui questi particolari dell’installazione dell’artista filippino Mark Salvatus, dove un accumulo di terra, in verità in vetroresina, dà vita al suono di strumenti musicali delle bande e dei musicisti del monte Banahaw delle Filippine.

La scelta del luogo è emblematica, ‘Il monte mi ha sempre affascinato, anche perché è un luogo storico ed è stato uno dei primi spazi in cui Pule, assieme alla popolazione locale, iniziò ad organizzare una rivolta contro il dominio spagnolo.

(da https://www.artuu.it/padiglione-filippine-il-monte-banahaw-arriva-a-venezia/ )

Il progetto che l’artista filippino propone ruota infatti attorno alla propria origine, alla cultura del proprio popolo, alle tradizioni, tra cui l’espressione musicale, riannodando i motivi storici che lo hanno visto protagonista di momenti di resistenza contro i colonizzatori.

Manal Al Dowayan (Arabia Saudita, 1973), Shifting Sands: a Battle Song, 2024, Padiglione dell’Arabia Saudita, Arsenale, 60ª Biennale di Venezia

‘Sabbie mutevoli: una canzone di battaglia’ è il titolo del Padiglione dell’Arabia Saudita, allestito dall’artista Manal Al Dowayan: il potente e coinvolgente messaggio femminista, veicolato sia da un tessuto sonoro di voci e canti di giovani ragazze che inonda l’ambiente, sia dalle eleganti calligrafie arabe, attraverso cui si impongono parole del patrimonio di liberazione delle donne, giunge chiaro.

La scrittura e i grafismi che rivestono i ‘grappoli di lame di cristallo delle rose del deserto’ ci interrogano sulle contraddizioni tra le politiche di governo del paese rispetto ai diritti umani, committente dell’opera, e la radicale rivendicazione degli stessi, da parte dell’artista che lo rappresenta.

Anna Maiolino (Italia, 1942), Anno 1942, Mapas mentals,2973-1999 e Terra Modelata, 2024, Arsenale, 60ª Biennale di Venezia

Anna Maiolino è stata premiata con il Leone d’oro alla carriera e la sua esperienza ripercorre i temi salienti di questa mostra: emigrata dalla Calabria in Brasile, ha vissuto e lavorato tenacemente come artista in America Latina. La forma dell’Italia del 1942, suo anno di nascita, ritagliata dal bruno cenere del fuoco, rimanda ai bombardamenti subiti, e restituisce una figura sofferta della propria identità.

L’artista dagli anni ottanta si dedica a modellare la terra, l’argilla, recuperando la gestualità nella creazione artistica a partire dagli elementi naturali più essenziali. Lo spazio da lei allestito in una stanza all’Arsenale è trasformato in un’architettura abitata e arredata dalla proliferazione di forme in terracotta che rimandano alla ciclicità e continuità della vita, al suo continuo rinnovarsi, in continua trasformazione ed evoluzione.

Maria Madeira (Timor Leste 1969), Kiss and don’t tell, 2024, parte del video, Padiglione di Timor Leste, 60ª Biennale di Venezia

Con argilla rossa, dalla terra di Timor Leste, spalmata sul tessuto tradizionale teso alle pareti e accumulata a terra, Maria Madeira rievoca le violenze subite dalle donne nel suo paese, costrette dagli uomini a baciare col rossetto le pareti e a sottomettersi a loro.

Il canto dolente da lei interpretato, ‘Cara Madre Terra’, e i gesti dell’artista volti a riscattare il sacrificio delle vittime del patriarcato, restituiscono un’esperienza emotiva e poetica intensa, trasfigurata nei delicati colori che avvolgono la stanza del Padiglione.

Maria Madeira (Timor Leste 1969), Kiss and don’t tell, 2024, Padiglione di Timor Leste, 60ª Biennale di Venezia

Con la terra argillosa, con gocce di vernice e noce di betel, Maria Madeira dipinge un ambiente carico di note di dolore e di desiderio di resilienza, in cui si respira la memoria e la storia dei suoi racconti.

