Esterno del Padiglione della Germania, Thresholds, Giardini – Yael Bartana (Israele, 1970), Farewell, 2024, Padiglione Germania, 60ª Biennale di Venezia
Di terra, accumulata, se ne incontra molta, tra gli interventi artistici della Biennale.
E, come di terra, c’è anche tanta acqua.
Elementi basilari del nostro pianeta, impastati, possono dare forma ai pensieri ed alle immagini degli artisti; d’altra parte nei miti dall’argilla nasce la creazione di esseri viventi e di nuovi mondi.
Si respira l’urgenza di ricostruire, di ricreare, a partire dalle più essenziali risorse disponibili, ambienti desiderabili, accoglienti e inclusivi, in una ricerca di relazioni sostenibili e soddisfacenti tra gli esseri viventi e il pianeta.
Urgenza che nasce dal vissuto delle tragedie contemporanee, sottese alle esperienze svelate dagli artisti, come motivo di stimolo e di speranza per la ricreazione di un mondo in profonda crisi.
Il Padiglione della Germania ne è una felice sintesi: dalle frana di macerie terrose che blocca l’ingresso, alla congelata ricostruzione, all’interno, di un alloggio anni settanta completamente sommerso dalle ceneri terrose e velenose dell’amianto, simbolo del tramonto del progresso, alla ricerca di soluzioni di fondazione di nuovi mondi nello spazio intergalattico, narrata da video suggestivi, in cui si rigenera una visione di armonia tra le specie viventi. Danze rituali e ritmi coinvolgenti sulla parete concava interna magnetizzano l’attenzione: nostalgia di riti collettivi e appaganti, di movimenti cadenzati dalla musica e dai canti, di gesti che ci facciano riconoscere come comunità?
E’ questo un ‘leit motif’ che riemerge con prepotenza in moltissime altre opere.
John Akomfrah (Ghana, 1957), Listening all night to the rain, 2024, Padiglione della Gran Bretagna, Giardini, 60ª Biennale di Venezia
L’acqua è la protagonista dei meravigliosi video che rivestono le pareti del Padiglione della Gran Bretagna. Affidato a John Akomfrah, artista che con magia crea preziosi quadri in movimento, densi di racconti e di significati.
Attraverso i mari e i fiumi passano le storie di popoli in cammino, documentate con foto d’archivio anche drammatiche, oppure create dall’artista stesso con estrema sapienza.
John Akomfrah (Ghana, 1957), Listening all night to the rain, 2024, Padiglione della Gran Bretagna, Giardini, 60ª Biennale di Venezia
L’acqua come deposito di materiali e oggetti persi nel tempo, luogo in cui si stratificano testimonianze del passato, oppure che diventa ‘sentinella’ delle trasformazioni ambientali e dell’inquinamento.
Se le immagini poetiche di John Akomfrah che ci scorrono davanti agli occhi sono frutto di una ricerca sul passato, la storia, la cultura e la contemporaneità, l’immersione nei mari che ci accolgono nel Padiglione francese ci proiettano dal presente in un futuro fiabesco, a volte ironico e giocoso, a volte inquietante,
Julien Creuzet (Parigi, 1986), ‘Attila cataracte ta source aux pieds des pitons verts finira dans la grande mer gouffre bleu nous nous noyâmes dans les larmes marées de la lune’ , 2024, Padiglione della Francia, Giardini, 60ª Biennale di Venezia
L’artista franco-caraibico, Julien Creuzet, partendo dal suo immaginario infantile, ci porta tra le acque e nella terra delle sue radici, la Martinica; attorno ad un verso poetico del poeta Glissant, nato in Martinica e vissuto in Francia, Julien allestisce uno spazio immersivo in cui fonde mirabilmente scultura, musica, poesia e cinema: immagini di fondali marini, correnti d’acqua e cascate alimentano le nostre percezioni, stimolano la nostra immaginazione e fanno riemergere memorie collettive.
Julien Creuzet (Parigi, 1986), ‘Attila cataracte ta source aux pieds des pitons verts finira dans la grande mer gouffre bleu nous nous noyâmes dans les larmes marées de la lune’ , 2024, frames da video, Padiglione della Francia, Giardini, 60ª Biennale di Venezia
L’artista lavora sull’immagine della confluenza dei corsi d’acqua come metafora delle poetiche di relazioni, come luogo dello scambio con l’altro, immagine di uno spazio utopico molto potente, in cui abitano esseri viventi anche frutto di metamorfosi di varie specie, un luogo del tutto inclusivo e accogliente.
Mark Salvatus (Filippine, 1980), Waiting just behind the courtain of the age, 2024, Padiglione delle Filippine, Arsenale, 60ª Biennale di Venezia
Torniamo alle immagini di terra, molte, tra cui questi particolari dell’installazione dell’artista filippino Mark Salvatus, dove un accumulo di terra, in verità in vetroresina, dà vita al suono di strumenti musicali delle bande e dei musicisti del monte Banahaw delle Filippine.
La scelta del luogo è emblematica, ‘Il monte mi ha sempre affascinato, anche perché è un luogo storico ed è stato uno dei primi spazi in cui Pule, assieme alla popolazione locale, iniziò ad organizzare una rivolta contro il dominio spagnolo.‘
Il progetto che l’artista filippino propone ruota infatti attorno alla propria origine, alla cultura del proprio popolo, alle tradizioni, tra cui l’espressione musicale, riannodando i motivi storici che lo hanno visto protagonista di momenti di resistenza contro i colonizzatori.
Manal Al Dowayan (Arabia Saudita, 1973), Shifting Sands: a Battle Song, 2024, Padiglione dell’Arabia Saudita, Arsenale, 60ª Biennale di Venezia
‘Sabbie mutevoli: una canzone di battaglia’ è il titolo del Padiglione dell’Arabia Saudita, allestito dall’artista Manal Al Dowayan: il potente e coinvolgente messaggio femminista, veicolato sia da un tessuto sonoro di voci e canti di giovani ragazze che inonda l’ambiente, sia dalle eleganti calligrafie arabe, attraverso cui si impongono parole del patrimonio di liberazione delle donne, giunge chiaro.
