
Una piuma di gallina volteggia lievemente in un acquario, osservata anche da vere galline che razzolano tra terra e detriti nello stretto corridoio, collegato al salone espositivo dell’Hangar Bicocca.
Moderno reliquiario, leggerezza ed eleganza della linea che fluttua.
Sulla parete accanto il segno diventa motivo ritmico colorato, aggrovigliato, gomitolo sfrangiato che galleggia in uno spazio siderale.

Oltre la parete si spalanca l’ampio volume dello Shed di Pirelli Hangar Bicocca, nel quale Petrit Halilay (1986), giovane artista kosovaro, tra dicembre 2015 e marzo 2016, ha allestito Space Shuttle in the Garden.

L’impatto iniziale non è stato gradevole: l’aspetto di un cantiere aperto, scheletri di case in parte sospese innaturalmente sopra le nostre teste, disorientamento.
Dopo poco sentiamo il canto di un gallo e scorgiamo un grande pollaio abitato da molte galline impegnate ad esplorare il loro spazio inconsueto e attratte dalla porta aperta verso il giardino. Ci avviciniamo e si delinea la sagoma di un “razzo spaziale” in legno, abitato da altri polli, internamente tutto dipinto di blu.

Forte è il desiderio di volare, delle galline, sì, con il loro razzo spaziale, ed è evidente lo slittamento ironico-giocoso operato da Petrit per narrarci i suoi sogni. Da piccolo ha vissuto in un paese del Kosovo, tra gli animali di cascina che sono diventati parte importante della propria storia; a dieci anni circa la sua infanzia è stata violata dalla guerra che ha portato alla distruzione la casa di famiglia, obbligando la stessa alla fuga in campi profughi.
Petrit lascerà il Kosovo per raggiungere Milano e studiare all’Accademia di Brera, formazione artistica che approfondirà a Berlino, esperienze di stimolo alla sua creatività vulcanica generatrice di quelle piccole meraviglie disperse, e da scoprire, nello spazio dell’Hangar.
L’artista dimostra di muoversi con grande maestria tra medium differenti; si è appropriato delle più efficaci forme espressive d’arte contemporanea: il video che scorre su una parete dello Shed è stato girato sul luogo della propria casa, dove rimangono tracce ormai “archeologiche” dell’abitazione, oggi colonizzate da esili fili di erbe, dai fiori di campo, da una infinità di piccoli insetti ripresi poeticamente mentre ricreano una nuova vita.

E’ questa commistione tra senso della tragedia e grande voglia di vivere, tra desiderio di radicamento e tensione verso l’altrove, che prende forma e si modella negli oggetti realizzati.

Come le ampie forme che ricreano gli orecchini della madre, da lei sotterrati prima di scappare, all’interno delle cui trame versa vera terra di quel “Luogo” perduto e le cui decorazioni evocano modelli di oreficeria dei popoli medievali che hanno abitato il cuore dell’Europa.
Ma ancora più in là, nel tempo, il lavoro di Petrit recupera il neolitico attraverso la modellazione in argilla e ottone di “ocarine”, strumenti musicali a fiato preistorici ritrovati vicino alla sua casa natale; strumenti antichi che invitano a momenti di convivialità e di festa anche oggi.

Il racconto generoso della propria esperienza più profondamente personale diventa emozione vera di fronte ad alcuni fogli scritti dall’artista stesso, dove una calligrafia incerta, ripete e ci svela di un difficile rapporto col padre dal quale non si sente accettato per il proprio orientamento sessuale, e col quale tuttavia riesce a dialogare, non a parole, ma con i gesti, con il lavoro, con il fare.

Con discrezione Petrit apre al proprio vissuto, invitandoci a riflettere su quanta sofferenza ancora possa generare un rifiuto della diversità; nello stesso tempo fa emergere consapevolmente la propria identità, testimoniando una maturazione che è, direi, fenomeno epocale, proprio delle nuove generazioni.
Molti lavori esposti sono stati realizzati, su sua indicazione, dai famigliari; sono oggetti che appartenevano al mondo contadino e alla sua infanzia.

La paletta “schiacciamosche” è stata ricostruita, con altri 26 utensili, ed esposta sotto vetro, su lamine di rame, in una struttura in legno avvolta da rami e terriccio: un “nido” in grande scala, apparentemente sospeso, dimora nomade degli uccelli, metafora della sua identificazione.

E il collegamento con il Padiglione del Kosovo, allestito alla Biennale di Venezia del 2013, dallo stesso artista, diviene obbligatorio: un grande rifugio precario – nido – costruito con rami e terra impastata, immagine di una terra devastata dalle distruzione di gran parte delle dimore esistenti.
Urgenza di riempire un vuoto. Desiderio di trovare un rifugio.

Nel lavoro esposto alla Biennale di Venezia del 2017, dove la giuria gli ha assegnato una menzione speciale, l’artista ha disseminato l’ampio spazio dell’Arsenale di gigantesche falene realizzate in tessuto kosovaro con l’aiuto della madre, recuperando un sapiente fare creativo femminile.


Il bestiario delle sue creazioni è fatto di creature fragili, umili, animali spesso alati che danno voce a tanta parte di umanità che non fa “rumore”, ma che incarna qualità preziose.
Il suo “fare” vulcanico, i variegati medium che Petrit elabora, la poesia e la profondità delle sue narrazioni testimoniano la possibilità, anche nell’oggi, di poter vivere esperienze artistiche ed estetiche di grande valore.
Ivetta Galli