Joshua Serafin (Filippine, 1995), Void, 2022, frames da video, Arsenale, 60ª Biennale di Venezia

Dal fango, in riva ad una pozzanghera, prende vita e corpo una persona, un mito di creazione primordiale che si ripete, lentamente, in un contesto notturno e fortemente contaminato dalla materia argillosa. Nel video di Joshua Serafin, la figura che si anima è una divinità non binaria, emblema di una utopia queer come modello di superamento dei pregiudizi di una cultura patriarcale, radicata nella tradizione filippina, ma non solo; l’opera diviene, a mio parere, una visione pregnante della rivoluzione in atto, a livello planetario, relativamente ai concetti di genere e di identità, motivo che, abbiamo visto, emerge in molte opere, in particolare di giovani artisti.

(Testo di Ivetta Galli, foto e video, dove non specificato, di Ivetta Galli, Aldo Mazzolini e Flavio Mazzolini)

Dalla 60ª Biennale d’Arte di Venezia: CORPI – VOLTI

Alioune Diagne (Dakkar, 1985), Bokk Bounds, 2024, Padiglione del Senegal, Arsenale, 60ª Biennale di Venezia

La presenza invasiva di corpi e di volti tra le opere esposte ci porta dentro il cuore pulsante dell’umanità in viaggio, in diaspora, sia rispetto ai luoghi geografici attraversati che in relazione ai propri confini interiori.

Bertina Lopez (Mozambico 1924-2012), Os meninos de Mafalda, 1963, Giardini, 60ª Biennale di Venezia

Lo ‘storico’, oramai, dipinto su legno di Bertina Lopez, artista di origini mozambicane che ha vissuto in Italia, impegnata anche come attivista a Roma nella ricerca di soluzioni per accordi pace per la sua terra, è una dolente ed icastica rappresentazione di figure, volti e corpi, che mescola evocazioni linguistiche d’arte africana e delle avanguardie europee.

Il soggetto di quest’opera apre ad una ricca galleria di preziosi ‘ritratti’, selezionati da Adriano Pedrosa, di donne e uomini del mondo extraeuropeo, del Novecento, frutto di contaminazioni di arti ‘basse’ e ‘alte’, da cui emergono incessanti migrazioni di stili tra popoli di differenti culture.

Teresa Margolles (Messico, 1963), Tela venezuelana, 2019, Giardini, 60ª Biennale di Venezia

Migrazioni che coinvolgono soprattutto ‘corpi’, di cui, a volte, ne rimane solo l’impronta, come un sudario; Teresa Margolles, con questa ‘sindone laica’, esposta come una reliquia, celebra la morte di un giovane migrante venezuelano ucciso sul confine con la Colombia.

Puppies Puppies -Jade Guanaro Kuriki-Olivo, (Dallas, 1989), A sculpture for Trans Women, 2023, Electric Dress (Atsuko Kanaka), 2023, Giardini e Arsenale, 60ª Biennale di Venezia

Puppies Puppies offre un calco in bronzo del proprio corpo, disvelando attraverso l’iconografia del monumento commemorativo, la propria identità sessuale, luogo del sé, in cui i generi convenzionali migrano superando i confini per aprirsi a nuove possibili identità, transgenere e non binarie.

L’artista, all’Arsenale, commemora le vittime queer di un night club di Orlando, Pulse, uccise da un fanatico omobitransfobico nel 2016, riproponendo una scultura dell’artista Atsuko Kanaka, del 1956, il cui corpo si anima grazie a fili di luci intermittenti, che pulsano come il battito del cuore, e si illuminano coi colori dell’arcobaleno della bandiera LGBT+.