La scrittura e i grafismi che rivestono i ‘grappoli di lame di cristallo delle rose del deserto’ ci interrogano sulle contraddizioni tra le politiche di governo del paese rispetto ai diritti umani, committente dell’opera, e la radicale rivendicazione degli stessi, da parte dell’artista che lo rappresenta.
Anna Maiolino (Italia, 1942), Anno 1942, Mapas mentals,2973-1999 e Terra Modelata, 2024, Arsenale, 60ª Biennale di Venezia
Anna Maiolino è stata premiata con il Leone d’oro alla carriera e la sua esperienza ripercorre i temi salienti di questa mostra: emigrata dalla Calabria in Brasile, ha vissuto e lavorato tenacemente come artista in America Latina. La forma dell’Italia del 1942, suo anno di nascita, ritagliata dal bruno cenere del fuoco, rimanda ai bombardamenti subiti, e restituisce una figura sofferta della propria identità.
L’artista dagli anni ottanta si dedica a modellare la terra, l’argilla, recuperando la gestualità nella creazione artistica a partire dagli elementi naturali più essenziali. Lo spazio da lei allestito in una stanza all’Arsenale è trasformato in un’architettura abitata e arredata dalla proliferazione di forme in terracotta che rimandano alla ciclicità e continuità della vita, al suo continuo rinnovarsi, in continua trasformazione ed evoluzione.
Maria Madeira (Timor Leste 1969), Kiss and don’t tell, 2024, parte del video, Padiglione di Timor Leste, 60ª Biennale di Venezia
Con argilla rossa, dalla terra di Timor Leste, spalmata sul tessuto tradizionale teso alle pareti e accumulata a terra, Maria Madeira rievoca le violenze subite dalle donne nel suo paese, costrette dagli uomini a baciare col rossetto le pareti e a sottomettersi a loro.
Il canto dolente da lei interpretato, ‘Cara Madre Terra’, e i gesti dell’artista volti a riscattare il sacrificio delle vittime del patriarcato, restituiscono un’esperienza emotiva e poetica intensa, trasfigurata nei delicati colori che avvolgono la stanza del Padiglione.
Maria Madeira (Timor Leste 1969), Kiss and don’t tell, 2024, Padiglione di Timor Leste, 60ª Biennale di Venezia
Con la terra argillosa, con gocce di vernice e noce di betel, Maria Madeira dipinge un ambiente carico di note di dolore e di desiderio di resilienza, in cui si respira la memoria e la storia dei suoi racconti.
Joshua Serafin (Filippine, 1995), Void, 2022, frames da video, Arsenale, 60ª Biennale di Venezia
Dal fango, in riva ad una pozzanghera, prende vita e corpo una persona, un mito di creazione primordiale che si ripete, lentamente, in un contesto notturno e fortemente contaminato dalla materia argillosa. Nel video di Joshua Serafin, la figura che si anima è una divinità non binaria, emblema di una utopia queer come modello di superamento dei pregiudizi di una cultura patriarcale, radicata nella tradizione filippina, ma non solo; l’opera diviene, a mio parere, una visione pregnante della rivoluzione in atto, a livello planetario, relativamente ai concetti di genere e di identità, motivo che, abbiamo visto, emerge in molte opere, in particolare di giovani artisti.
(Testo di Ivetta Galli, foto e video, dove non specificato, di Ivetta Galli, Aldo Mazzolini e Flavio Mazzolini)
L’archetipo della capanna, luogo primario di rifugio, spazio sicuro per il viandante, è una figura necessaria nell’immaginario delle persone, in particolari nomadi o alla ricerca di un luogo accogliente; questa ‘figura’ ricorre, non a caso, in molti degli interventi artistici dell’esposizione ‘stranierǝ ovunque’.
Frequentemente è una ricostruzione fisica, carica di rimandi simbolici e culturali, di un luogo al centro del nostro peregrinare, o della memoria, ma può essere anche uno ‘safe-space’ evocato come urgente, in particolare dallǝ giovanǝ artistǝ che, ‘stranierǝ’ rispetto ad un mondo rigidamente binario od omobitransfobico, cercano un ambiente domestico a cui appartenere e in cui ‘sentirsi a casa’,
Nil Yalter (Il Cairo, 1938), Topak Ev, 1973, Giardini, 60ª Biennale di Venezia
Nel salone circolare, all’ingresso del padiglione ai Giardini, Nil Yalter, artista turca nata al Cairo, ricostruisce una Topak Ev, una tipica tenda della comunità nomade Bektik dell’Anatolia Centrale, struttura rivestita di feltro e decorata con pelli di pecora, lavorate con scritte e inserti di altri materiali tessili.
“I Bektik della steppa anatolica dicono che la tenda rotonda sia ‘una casa delle donne’ “: la scelta da parte dell’artista di riproporre quest’opera, una tenda che veniva costruita dalle future spose, porta l’attenzione sulle ricerche artistiche esplorate da Nil Yalter: le tematiche di genere e la liberazione sessuale femminile intrecciate ai temi della migrazione. Le pareti avvolgenti della sala riportano l’installazione ‘Exile is a Hard Job‘, una narrazione del tema dell’esilio testimoniata dal punto di vista femminile.
A Nil Yalter è stato riconosciuto il Leone d’oro alla carriera per il proprio significativo percorso artistico in relazione al tema della Biennale di Adriano Pedrosa,
Mataaho Collective (Nuova Zelanda, 2012), Takapau, 2024, Arsenale, 60ª Biennale di Venezia
All’ingresso delle Corderie dell’Arsenale si viene accolti da un’ installazione architettonica, come una grande culla, realizzata da un collettivo di donne maori. Il complesso intreccio di nastri bicromi propone, in grande scala, la tecnica per la realizzazione del ‘takapau’, una stuoia tessuta finemente e utilizzata per la cerimonia del parto.
La nascita, come rito di passaggio dal buio alla luce, viene evocata dal disegno della tessitura, bianco e grigio, e dai diversi giochi di luce e ombra che le trame riflettono nello spazio; uno spazio in cui si percepisce il benessere di una tenda protettiva e accogliente,
Al Collettivo Maori Mataaho è stato riconosciuto il Leono d’Oro assegnato al miglior artista partecipante.
