È un cammino all’interno di uno sguardo prevalentemente femminile; non nel senso di divisione di generi, ma inteso come presenza invisibile di una moderna Atena, dea delle “attività creatrici”, tra cui, soprattutto, la tessitura, ma non solo, che a Venezia diviene un medium pervasivo, ma necessario, per provare a ricucire un mondo che sta implodendo.
Con un lavoro puntiglioso che riflette anche la qualità/virtù della “sapienza” dell’antica dea, Christine Marcel raccoglie esperienze di artisti volte a creare comunità, a ricostruire momenti di socialità e di condivisione, anche attraverso la leggerezza, il gioco, la danza e il “rito”, esprimendo il desiderio di provare a governare la complessità del mondo senza lasciarsi travolgere dalla tragedia del male.
- Opere avvolgenti, morbide, tessuti, pelli che rivestono
Il Leone d’oro all’artista tedesco Franz Erhard Walther (1939), qui presente con Wallformation, sintetizza uno tra i principali significati di questa mostra: le installazioni murali, tra pittura e scultura, create con materiali e tessuti intensamente colorati, invitano lo spettatore ad una piacevole immersione fisica e sensoriale.

L’artista marocchino Achraf Touloub (1986), con le sue “Pelli“, intreccia tradizione e modernità:

Katherine Nunez (1992) e Issay Rodriguez (1991), giovani filippine, propongono libri in tessuto, carte lavorate e accessori da ufficio ad uncinetto:

David Medalla, (1938, Manila), fa creare il lavoro dalle tracce impresse e ricamate dai visitatori della mostra liberamente su di un lungo tessuto sospeso:

Cogliamo nelle differenti proposte un disperato bisogno di comunicare, di “collegarci”, di tessere relazioni, scambiarsi idee ed esperienze realizzando trame e orditi coloratissimi.
Maestra di questa ricerca è sicuramente Maria Lai, artista sarda recentemente scomparsa, alla quale la curatrice ha consegnato un ruolo fondamentale, “…immagine leggendaria della piccola ‘Jana’- fata benevola del folklore sardo – che tesse e impasta miti e ricordi sepolti nella memoria collettiva” ( dal Catalogo Viva Are Viva, 2017).

E il libro, metafora del racconto e della comunicazione, della memoria personale e collettiva, nelle varie interpretazione degli artisti, invade gran parte degli spazi della mostra.
Il giovane kosovaro Petrit Halilaj (1986) disegna fogli di libri/abbecedari immergendosi nella propria sofferta infanzia, segnata dalla fuga dalla guerra, trasformando una parete nel ricordo di un caleidoscopio insieme di segni, calligrafie, grafismi e illustrazioni:

C’è una costante consapevolezza del dolore dell’esperienza umana che si evince dalla proposta di lavori artistici volti ad esorcizzare il male e riscattare i valori più elementari dell’uomo.
La solitudine e lo sgomento che leggiamo nelle le figure di Firenze Lai (1984, Hong Kong), come le trasparenti e fragili sagome femminili di Kiki Smith (1954), o le impenetrabili e labirintiche tracce disegnate su corpi da Huguette Caland (1931, Beirut) ci raccontano di lacerazioni profonde e fratture di identità.




- Risuona costante l’urgenza del rito.
Meraviglioso è il progetto di Maria Lai (1921-2013), Legarsi alla montagna, del 1981, lavoro artistico che ha coinvolto la popolazione del suo paese, Ulassai, per costruire un collettivo Monumento ai Caduti, tramite un nastro azzurro che ha legato il paese alla propria montagna, sulla suggestione di un’antica leggenda del luogo; operazione difficile, ma riuscita, di partecipazione collettiva e attiva.
Un’immagine del video-documento dell’esperienza di Maria Lai e due foto dell’evento di Piero Berengo Gardin:


Monumentale è la ricostruzione del lavoro artistico-antropologico di Ernesto Neto (1964, Brasile), con la grande tenda che riproduce la “Cupixawa”, luogo di socializzazione, incontri politici e cerimonie spirituali degli indios amazzonici:


Il video di Marcos Avila Forero (1983, Parigi, lavora a Bogotà) presenta il progetto Atrato, in cui ridà vita alla tradizione delle popolazioni afroamericane di suonare percussioni, cantando, nel fiume Atrato, che attraversa la foresta di Choco in Colombia, linguaggio di comunicazione.