Pablo Delano (Portorico, 1954), The Museum of The Old Colony, 2024, Giardini, 60ª Biennale di Venezia

Pablo Delano, portoricano, porta ai Giardini un complessa installazione, allestita con oggetti e documenti, anche fotografici, dai quali si evince la lunga storia di sottomissione politica, economica e culturale vissuta dal suo paese, come colonia; tra questo materiale, anche le immagini di ‘corpi’ di adolescenti e bambini, soggetti dell’occhio fotografico dei colonizzatori europei, contribuiscono a ribaltare la lettura storica ufficiale dei conquistatori, restituendo piena consapevolezza e dignità alla popolazione di Portorico.

Gabrielle Goliath (Sud Africa, 1983), Personal Account, 2024, Giardini, 60ª Biennale di Venezia

Sullo fondo di una colonna sonora che registra suoni paralinguistici, sospensioni tra le parole di un discorso e lamenti cantati e sussurrati, sfilano attorno a noi corpi vittime di violenza patriarcale: donne, indigeni, persone nere, trans, non binarie.

L’artista Gabrielle Goliarth elabora questo progetto transnazionale, raccogliendo storie accomunate dalla pervasività della cultura patriarcale, razziale e coloniale, facendo emergere dai testimoni strategie di sopravvivenza e riparazione e creando uno spazio di ascolto, dialogo e di riscatto.

Giulia Andreani (Mestre, 1985), Conservative Ghost, 2024 e Le fanciulle laboriose, 2024, Giardini, 60ª Biennale di Venezia

Corpi femminili popolano le opere di Giulia Andreani che sceglie di rappresentare alcune figure di donne del primo Novecento, come Emmeline Pankhurst, protagonista del movimento femminista inglese o giovanissime lavoratrici ritratte in fotografie dell’epoca fascista; l’artista immerge le sue rielaborazioni pittoriche ad acrilico nelle tonalità di un grigio, ricco di sfumature, che evoca la memoria, sostenuta dai documenti fotografici, di una storia femminile densa di significati, ma ancora ‘in ombra’.

I dipinti di Giulia Andreani, resi con nitidezza realistica, sottendono una ricca stratificazione di segni: nel dettagliato ritratto di Emmeline, dal suo volto, in una nuvoletta, si disegna un’opera di Medardo Rosso, a lei contemporaneo, il cui tema della maternità mette in gioco riflessioni ancor oggi attuali sul ruolo della figura femminile; dal ritratto di gruppo delle fanciulle che cuciono e ricamano, tutte uniformate per taglio di capelli e abiti, traspare l’ideologia patriarcale e fascista, volta ad annullare le identità delle donne, fin da piccole ingabbiate in ruoli esecutivi.

Nella stessa sala, ai Giardini, su una parete si srotola un lungo lavoro dipinto e ricamato dell’artista inglese Magda Gill (1882-1961), modello tra le donne di un fare artistico autodidatta e dettato da un impulso creativo visionario, alimentato dalla propria condizione di genere e da problemi mentali, figura a cui Giulia Andreani rende omaggio per il suo valore artistico.

Moufouli Bello ( Benin, 1987), Egbe Modjisola, 2024, Padiglione del Benin, Arsenale, 60ª Biennale di Venezia

Restituzione di ritratti femminili, a colori intensi e accattivanti, è la proposta da Moufouli Bello, artista del Benin del Padiglione africano, all’Arsenale. Donne contemporanee, ritagliate da ritratti fotografici, rivestite da preziosi tessuti decorati, con tinte sature sui toni del blu, si impongono allo sguardo con tutta la loro bellezza, forza e dignità, riscatto di secoli di oppressione. Tra i dipinti, una evocativa scultura di danza in cerchio di figure femminili, immagine di relazione ed armonia come recupero di tradizioni utili per riaffermare la propria cultura.

Agnes Questionmark (Roma, 1995), Cyber- Teratology Operation, 2024, Arsenale, 60ª Biennale di Venezia

In fondo al percorso dell’Arsenale, tra gli spazi più lontani dall’ingresso, si incontra un’installazione di forte impatto, una visione ‘post-human’ e cyber del corpo, realizzata dall’artista Agnes Questionmark.