Kiluanji Kia Henda (Angola, 1979), A Espiral do Medo, 2024, Arsenale, 60ª Biennale di Venezia
All’iniziale piacevole effetto decorativo, dato dai diversi disegni delle ringhiere metalliche e dai loro riflessi, segue una sensazione di esclusione dalla ‘Spirale della paura’, una gabbia allestita per difesa da un pericolo imminente.
L’artista angolano Kiluanji Kia Henda ha raccolto questi pezzi di griglie dalla sua terra creando una struttura precaria, uno spazio incerto, denunciando il prevalere di una funzione di chiusura e, conseguentemente di rifiuto dello ‘straniero’, perdendo così, la dimora, qualsiasi riferimento all’accoglienza.
Daniel Otero Torres (Colombia, 1985), Lluvia, 2024, Arsenale, 60ª Biennale di Venezia
Lo scheletro di una palafitta, posticcia, che regge recipienti e materiali di scarto, riciclati, immersa in una vasca d’acqua, ricostruisce un’abitazione della comunità Emberà, edificate lungo le rive del fiume Atrato, in Colombia. Il modello proposto da Daniel Otero Torres, racconta la difficoltà, di queste comunità emarginate, nel sopravvivere ai problemi di precarietà abitativa e di carenza di acqua potabile; infatti, pur disponendo la zona di molta acqua, la gran quantità di inquinamento dovuto all’estrazione dell’oro, ne pregiudica la potabilità.
L’ingegnoso sistema di purificazione del ciclo dell’acqua, ricostruito qui simbolicamente, vuole essere una denuncia delle gravi conseguenze sull’abitare dei processi di privatizzazione della natura.
Antonio Jose Guzman (Panama, 1971) & Iva Jankovic (Serbia, 1979), Orbital Mechanics, from the Electric Dub Station series, 2024, Arsenale, 60ª Biennale di Venezia
Tutti noi da bambini abbiamo costruito una capanna/tenda con lenzuola e panni vari per gioco, per creare un nostro spazio sicuro, per sentirci protetti e cullati. Non so perché ma percorrere questa grande tenda/architettura che si incontra all’Arsenale, costruita con raffinate tele tinte con l’indaco, dentro cui si diffonde un ‘tessuto’ sonoro dato dall’intreccio di ritmi senegalesi e timbri elettronici, ha fatto riemergere pezzetti di memoria dei miei giochi infantili.
Il complesso lavoro di Antonio Jose Guzman e Iva Jankovic scava nella storia coloniale e dello schiavismo africano, utilizzando il colore indaco, di origine vegetale, proprio dei tessuti sacri, come simbolo della migrazione nelle Americhe; infatti, gli schiavi africani portarono e diffusero la coltivazione di questa pianta nelle terre in cui furono deportati.
Per realizzare i tessuti dell’installazione gli artisti hanno utilizzato tecniche di tintura antichissime e i disegni scelti creano trame geometriche molto suggestive; tra i segni tessuti emblematici sono le ritmiche tracce di sequenze di DNA, impronta di un ricco patrimonio umano di esistenze dato dall’ intreccio di etnie conseguenti alle migrazioni.
‘Safe-space’ è anche quello cercato dalle giovani persone queer, ‘estranee’ troppo spesso all’interno della propria casa e della propria famiglia, in una cultura eteronormata, cultura che impedisce di vivere un sereno percorso di autoaffermazione, coerente alla propria identità di genere e al proprio orientamento sessuale.
L’occhio curioso del giovane volto è lo sguardo profondo della giovane artista del Singapore, Charmaine Poh che, nei video presentati all’Arsenale, narra con estrema poesia e delicatezza, momenti di vita desiderati ed immaginati da tre giovani queer, in un contesto domestico, accogliente e sicuro.
Kin, an imaginary safe space for queer life in Singapore, è una creazione suggestiva che mette in luce le complesse tematiche vissute dalle persone queer, la cui invisibilità inizia ad essere scalfita dalle giovani generazioni; in questa Biennale, Adriano Pedrosa dà voce a molte esperienze di artisti della galassia LGBT+, persone che per la loro condizione di minoranza hanno spesso vissuto come “straniere” nel proprio stesso mondo.
Elmear Walshe (Irlanda, 1992), Romantic Ireland, 2024, Padiglione dell’Irlanda, Arsenale, 60ª Biennale di Venezia
La giovane artista queer irlandese Elmear Walshe, nell’installazione multidisciplinare all’Arsenale, intreccia storie della propria terra legate al tema dell’abitare, sia da un punto di vista storico/politico che personale; in Romantic Ireland allestisce video con performers, mascherati con terra argillosa, risorsa prima per le costruzioni delle case storiche, sulle note di un’opera che narra un episodio di sfratto, ‘attori’ che si muovono tra muri in argilla di un’abitazione in rovina.
L’episodio di sfratto di un anziano che si vede costretto a lasciare tutto quello che per lui era la vita, è motivo di riflessione sulla disparità di potere nella gestione delle terre, eredità di rapporti ‘coloniali’ tra proprietari e abitanti.
Rapporti di potere che impediscono la fruizione di uno spazio sicuro, come dovrebbe essere considerata la propria casa. Emblematica a riguardo è la stesura/copertura della propria pelle con la terra cruda, estremo bisogno di dare al corpo un tessuto protettivo sicuro, un rifugio abitativo.
Moufouli Bello (Benin, 1987), Ashe, 2024, Padiglione del Benin, Arsenale, 60ª Biennale di Venezia
‘Ashe‘ è il titolo del grande guscio che si erge al centro dell’interessante Padiglione del Benin, ‘Everything precious is fragile’: è una capanna realizzata con taniche di plastica sovrapposte, sulle cui facce interne si modellano maschere dalle fattezze umane.
L’artista del Benin, Moufouli Bello, celebra in quest’opera la saggezza del suo popolo, mettendo in luce le voci storicamente marginalizzate. Il nome ‘Ashe‘ significa ‘Così sia‘, ma anche potere ed energia e la scelta vuole sottolineare il valore spirituale attribuito allo spazio emisferico, “come fosse un convento”, dice l’artista stesso.