Planetary Dance della coreografa americana Anna Halprin (1920, Usa), è un lavoro in cui la danza e il movimento mettono in gioco il corpo in relazione ad eventi e problemi sociali da affrontare comunitariamente:


Senso del rito come antidoto all’individualità imperante del nostro tempo e anche “terapia” contro gli integralismi che minacciano la nostra terra.
E il rito coinvolge il corpo, il nostro corpo, che si fa mezzo artistico per costruire un “nuovo umanesimo”, espressione tratta dalla presentazione della curatrice alla propria mostra.
Acuta è l’intuizione di esplorare con grande rispetto le culture del mondo, anche quelle più ancestrali, di entrare nel tessuto più profondo dell’uomo per farne emergere la natura sociale.
Per ricucire le diversità, oltre gli steccati e i confini.
Riti che ricollegano l’uomo alla natura, pur non demonizzando la tecnologia (presente in abbondanza nelle opere), pongono l’urgenza di costruire un nuovo equilibrio tra uomo, natura e cultura. E il richiamo al “Terzo Paradiso” di Michelangelo Pistoletto, presente sull’Isola di San Giorgio in una mostra collaterale, è un necessario omaggio al grande artista.
Olafur Eliasson (1967, Copenaghen) porta all’interno del salone centrale dei Giardini Green Light – An artistic workshop, creazione collettiva di lampade ecosostenibili, con la partecipazione di giovani rifugiati, studenti, e pubblico. Qui un ‘immagine del lavoro:
- Cerchi disegnati, vissuti, realizzati.
La forma simbolica del cerchio che accomuna molte esperienze di azione pubblica e sociale si ritrova in altri progetti artistici.
Il cerchio ricorre nel lavoro della giovane artista Adelita Husni-Bey (1985), del Padiglione Italia. Un gruppo di ragazzi, seduti in cerchio, discutono tra loro a partire dalle carte dei tarocchi, arcani/pretesto per riflettere sui temi che riguardano la loro vita, il loro futuro; sul pavimento dell’installazione-video linee morbide definite da fili di sferette luminose disegnano forme curve e sinuose guidate da calchi di mani, strumento di disegno/creazione artistica.


E, una lenta danza sul cerchio, con richiami alle “hore” balcaniche, ci viene proposta nel magico e surreale video Gardens di un’altra giovane artista, russa, Sasha Pirogova, (1986), nel Padiglione Russo, quale riflessione tra vita/luce e morte/oscurità, cercando nell’oscurità il principio della luce.



Nel Padiglione di Grenada, Jason de Caires Taylor (1974) documenta il proprio lavoro Vicissitudes; alcuni fotogrammi restituiscono la forza espressiva propria al girotondo di calchi di bambini di varie etnie immerso sui fondali marini, installazione mutevole nel tempo, che evoca molti significati:


Ancora, la fiaba nigeriana allestita dall’artista Peju Alatise (1975) in Flying Girs, viene illustrata con un dinamico movimento rotatorio di giovani donne alate, tra voli di farfalle e rondini:

- Sfera, forma della fragilità/sacralità del mondo.
Siamo come palloncini colorati che galleggiano incerti, legati da un filo invisibile, ma cullati dal mare; possiamo scoppiare, colpiti, ma subito un altro palloncino coloratissimo è pronto a rinascere; Balloons in The Sea di Hale Tenger (1960, artista turca), è un’installazione multimediale poetica e profonda).


Sfere di pietra con trame marmoree come pianeti caduti dal cielo a terra ci inquietano parlandoci con improbabili sussurri di Alicja Kwade (1979, polacca):

Sferoidali sono i gomitoli enormi e coloratissimi che tappezzano la parete di fondo dell’Arsenale, nella Scalata al di là dei terreni cromatici allestiti dall’americana Sheila Hicks (1934):

Quasi sferici sono i 77 deliziosi e quasi immateriali berretti di lana marocchini appoggiati sul pavimento, illuminati all’interno da una fonte di luce calda, dell’artista marocchina Younès Rahmoun.(1975); l’installazione, Taqiya Nur, è una meditazione sacra sul significato della luce, quale verità, da svelare.