Sul lettino di una sala operatoria è steso un corpo trans, sia transgenere, che trans-specie, che transumano, ossessivamente controllato da monitor e congegni tecnologici avanzati. L’artista ci porta a riflettere su temi apparentemente futuribili, che investono, nel nostro contemporaneo, le persone trans nei propri percorsi di affermazione, il cui corpo viene ancora molto spesso trattato con sguardo patologizzante dalla società fortemente cisnormata.

Agnes Questionmark rivendica con forza il valore emancipatorio delle esperienze transgenere, e pone la questione del rapporto tra genere e riproduzione, temi ancora tabù, intorno ai quali ci stimola una riflessione.

Sandra Gamarra (Perù, 1972), Pinacoteca Migrante, Maschere meticce, 2024, Padiglione della Spagna, Giardini, 60ª Biennale di Venezia

Quanto sia oggi presente nell’elaborazione artistica il corpo transgender, segno di una profonda rivoluzione in atto nel pensiero e nella conoscenza in merito a queste tematiche, lo testimoniano opere esposte anche nei padiglioni nazionali.

Ai Giardini, nel Padiglione Spagnolo, l’artista di origine peruviana-giapponese Sandra Gamarra, ora residente in Spagna, ha costruito un percorso ‘museale’ alternativo, in cui dà voce a narrazioni storicamente messe a tacere, in particolare relative alle colonie spagnole. Sulle tracce dei musei madrileni, da quelli di Storia Naturale ai capolavori delle principali Pinacoteche, ricostruisce ‘stanze’ tematiche, tra cui la stanza delle Maschere meticce.

I corpi protagonisti prendono forma e volume dallo sfondo dipinto di evocazione classica, rivestiti da reali tessuti indigeni e con maschere lignee rituali, accompagnati da riflessioni vergate a mano sulla tela stessa.

L’approccio intersezionale al tema delle minoranze trova una pregnante espressione in questa frase che accompagna la figura sopra riportata: “Il corpo trans sta all’eterosessualità normativa come la Palestina sta all’Occidente: una colonia la cui estensione e forma si perpetuano solo attraverso la violenza…..Il migrante perde lo stato nazionale, il rifugiato perde la casa, la persona trans perde il corpo. Attraversano tutti il confine contiguo, vivendo negli incroci”

Guerriero Do Divino Amor (Ginevra, 1983), Super Superior Civilisations, Roma Talismano, 2024, Padiglione della Svizzera, Giardini, 60ª Biennale di Venezia

Di estetica pop-camp, nutrita di una provocatoria e traboccante creatività, si presenta il Padiglione della Svizzera, creato dall’artista svizzero brasiliano Guerriero Do Divino Amor; intorno alla performence di Ventura Profana (Salvador, 1993), protagonista per la sua prorompente corporeità, pur in un ologramma, si dipana uno spazio architettonico visionario, in cui si affastellano immagini di Roma, Capitale della Civiltà, con imponenti corpi statuari classici, cariche di tagliente ironia , di opulenza barocca e divertita analisi intorno a questioni di propaganda politica e identità nazionale.

Guerriero Do Divino Amor (Ginevra, 1983), Super Superior Civilisations, Roma Talismano, 2024, Padiglione della Svizzera, Giardini, 60ª Biennale di Venezia

L’intento dell’artista è quello di indagare i modelli di autorappresentazione delle Nazioni, smascherando le contraddizioni insite nelle ideologie nazionaliste.

Isabel De Obaldia (USA, 1957), Selva, 2024, Padiglione di Panama, 60ª Biennale di Venezia

Appesi, feriti, traumatizzati sono i corpi fragili, modellati in vetro, dall’artista di origini panamense Isabel De Obaldia, installati in un ambiente immersivo che riproduce, per suoni e dipinti alle parteti, una giungla tropicale.