Le maschere evocano il popolo del Benin, le persone deportate come schiavi, le donne di ieri e di oggi, un passato ed un presente che si impone come storia per ricostruire un futuro: all’interno, basta alzare la testa e si vede la volta celeste, luogo abitato dagli antenati, lì nascosti per vegliare sul mondo. E il le sonorità indigene che si diffondono nella capanna austera trasmettono l’intensità e l’emozione di un rito sacro.
Sergey Maslov (Samara 1952, 2002), Baikonur 2, Padiglione del Kazakistan, 60ª Biennale di Venezia
Nel Padiglione del Kazakistan, collocato nel Museo Navale, viene elaborata con installazioni l’utopia di una terra promessa, narrata da sempre dai miti kazaki, sogno necessario per fuggire dalle apocalissi terrene di una terra soggetta a continue dominazioni e devastazioni ecologiche. Attraverso visioni futuristiche, tra le opere esposte, quella di Sergey Maslov, artista non più vivente, mette al centro la ‘yurta’, una tenda dei popoli nomadi, nella ricerca di una relazione tra umanità e cosmo, combinando la tenda con astronavi spaziali, sognando una coabitazione tra popoli diversi e molto distanti tra loro.
La tenda della tradizione nomade diviene modello di un profondo desiderio di armonia e di pace.
Toyin Ojih Odutola (Nigeria, 1985), Ilé Oriaku (Casa dell’abbondanza), 2024, Padiglione della Nigera, 60ª Biennale di Venezia
E’ valsa la pena perdersi tra le calli di Venezia per arrivare al Padiglione della Nigeria, un insieme di decisamente interessante di voci di artisti africani, molti residenti altrove, come Toyin Ojih Odutola, artista ora residente negli Stati Uniti.
La sala allestita con i dipinti di Toyin Ojih Odutola, è stata concepita come la ricreazione della sala quadrangolare delle ‘Mbari House’ nigeriane, case rituali del sud-est della Nigeria, distrutte in seguito alla guerra civile degli anni Sessanta/Settanta, eredità della violenza coloniale e postcoloniale.
La casa era luogo in cui si celebravano riti propiziatori per placare le divinità, in particolare Ala, la dea della terra; la casa era adornata da statue scolpite nel fango o dipinte alle pareti, ora del tutto perse. Nelle notti di luna piena, si raccontava, gli spiriti inquieti si esibivano in performance che raccontavano storie dell’immaginario nigeriano.
L’artista parte dalla memoria storica, dal folklore e dalla mitologia della sua terra per recuperare, dalla forza della tradizione, la potenza creativa che può essere motore di rigenerazione per la Nigeria postcoloniale. Quindi la ‘Mbari House’, rivisitata, può divenire luogo di incontro e dialogo tra persone che, liberando la propria capacità progettuale, possono attraverso l’arte ricostruire un senso di comunità.
Le parti di figure, prevalentemente femminili e di colore, dipinte dall’artista nigeriana sono quasi scolpite con il colore, steso con decisione e grande sapienza per superfici luminose e contrapposte. Corpi che si intrecciano con l’architettura e la natura come frammenti colorati di un immaginario ricco di scorci inconsueti; l’artista definisce le sue figure come vulnerabili, ma dignitose, forti e, nello stesso tempo, fragili. Si respira il desiderio di far parte di un ambiente domestico/sacro sicuro.
(Testo di Ivetta Galli, foto e video, dove non specificato, di Ivetta Galli, Aldo Mazzolini e Flavio Mazzolini)
Juliette Zelime alias Jadez (Seychelles, 1984), Pala, Padiglione della Repubblica delle Seychelles, Arsenale, 60ª Biennale di Venezia
Fili che disegnano traiettorie di collegamento, reti di percorsi, fili che costruiscono mappe e che si aggrovigliano in labirinti; fili che inseguono il fluire del tempo delle persone in viaggio, che si intrecciano in nodi più o meno stabili; fili che a volte si spezzano e a volte si ricongiungono.
Numerose sono le opere, provenienti da diversi luoghi del mondo, disegnate con fili su tessuti; l’impatto visivo e la densità di significati che riescono a narrare sono sorprendenti.
Vlatka Horvat (Croazia, 1974), By the Means at Hand, Padiglione della Croazia, 60ª Biennale di Venezia
Questo umile lavoro esposto nel Padiglione della Croazia, un gioiellino perso tra le calli veneziane, condensa molti significati, tanto da essere scelto, da me, per aprire questa ‘maratona tematica’ tra sedi della Biennale e Padiglioni,
L’immagine illustra il progetto dell’artista croata Vlatka Horvat, cioè una raccolta e uno scambio di opere, tra artisti che vivono in una condizione di diaspora in diversi paesi, che vengono spedite in viaggio attraverso corrieri e mezzi improvvisati, con l’obiettivo di costruire legami di fiducia, di solidarietà e di sostegno reciproco,
Nello stesso tempo il disegno può evocare il significato della parola della tradizione giapponese, ‘musubi’, secondo cui la vita, lo scorrere del tempo, i rapporti e i ‘legami’ tra le persone sono come un intreccio di fili invisibili, figura ricorrente nell’immaginario di molti artisti nomadi e pone l’attenzione su di una tecnica utilizzata in molti lavori della Biennale, non a caso, in relazione al tema di fondo proposto dal curatore e alle vite ‘diasporiche’ dei protagonisti.
Percorrendo l’Arsenale si incontrano interventi artistici coerenti a queste tematiche, ‘mappe’ di mondi fissate nel tessuto, spesso realizzate con pratiche di lavoro collettivo, particolarmente suggestive per lo sguardo colorato di voglia di riscatto, in una prospettiva di dialogo, di pace e di costruzione di un’appartenenza, ovunque si sia.
Bouchra Khalili (Casablanca, 1975), The Mapping Journey Project, 2008-11 e Sea Drift, 2024, Arsenale, 60ª Biennale di Venezia
Le rotte migratorie che dall’Africa si dirigono verso le isole Canarie, restituite con un ricamo di filo luminoso su di un lino naturale blu profondo, assieme a otto silografie ‘Constellations series‘, disegnate da Bouchra Kalili, completano il progetto dell’artista illustrato su otto schermi di una grande videoinstallazione all’Arsenale, in cui vengono narrate e segnate le vie percorse dagli stessi migranti, dall’Africa e dall’Asia. Migranti in viaggio, erranti, come i pianeti, tra le stelle.