Sferico è anche il sole nei 44 tramonti filmati da Charles Atlas (1949 Usa): una magnetica videoinstallazione accompagnata da suoni suggestivi e da un cronometro che misura con un conto alla rovescia il tempo del tramonto e, dopo il buio assoluto, una tenera drag quinn che racconta di sé e della politica americana.

Emisferiche e convesse sono le numerose gocce di ceramica dorata, depositate a terra su lastre si metallo nero, sparse nell’ampio salone dell’Arsenale, dell’artista cinese Liu Jianhua (1962), una ricerca intorno agli opposti, materiale liquido/solido, opaco/lucido, luce/ombra, che ha rimandi alla filosofia buddista.

Massicce e giocosamente minacciose sono le meteore colorate sospese nel Padiglione della Gran Bretagna, allestite dall’artista inglese Phyllida Barlow (1944):

5. Gettati nel mondo
Molti Padiglioni Nazionali premono tutt’attorno gettandoci con forza nel mondo e nei problemi urgenti della contemporaneità.
Forte è l’odore di muffa che ci perseguita nel Padiglione Israeliano: odore di materia che si decompone, lento e inesorabile deterioramento che rende quasi insopportabile la permanenza all’interno dello spazio; siamo tuttavia catturati dal meraviglioso paesaggio che la muffa disegna sulle pareti, attratti dalla bellezza della forma e del colore. Gal Weinstein, con Sun Stand Still tenta di “bloccare” il tempo, recuperando dal degrado la possibilità di un riscatto:

Simile sensazione di forte odore di putrefazione e di costrizione faticosa e si vive percorrendo la galleria post-umana creata da Roberto Cuoghi nel Padiglione Italia: Imago Christi è un lavoro complesso, difficile, intrigante, che nasce da una sollecitazione, radicata nella nostra terra, tratta dal titolo Il mondo magico, di Ernesto De Martino. E’ il desiderio di “eternare” l’uomo, con l’atto creativo di modellare la forma di un corpo-Cristo, corpo che nel percorso si deteriora, si corrode decomponendosi e, nonostante il tentativo estremo di bloccarne l’integrità con la mummificazione, si ritrova frantumato per parti, braccia, testa gambe, appeso alla parete come reliquia, frammenti fissati in un disperato tentativo di conservazione della vita.


Ansia, paura del vuoto, smarrimento si vivono camminando sul pavimento trasparente, sospeso, del Padiglione Tedesco (premiato con il leone d’oro), e su ciò che rimane sotto di noi, detriti, tracce di vita vissuta, a documentare la lunga e intensa performance di Anne Imhof (1978), purtroppo presente, con i suoi interventi, solo nei giorni dell’inaugurazione:

L’angoscia che pervade il nostro mondo minacciato costantemente dalla violenza del terrorismo si rende percepibile nella coinvolgente e fantasmagorica installazione ambientale dell’artista Grisha Bruskin, Theatrum Orbis: un mondo fantastico di forme fisse e in movimento, tutte bianche in ambiente nero, ci racconta il rapporto tra potere e controllo delle masse, tra integralismi e gesti irrazionali e violenti.


Violente repressioni e genocidi denunciati nel Padiglione Cileno da una selva di maschere terribili, simulacro di tutte le vittime che sopravvivono nonostante lo Stato abbia tentato di cancellarle dalla memoria; il Werken, messaggero, rappresenta la comunità mapuche sterminata di cui i nomi, in led rossi, scorrono ossessivamente in cerchio sulle pareti dell’ampia sala.

Suoni, musica, voci anche sussurrate accompagnano molte installazioni, presenze sonore che ci catturano e leniscono a tratti il senso di disorientamento, se non di forte disagio, che alcuni padiglioni nazionali comunicano.
E’ l’avviso di una presenza, la necessità di porsi in ascolto, la possibilità di aprire un dialogo. Il Padiglione Turco, così come quello Francese, o il percorso suggestivo nei Giardini all’Arsenale, creato dal giovane Hassan Khan, lavori molto diversi tra loro per medium e progetto artistico, risultano comunque affini per il significato che ricercano.
Ivetta Galli