Siamo nel Padiglione di Panama, collocato in uno stretto rio veneziano, non lontano dalla sede dell’Arsenale.

La foresta ricostruita è quella che separa la Colombia dal Panama, ritenuta impraticabile, ma attraversata da un numero sempre maggiore di migranti diretti negli Stati Uniti, nonostante i molti pericoli che incontrano. Isabel De Obaldia ci regala un’opera di forte impatto visivo ed espressivo, comunicando con immediatezza la tragedia e l’orrore vissuto dalle persone in esodo, esperienze che si condensano sulle tracce dei corpi cesellate nel vetro.

Jems Koko Bi (Sinfra, 1966), A man crushed by iron tracks, 2024, Padiglione della Costa d’Avorio, 60ª Biennale di Venezia

Un monumentale corpo nero, schiacciato e spezzato da rotaie in ferro, ci narra la tragedia della schiavitù degli africani deportati in America: è una installazione dell’artista ivoriano Jems Koko Bi, che accoglie i visitatori nel Padiglione della Costa d’Avorio, costruito attorno al malinconico ‘leit motiv’ del blues,

L’artista, che realizza sculture monumentali in legno, dice: “Gli alberi mi danno istruzioni e io le seguo, nel bosco, mi consigliano e io racconto le loro storie”; nel suo lavoro sono pressanti i riferimenti alla storia del proprio paese, alla cultura e divinità dei propri antenati e al tema dell’esilio.

Frames da video all’interno del Padiglione dell’Iran, Palazzo Malipiero, 60ª Biennale di Venezia

Chiudo questo percorso sulla centralità del corpo e dei volti, in alcune rappresentazioni della Biennale, con uno sguardo all’infanzia e alla gioia dei bambini che insieme paiono felici, pur se in un contesto terribile in cui sono vittime, quale quello di Gaza, di cui queste immagini sono la testimonianza. Il Padiglione ha scelto come titolo un verso del poeta Abu Mohammad Mosleh ebn Abdollāh, vissuto nel XIII secolo, “Of one essence is the human race“, un inno all’unità del genere umano, indipendentemente dalle barriere sociali e dalle etichette.

Il video si trova nel Padiglione dell’Iran, fortemente contestato per la politica di repressione dei diritti perpetrata dal regime del paese. Inevitabilmente le questioni politiche si intrecciano a quelle dell’arte contemporanea.

Credo sia corretto evidenziare ed essere consapevoli delle profonde contraddizioni che spesso si palesano tra scelte dei governi e opere degli artisti esposti a rappresentarli, un tema intricato ma che ci sollecita a riflettere e discutere sui valori e il significato dell’arte stessa.

(Testo di Ivetta Galli, foto e video, dove non specificato, di Ivetta Galli, Aldo Mazzolini e Flavio Mazzolini)

Dalla 60ª Biennale d’Arte di Venezia: CAPANNA – ‘SAFE SPACE’

L’archetipo della capanna, luogo primario di rifugio, spazio sicuro per il viandante, è una figura necessaria nell’immaginario delle persone, in particolari nomadi o alla ricerca di un luogo accogliente; questa ‘figura’ ricorre, non a caso, in molti degli interventi artistici dell’esposizione ‘stranierǝ ovunque’.

Frequentemente è una ricostruzione fisica, carica di rimandi simbolici e culturali, di un luogo al centro del nostro peregrinare, o della memoria, ma può essere anche uno ‘safe-space’ evocato come urgente, in particolare dallǝ giovanǝ artistǝ che, ‘stranierǝ’ rispetto ad un mondo rigidamente binario od omobitransfobico, cercano un ambiente domestico a cui appartenere e in cui ‘sentirsi a casa’,

Nil Yalter (Il Cairo, 1938), Topak Ev, 1973, Giardini, 60ª Biennale di Venezia

Nel salone circolare, all’ingresso del padiglione ai Giardini, Nil Yalter, artista turca nata al Cairo, ricostruisce una Topak Ev, una tipica tenda della comunità nomade Bektik dell’Anatolia Centrale, struttura rivestita di feltro e decorata con pelli di pecora, lavorate con scritte e inserti di altri materiali tessili.