Bouchra Khalili (Casablanca, 1975), Constellations Series, 2024, Arsenale, 60ª Biennale di Venezia
La trasfigurazione poetica delle tracce dei viaggi delle persone che fuggono dalla propria terra, affrontano esperienze di pericolo e profonda sofferenza alla ricerca di una vita più desiderabile, diviene quasi una necessità per reinventare alternative alla disperazione; le linee ricamate e le linee ideali delle costellazioni tracciano un paesaggio sognato, senza confini e senza barriere geopolitiche.
Dana Avartani (Palestina, 1985), Vieni, lascia che guarisca le tue ferite, lascia che ripari le tue ossa rotte, 2024, Arsenale, 60ª Biennale di Venezia
Dana Avartani, artista palestinese-saudita, ha lacerato le lunghe pezze di seta stese nel salone dell’Arsenale, poi le ha rammendate, rattoppandone i buchi, con fili dello stesso colore, ottenuto da tinte naturali tratte da spezie orientali, erbe utilizzate anche per guarire, con un gesto di cura; cura delle ferite causate della violenza della guerra e dalle occupazioni devastanti della sua terra natale.
Dana Avartani utilizza il filo e il cucito in un gesto rituale che ‘delicatamente urla’ un messaggio di pace, in questi giorni particolarmente necessario anche per la distruzione dei territori della Palestina e non solo.
Shalom Kufakwatenzi (Zimbabwe, 1995), Under the Sea, 2023, Arsenale, 60ª Biennale di Venezia
Tra gli spazi dell’Arsenale si incontra la giovane artista dello Zimbabwe, Shalom Kufakwatenzi, che predilige la realizzazione di opere tessili con le quali dipinge suggestivi quadri di ‘paesaggio’; la lavorazione con fili di lana, tela di juta, spago, lenza da pesca, materiali malleabili e trasformabili, le permette di sperimentare un processo di creazione affine alla fluidità della propria identità di genere, non binaria.
L’artista crea mondi fantastici, mappe di un mondo fiabesco, contemporaneamente affascinanti, per le forme e le tinte vivaci, come inquietanti, per le pieghe scure e profonde che le delimitano; inquietudine che vuole essere denuncia del proprio senso di estraneità, rispetto agli stereotipi di genere, così come ‘allarme’ rispetto le tematiche ambientali e sociali.
Claudia Alarcόn & Silӓr (Argentina, 1989), Ottobre e Donne, una volta stelle, 2023, Arsenale, 60ª Biennale di Venezia
La giovane artista della comunità indigena argentina Wichi, Claudia Alarcόn, ha recuperato la tecnica della tessitura tradizionale, che utilizza il filato ottenuto dalla pianta locale del ‘chaguar’, per valorizzare la memoria collettiva e la creatività del proprio popolo.
In questo progetto ha coinvolto alcune donne tessitrici, creando il gruppo ‘Silӓr‘, per la realizzazione collettiva di delicati e preziosi arazzi, alcuni ora esposti all’Arsenale, attuando una pratica che permette di comunicare sogni, intuizioni, pensieri e trasmettere i racconti degli anziani, un modo per costruire tra generazioni un proficuo dialogo ‘non verbale’.
Güneş Terkol (Turchia, 1981), A song to the world (part.) 2024, Arsenale, 60ª Biennale di Venezia
Il particolare dell’opera dell’artista turca Güneş Terkol è tratto dall’arazzo/striscione, lavoro di cucito e di patchwork di stoffe, che è stato realizzato assieme a due collettivi di donne di Venezia, impegnate sulle tematiche femministe e di genere.
La pratica di Güneş Terkol, oltre a coinvolgere direttamente le donne e le loro storie nella tessitura delle opere, prevede momenti di performance, in cui gli striscioni vengono portati per le vie della città in cui sono stati realizzati; in questo caso, per le calli di Venezia, fino ad arrivare all’Arsenale, dove ora è esposto. Come in altre esperienze incontrate nel percorso, l’opera prende vita grazie ad una rete di persone che si raccontano e la costruiscono collettivamente, conferendo alla stessa una forte valenza sociale e politica oltreché artistica.
Bordadoras de Isla Negra (Cile 1967-80), Untitled, 1972, Arsenale, 60ª Biennale di Venezia
Arpilleristas, artiste cilene ignote, Untitled, anni Ottanta, Arsenale, 60ª Biennale di Venezia
Questi vivaci lavori tessili, che provengono dal Cile, esposti all’Arsenale, sono stati realizzati da gruppi di donne in due momenti diversi della storia politica del Paese: le Bordadoras hanno ricamato con fili di lana di colori brillanti, con tecniche tramandate dalle donne anziane, paesaggi e abitanti di una zona costiera del Cile, negli anni del governo popolare di Allende; le Arpilleristas hanno cucito stoffe colorate e tele di juta, dando rilievo alle superfici con interventi ad uncinetto, durante la dittatura di Pinochet.
Il linguaggio artistico delle opere riflette un’estetica caratteristica dei popoli indigeni, affine ad uno sguardo infantile, linguaggio che nel Novecento spesso è stato rielaborato dalle avanguardie artistiche occidentali.
Mentre il paesaggio di Isla Negra si dipana in un racconto vivace, che procede dal mare alle Ande, celebrando una vita serena ed impegnata in varie attività quotidiane in cui il popolo è protagonista, i tessuti delle Arpilleristas, pur restituendo un simile contesto culturale, divengono manifesti della resistenza delle donne cilene all’oppressione della cultura patriarcale e alla dittatura di Pinochet. Infatti le donne, attraverso alcuni inserti tra le immagini ricamate, lanciavano messaggi di critica al governo e richiesta di aiuto per il proprio sostentamento, al punto che molte furono perseguitate per questa attività.
WangShui (USA, 1986), Weak Pearl, 2024, Arsenale, 60ª Biennale di Venezia
Fili e reti possono essere tessuti anche utilizzando tecnologie più avanzate, come nell’installazione immersiva e sonora all’Arsenale dell’artista americano WangShui.
La rete è data da una membrana intrecciata di punti luce LED cangianti, in movimento grazie a una complessa tecnologia che sfrutta l’intelligenza artificiale, con sensori che si attivano in presenza delle persone, proponendo un’esperienza interattiva avvolgente ed emozionante .
Il titolo dell’opera ‘Perla debole’, rivela la fragilità, pur nella complessità della realizzazione, della videoscultura a rete, mutevole, smaterializzata, immersa in un paesaggio sonoro, immagine della ricerca artistica di WangShui; la sua pratica è volta ad indagare i principi di metamorfosi e trasformazione propri della natura biologica, per riflettere anche sulle questioni di identità di genere ed utilizza la tecnologia più avanzata quale medium per comunicare concetti di fluidità e libertà.
Katya Buchatska (Kiev, 1987), Saluti sinceri, 2024, Padiglione dell’Ucraina, Arsenale, 60ª Biennale di Venezia
‘Net making‘ è il titolo scelto dai curatori del Padiglione dell’Ucraina, all’Arsenale; ‘la tessitura’, metafora della costruzione di una rete tra le persone per resistere in un contesto di guerra, è anche possibilità di attivare un’azione collettiva, orizzontale e autogestita per sperimentare processi di unificazione e di dialogo.
All’interno di questo progetto, Katya Buchatska, per realizzare ‘Saluti sinceri’ ha coinvolto 15 artisti che hanno ricamato, con colori vivaci e andamenti liberi e gioiosi, frasi di augurio, da un lato, e tanti cuori stretti tra loro, dall’altro: urgente desiderio di amore e messaggio di pace in un contesto di conflitto molto violento.
Aziza Kadyri (Mosca, 1994), Don’t Miss the Cue, 2024, Padiglione dell’Uzbekistan, 60ª Biennale di Venezia
Tra gli ultimi Padiglioni dell’Arsenale, quello dell’Uzbekistan ci accoglie in un ambiente suggestivo improntato sulle tonalità di un incantevole blu-indaco, colore che pervade lo spazio uzbeko, dalle decorazioni architettoniche, alle cupole delle moschee, ai disegni sulle ceramiche ai costumi femminili o le giacche maschili, e in genere ai tessuti indossati nella quotidianità.
Il Padiglione è stato allestito dalla giovane artista della diaspora uzbeka, Aziza Kadyri, nata a Mosca, cresciuta in Cina, che attualmente si sposta tra Londra e l’Uzbekistan, Aziza Kadyri proietta nelle proprie opere la difficoltà a connettersi con le sue radici e per realizzare il progetto ‘Don’t Miss the Cut’ ha coinvolto un collettivo di donne, con le quali si è confrontata sul tema della memoria, storica e visiva e dell’identità.
La sua ricerca artistica (prima foto) parte dal ‘suzani,’ il ricamo fatto a mano nella tradizione dell’Asia Centrale, miniera di storie, di miti e racconti non scritti, e con l’utilizzo di un programma di intelligenza artificiale, rigenera, nei video accostati, figure e forme del ricco patrimonio della memoria collettiva uzbeka.
Le foto successive sono pezze cucite e ricamate di una coinvolgente scenografia in cui, inconsapevolmente, ci troviamo ad essere attori e spettatori in un gioco spiazzante di riflessi tra osservatori e osservati.
Aziza Kadyri (Mosca, 1994), Don’t Miss the Cue, 2024, Padiglione dell’Uzbekistan, 60ª Biennale di Venezia
Olga De Amaral (Colombia, 1932), Muro tejido terruño, 1969, Giardini, 60ª Biennale di Venezia
Il percorso tematico prosegue ai Giardini dove, con l’ artista colombiana, Olga De Amaral, oggi novantenne, abbiamo una testimonianza delle radici storiche della ‘Fiber Art’ forma artistica che trova legittimazione nel secolo scorso. L’opera di scultura tessile di Olga De Amaral richiama antiche tecniche di lavorazione dei tessuti inca; il rilievo creato con raggruppamenti e nodi dei fili di lana, intreccia una elegante sequenza ritmica sia per le forme che per le tinte accostate, variazioni delle ricche tonalità naturali della terra. Un inno alla natura e al potenziale creativo del medium!
Kang Seung Lee (Corea, 1978), Untitled (Costellation), 2024, installazione, Giardini, 60ª Biennale di Venezia
“Il destino del seme della terra è mettere radici tra le stelle”, è il poetico messaggio ricamato con un prezioso filo d’oro da Kang Seung Lee, artista coreano, su di una tela grezza, tra le numerose piccole creazioni che compongono la sua installazione, presentata in una sala dell’edificio ai Giardini.
Fili, tessuti, bottoni, fotografie, piume, spighe di grano, pannelli di legno e molto altro ancora, oggetti colti da una domestica quotidianità, intreccio di sguardi femminili e maschili, costituiscono la materia prima delle raffinate micro-creazioni, parte dell’intervento ‘Costellation‘, volto a rendere omaggio ad alcuni artisti deceduti a causa dell’AIDS.
Un percorso pensato per restituire uno spazio di dignità e di riconoscimento ad alcune figure dell’arte della galassia queer, marginalizzate dalla storia ufficiale e qui pienamente riscattate.
Liz Collins (Usa, 1968), Rainbow Mountains Weather, 2024, Giardini, 60ª Biennale di Venezia
“Fantasia di un’utopia queer che è appena fuori portata“, è la descrizione che l’artista ci regala dei due grandi arazzi esposti ai Giardini, paesaggi da cui si sprigiona una forte energia coivolgente, segnalandoci quanto sia dirompente e rivoluzionaria, oggi, la tematica sugli orientamenti sessuali e le identità di genere.
Le fiammate dei colori degli arcobaleni tessuti su di un cielo nero, tra astri inquietanti, cercano una propria affermazione in un contesto di conflitti che ancora frenano il pieno riconoscimento di tutte le esistenze,
Kapwani Kiwanga (Canada, 1978), Trinket e Impiraresse 2024, Padiglione del Canada, Giardini, 60ª Biennale di Venezia
Nel Padiglione del Canada, ai Giardini, il filo diventa il supporto su cui vengono infilate circa 7 milioni di perline di vetro, di vari colori, realizzando leggeri tendaggi che rivestono sia internamente che esternamente l’architettura del padiglione.