I Bektik della steppa anatolica dicono che la tenda rotonda sia ‘una casa delle donne’ “: la scelta da parte dell’artista di riproporre quest’opera, una tenda che veniva costruita dalle future spose, porta l’attenzione sulle ricerche artistiche esplorate da Nil Yalter: le tematiche di genere e la liberazione sessuale femminile intrecciate ai temi della migrazione. Le pareti avvolgenti della sala riportano l’installazione ‘Exile is a Hard Job‘, una narrazione del tema dell’esilio testimoniata dal punto di vista femminile.

A Nil Yalter è stato riconosciuto il Leone d’oro alla carriera per il proprio significativo percorso artistico in relazione al tema della Biennale di Adriano Pedrosa,

Mataaho Collective (Nuova Zelanda, 2012), Takapau, 2024, Arsenale, 60ª Biennale di Venezia

All’ingresso delle Corderie dell’Arsenale si viene accolti da un’ installazione architettonica, come una grande culla, realizzata da un collettivo di donne maori. Il complesso intreccio di nastri bicromi propone, in grande scala, la tecnica per la realizzazione del ‘takapau’, una stuoia tessuta finemente e utilizzata per la cerimonia del parto.

La nascita, come rito di passaggio dal buio alla luce, viene evocata dal disegno della tessitura, bianco e grigio, e dai diversi giochi di luce e ombra che le trame riflettono nello spazio; uno spazio in cui si percepisce il benessere di una tenda protettiva e accogliente,

Al Collettivo Maori Mataaho è stato riconosciuto il Leono d’Oro assegnato al miglior artista partecipante.

Kiluanji Kia Henda (Angola, 1979), A Espiral do Medo, 2024, Arsenale, 60ª Biennale di Venezia

All’iniziale piacevole effetto decorativo, dato dai diversi disegni delle ringhiere metalliche e dai loro riflessi, segue una sensazione di esclusione dalla ‘Spirale della paura’, una gabbia allestita per difesa da un pericolo imminente.

L’artista angolano Kiluanji Kia Henda ha raccolto questi pezzi di griglie dalla sua terra creando una struttura precaria, uno spazio incerto, denunciando il prevalere di una funzione di chiusura e, conseguentemente di rifiuto dello ‘straniero’, perdendo così, la dimora, qualsiasi riferimento all’accoglienza.

Daniel Otero Torres (Colombia, 1985), Lluvia, 2024, Arsenale, 60ª Biennale di Venezia

Lo scheletro di una palafitta, posticcia, che regge recipienti e materiali di scarto, riciclati, immersa in una vasca d’acqua, ricostruisce un’abitazione della comunità Emberà, edificate lungo le rive del fiume Atrato, in Colombia. Il modello proposto da Daniel Otero Torres, racconta la difficoltà, di queste comunità emarginate, nel sopravvivere ai problemi di precarietà abitativa e di carenza di acqua potabile; infatti, pur disponendo la zona di molta acqua, la gran quantità di inquinamento dovuto all’estrazione dell’oro, ne pregiudica la potabilità.

L’ingegnoso sistema di purificazione del ciclo dell’acqua, ricostruito qui simbolicamente, vuole essere una denuncia delle gravi conseguenze sull’abitare dei processi di privatizzazione della natura.

Antonio Jose Guzman (Panama, 1971) & Iva Jankovic (Serbia, 1979), Orbital Mechanics, from the Electric Dub Station series, 2024, Arsenale, 60ª Biennale di Venezia

Tutti noi da bambini abbiamo costruito una capanna/tenda con lenzuola e panni vari per gioco, per creare un nostro spazio sicuro, per sentirci protetti e cullati. Non so perché ma percorrere questa grande tenda/architettura che si incontra all’Arsenale, costruita con raffinate tele tinte con l’indaco, dentro cui si diffonde un ‘tessuto’ sonoro dato dall’intreccio di ritmi senegalesi e timbri elettronici, ha fatto riemergere pezzetti di memoria dei miei giochi infantili.