Il progetto “Trinket“, gioiello, viene concepita dall’artista franco-canadese Kapwani Kiwanga, di origini della Tanzania, oggi residente a Parigi, la cui biografia è rappresentativa dei complessi percorsi di vita degli artisti selezionati per questa Biennale.
Le perline di vetro, prodotte dagli artigiani a Venezia dal 1400 alla metà del ‘900, sono state esportate in Africa, America e India, come merce barattata con risorse molto più preziose, anche con schiavi, sfruttando l’alto valore attribuito dalle popolazioni extraeuropee a queste piccole sfere di vetro colorato.
L’artista ha portato alla luce questa modalità, tra le tante, di rapina di risorse dei popoli colonizzati, denunciandone il meccanismo attraverso una rielaborazione artistica di grande valore estetico e poetico; il colore cangiante dei drappi alle pareti annulla l’architettura del padiglione, creando uno spazio suggestivo e accogliente.
All’esterno è teso un grande tendaggio realizzato con file di perline blu, “Impiraresse“, definito con il nome delle donne incaricate di infilare le sferette di vetro, omaggio dunque alle artigiane costrette ad eseguire quel lungo lavoro ripetitivo.
Jaffrey Gibson (USA, 1972), If there is no struggle there is no progress, We wold these truths to be self-evident, 2024, Padiglione degli Stati Uniti, Giardini, 60ª Biennale di Venezia
Di perline e fili e nastri colorati è pervaso il Padiglione degli Stati Uniti, ai Giardini, ‘The Space in which to place me’, dove note caleidoscopiche di colori squillanti rivestono le pareti, le sculture, i quadri e i video creati da Jaffrey Gibson, artista statunitense di origini Cherokee.
Emblematico è il titolo della prima scultura a forma di piccolo uccello/papera ‘Senza lotta non c’è progresso‘, per ricordare quanto sia necessario non dare per scontati i diritti acquisiti, ma anche quanto la storia e la resistenza dei propri antenati sia parte integrante del presente e del futuro.
Jaffrey Gibson (USA, 1972), The obligation of honor of a powerful nation, We want to be free, 2024, Padiglione degli Stati Uniti, Giardini, 60ª Biennale di Venezia
Gibson intreccia materiali e linguaggi della tradizione del sud-est statunitense, zona dei suoi antenati Choctaw e Cherokee, con tecniche e forme della cultura artistica contemporanea, (come non pensare ai lavori di Boetti?), inserendo testi significativi tra le trame geometriche dipinte, che evocano motivi decorativi indigeni.
Il profilo dell’indiano nel cammeo, disegnato con perline cucite, come le tende dei popoli indigeni, alternate alla bandiera americana, inserti raffinati di gusto folkloristico, così come la scritta ricamata che cita la legge ‘Indian Citizenship Act‘ del 1924, testo che garantisce i diritti primari alle popolazioni indigene, riportano la nostra attenzione oltre il suggestivo impatto estetico, facendoci recuperare frammenti di storia sottaciuta e confinata ‘nelle riserve’.
Jaffrey Gibson (USA, 1972), Every boby is sacred, powerful because we’re different, 2024, Padiglione degli Stati Uniti, Giardini, 60ª Biennale di Venezia
Nei lavori di Gibson si coglie anche una ricerca volta a scardinare gli stereotipi legati alle questioni di genere, tematica a lui cara, in quanto persona omosessuale: l’inserimento in molte opere dei colori dell’arcobaleno, tra le tinte squillanti e psichedeliche, come le scritte nelle due opere sopra riportate, documentano il suo impegno per il riconoscimento delle diverse e possibili identità sessuali.
All’interno del Padiglione si è contagiati dall’energia positiva e dalla gioia che l’artista comunica con il proprio lavoro, invito coinvolgente volto a dare voce e celebrare le comunità di nativi che, pur se emarginate nella storia americana, hanno mantenuto una profonda cultura e dignità. Il coinvolgimento emotivo si accentua avvicinandosi alle ritmiche sonorità del video, alla fine del percorso.
Jaffrey Gibson (USA, 1972), She never dances alone, 2024, parte del video del Padiglione degli Stati Uniti, Giardini, 60ª Biennale di Venezia Glicéria Tupinambà (Brasile, 1982), Okarà Assojaba 2024, Padiglione del Brasile, Giardini, 60ª Biennale di Venezia
Glicéria Tupinambà, artista leader indigena del popolo amazzonico dei Tupinambà, popolo per secoli perseguitato e decimato violentemente, nel Padiglione del Brasile ai Giardini volge la propria pratica artistica alla valorizzazione della capacità di resistenza delle comunità indigene impegnate nella ‘rinascita’ delle foreste disboscate.
Recupera come materia prima le reti da pesca locali e le piume di uccelli della foresta, per ricostruire, nell’installazione ‘ Okarà Assojaba‘, l’assemblea degli anziani, in ascolto e dialogo, attorno alla figura leader, che veste il mantello caratteristico della comunità, dal valore rituale e spirituale, mantello realizzato con tecniche di tessitura tradizionali.
Ziel Tupinambà (Brasile, 1994), Cardume, 2024, Padiglione del Brasile, Giardini, 60ª Biennale di Venezia
Anche Ziel Tupinambà ricostruisce nel Padiglione del Brasile un’installazione che vuole celebrare la vita della popolazione amazzonica, immergendo i simboli della propria cultura e storia in un paesaggio sonoro che mescola, al rumore dei fiumi e ai canti tradizionali, i violenti colpi degli spari d’arma da fuoco.
Sotto ampie ‘volte’ di reti da pesca, che rappresentano le correnti dei fiumi abitate dai pesci, risorsa fondamentale, si affrontano colorate e gioiose maracas e pericolosi proiettili, in racconto visivo carico di significato simbolico per la propria esistenza.