Il complesso lavoro di Antonio Jose Guzman e Iva Jankovic scava nella storia coloniale e dello schiavismo africano, utilizzando il colore indaco, di origine vegetale, proprio dei tessuti sacri, come simbolo della migrazione nelle Americhe; infatti, gli schiavi africani portarono e diffusero la coltivazione di questa pianta nelle terre in cui furono deportati.

Per realizzare i tessuti dell’installazione gli artisti hanno utilizzato tecniche di tintura antichissime e i disegni scelti creano trame geometriche molto suggestive; tra i segni tessuti emblematici sono le ritmiche tracce di sequenze di DNA, impronta di un ricco patrimonio umano di esistenze dato dall’ intreccio di etnie conseguenti alle migrazioni.

Charmaine Poh (Singapore, 1990), Kin, (tre frames dal video: https://www.youtube.com/watch?v=63_zcy6J9QM ) 2022, Arsenale, 60ª Biennale di Venezia

‘Safe-space’ è anche quello cercato dalle giovani persone queer, ‘estranee’ troppo spesso all’interno della propria casa e della propria famiglia, in una cultura eteronormata, cultura che impedisce di vivere un sereno percorso di autoaffermazione, coerente alla propria identità di genere e al proprio orientamento sessuale.

L’occhio curioso del giovane volto è lo sguardo profondo della giovane artista del Singapore, Charmaine Poh che, nei video presentati all’Arsenale, narra con estrema poesia e delicatezza, momenti di vita desiderati ed immaginati da tre giovani queer, in un contesto domestico, accogliente e sicuro.

Kin, an imaginary safe space for queer life in Singapore, è una creazione suggestiva che mette in luce le complesse tematiche vissute dalle persone queer, la cui invisibilità inizia ad essere scalfita dalle giovani generazioni; in questa Biennale, Adriano Pedrosa dà voce a molte esperienze di artisti della galassia LGBT+, persone che per la loro condizione di minoranza hanno spesso vissuto come “straniere” nel proprio stesso mondo.

Elmear Walshe (Irlanda, 1992), Romantic Ireland, 2024, Padiglione dell’Irlanda, Arsenale, 60ª Biennale di Venezia

La giovane artista queer irlandese Elmear Walshe, nell’installazione multidisciplinare all’Arsenale, intreccia storie della propria terra legate al tema dell’abitare, sia da un punto di vista storico/politico che personale; in Romantic Ireland allestisce video con performers, mascherati con terra argillosa, risorsa prima per le costruzioni delle case storiche, sulle note di un’opera che narra un episodio di sfratto, ‘attori’ che si muovono tra muri in argilla di un’abitazione in rovina.

L’episodio di sfratto di un anziano che si vede costretto a lasciare tutto quello che per lui era la vita, è motivo di riflessione sulla disparità di potere nella gestione delle terre, eredità di rapporti ‘coloniali’ tra proprietari e abitanti.

Rapporti di potere che impediscono la fruizione di uno spazio sicuro, come dovrebbe essere considerata la propria casa. Emblematica a riguardo è la stesura/copertura della propria pelle con la terra cruda, estremo bisogno di dare al corpo un tessuto protettivo sicuro, un rifugio abitativo.

Moufouli Bello (Benin, 1987), Ashe, 2024, Padiglione del Benin, Arsenale, 60ª Biennale di Venezia

Ashe‘ è il titolo del grande guscio che si erge al centro dell’interessante Padiglione del Benin, ‘Everything precious is fragile’: è una capanna realizzata con taniche di plastica sovrapposte, sulle cui facce interne si modellano maschere dalle fattezze umane.