Rashad Alakbarov (Azerbaigian, 1979), I Am Here, 2024, Padiglione dell’Azerbaigian, 60ª Biennale di Venezia
Uscendo dalle sedi della Biennale si trovano Padiglioni che, con opere interessanti. continuano a tessere motivi coerenti al nostro percorso.
Con ritagli di caratteristici tappeti azeri, come copertura di bianchi blocchi labirintici, Rashad Alakbarov compone la scritta ‘I am here‘, immagine catturata da uno specchio convesso collocato nell’angolo alto, tra le pareti di uno spazio claustrofobico.
Siamo nel Padiglione dell’Azerbaigian, dove, tra le varie installazioni, quella di Rashad Alakbarov utilizza frammenti di decorati tappeti tradizionali per comunicare il bisogno di trovare un proprio ‘luogo’, una propria identità; il messaggio viene riflesso nel nostro rispecchiamento, immergendoci in una sensazione di spaesamento e contemporaneamente di piacevole sorpresa.
Guy Woueté (Camerun, 1980), Posséder deposséder, 2024, Padiglione del Camerun, 60ª Biennale di Venezia
Nel Padiglione del Camerun, allestito nel Palazzo Donà delle Rose, l’artista Guy Woueté presenta alcuni lavori sui temi della colonizzazione, della migrazione e della diaspora; tra le sue creazioni, il tessuto di tela appeso, lavorato con piccole e regolari pezze cucite come una griglia, come frammenti di terra imprigionati, dalle evocative tinte naturali, viene ricamato da queste frasi:
NON RIESCO A RESPIRARE (in verticale)
SE SIAMO ORGANIZZATI, SE LOTTIAMO, POSSIAMO VINCERE E RESPIRARE
Dalla scritta, appena percettibile, germogliano fili neri, quasi capelli, che cadono aggrovigliandosi, come una cascata di lacrime.
La drammatica forza espressiva di questo lavoro condensa tutta la sofferenza e la determinazione, sia personale che di un popolo, nella ricerca di liberazione dalle gabbie di schiavitù e di dipendenza vissute nei secoli della colonizzazione gabbie che ancora oggi condizionano pesantemente la loro esistenza.
(Testo di Ivetta Galli, foto e video, dove non specificato, di Ivetta Galli, Aldo Mazzolini e Flavio Mazzolini)
Claire Fontaine,Foreigners Everywhere, 2024, Arsenale, 60ª Biennale di Venezia
“… noi siamo coesi, ci contagiamo a vicenda. Le nostre azioni sono le gomme che cancellano i confini, e riscriviamo il presente con il nostro affetto. Siamo il futuro…. Forse, e dico forse, il futuro appartiene ai meticci, ai bastardi” (Saif ur Relman Raia, Hijra (trad. Frocio), Fandango Libri, 2024)
Le parole di Saif, giovane autore pakistano, tratta dal suo racconto autobiografico, può essere una delle chiavi di lettura di “FOREIGNERS EVERYWHERE”, 60ª Biennale di Venezia, in cui lo sguardo del curatore, Adriano Pedrosa, ci offre le forme, i segni, le voci, i rumori e i colori dell’”altro”, dello straniero, ovunque esso sia, anche quello che abita dentro di noi.
Le prospettive e i punti di vista spesso inconsueti, come le tecniche di rappresentazione proprie delle culture marginali, intrecciate ai medium contemporanei, sollecitano l’esplorazione di mondi ed esperienze poco conosciuti, che possiamo comprendere ed apprezzare con uno sguardo ‘innocente’, integrando e superando i nostri schemi di interpretazione “occidentalicentrici”.
Dobbiamo farci prendere per mano dall’astronauta nomade di Shonibare che, all’ingresso delle Corderie dell’Arsenale, carico di un pesante ‘ kit’ per la sopravvivenza alle crisi ecologiche ed umanitarie e coperto da una tuta di tessuto africano, si dirige all’interno tra gli spazi creati dagli artisti alla ricerca di nuovi mondi possibili.
Yinka Shonibare (Londra, 1962), Refugee Astronaut, Arsenale, 60ª Biennale di Venezia
Dalle periferie del pianeta arrivano immagini affascinanti di mondi reinventati, luoghi di vita gioiosa, desiderata, costruiti sulle macerie di una storia di oppressione e di dipendenza coloniale. Sono disegni di luoghi in cui si intreccia l’ambiente naturale e la vita delle persone, la narrazione dei miti, con una comune passione per il segno deciso, la semplificazione delle figure e delle forme e l’uso di tinte vivaci, squillanti, stese con campiture piatte, in prospettive ribaltate, mondi rappresentati con varie tecniche artistiche, dipinti su muro, quadri su tela e anche ‘arazzi’, con fili intrecciati di origine animale o vegetale e pezze di stoffe cucite.
MAHKU (Artisti Brasiliani Huni Kuin, dal 2013), Storia di Kapewë pukeni.(Ponte alligatore), 2024, Giardini, 60ª Biennale di Venezia
Tracciare percorsi di lettura all’interno della complessa visione dell’arte della contemporaneità, nutrita di storia e di antropologia, è un’impresa che mi ha coinvolto con passione; sono curiosa di cogliere le visioni articolate, ma nello stesso tempo comuni o parallele, raccontate dagli artisti dell’oggi, da qualsiasi luogo, origine e cultura provengano, alla ricerca di quel minimo-comune-denominatore che ci riconosce come umanità in viaggio sul pianeta terra nel 2024.
Dalle sedi della Biennale, Giardini e Arsenale, e dai Padiglioni diffusi nella città , mi sembra di poter cogliere alcune figure e forme che si ripropongono frequentemente, immagini sedimentate in un immaginario collettivo contemporaneo, segni/sogni carichi di senso, che prefigurano possibili e creative vie di uscita dalle tragedie dell’oggi.
Riassumo queste sollecitazioni in quattro categorie, definite dalle seguenti parole-chiave, anche se frequentemente tali figure ‘migrano’ tra di loro:
FILI – TRAME – MAPPE – MONDI
CAPANNA – ‘SAFE-SPACE’
CORPI – VOLTI
ACQUA – TERRA – FANGO – ARGILLA
(Testo di Ivetta Galli, foto di Ivetta Galli, Aldo Mazzolini e Flavio Mazzolini)