L’artista del Benin, Moufouli Bello, celebra in quest’opera la saggezza del suo popolo, mettendo in luce le voci storicamente marginalizzate. Il nome ‘Ashe‘ significa ‘Così sia‘, ma anche potere ed energia e la scelta vuole sottolineare il valore spirituale attribuito allo spazio emisferico, “come fosse un convento”, dice l’artista stesso.

Le maschere evocano il popolo del Benin, le persone deportate come schiavi, le donne di ieri e di oggi, un passato ed un presente che si impone come storia per ricostruire un futuro: all’interno, basta alzare la testa e si vede la volta celeste, luogo abitato dagli antenati, lì nascosti per vegliare sul mondo. E il le sonorità indigene che si diffondono nella capanna austera trasmettono l’intensità e l’emozione di un rito sacro.

Sergey Maslov (Samara 1952, 2002), Baikonur 2, Padiglione del Kazakistan, 60ª Biennale di Venezia

Nel Padiglione del Kazakistan, collocato nel Museo Navale, viene elaborata con installazioni l’utopia di una terra promessa, narrata da sempre dai miti kazaki, sogno necessario per fuggire dalle apocalissi terrene di una terra soggetta a continue dominazioni e devastazioni ecologiche. Attraverso visioni futuristiche, tra le opere esposte, quella di Sergey Maslov, artista non più vivente, mette al centro la ‘yurta’, una tenda dei popoli nomadi, nella ricerca di una relazione tra umanità e cosmo, combinando la tenda con astronavi spaziali, sognando una coabitazione tra popoli diversi e molto distanti tra loro.

La tenda della tradizione nomade diviene modello di un profondo desiderio di armonia e di pace.

Toyin Ojih Odutola (Nigeria, 1985), Ilé Oriaku (Casa dell’abbondanza), 2024, Padiglione della Nigera, 60ª Biennale di Venezia

E’ valsa la pena perdersi tra le calli di Venezia per arrivare al Padiglione della Nigeria, un insieme di decisamente interessante di voci di artisti africani, molti residenti altrove, come Toyin Ojih Odutola, artista ora residente negli Stati Uniti.

La sala allestita con i dipinti di Toyin Ojih Odutola, è stata concepita come la ricreazione della sala quadrangolare delle ‘Mbari House’ nigeriane, case rituali del sud-est della Nigeria, distrutte in seguito alla guerra civile degli anni Sessanta/Settanta, eredità della violenza coloniale e postcoloniale.

La casa era luogo in cui si celebravano riti propiziatori per placare le divinità, in particolare Ala, la dea della terra; la casa era adornata da statue scolpite nel fango o dipinte alle pareti, ora del tutto perse. Nelle notti di luna piena, si raccontava, gli spiriti inquieti si esibivano in performance che raccontavano storie dell’immaginario nigeriano.

L’artista parte dalla memoria storica, dal folklore e dalla mitologia della sua terra per recuperare, dalla forza della tradizione, la potenza creativa che può essere motore di rigenerazione per la Nigeria postcoloniale. Quindi la ‘Mbari House’, rivisitata, può divenire luogo di incontro e dialogo tra persone che, liberando la propria capacità progettuale, possono attraverso l’arte ricostruire un senso di comunità.

Le parti di figure, prevalentemente femminili e di colore, dipinte dall’artista nigeriana sono quasi scolpite con il colore, steso con decisione e grande sapienza per superfici luminose e contrapposte. Corpi che si intrecciano con l’architettura e la natura come frammenti colorati di un immaginario ricco di scorci inconsueti; l’artista definisce le sue figure come vulnerabili, ma dignitose, forti e, nello stesso tempo, fragili. Si respira il desiderio di far parte di un ambiente domestico/sacro sicuro.

(Testo di Ivetta Galli, foto e video, dove non specificato, di Ivetta Galli, Aldo Mazzolini e Flavio Mazzolini)