
Finalmente si può tornare ad esplorare lo spazio dell’immaginario e della creatività degli artisti!
E l’Hangar Bicocca ci regala un affascinante viaggio nell’arte di Chen Zhen, artista cinese nato a Shangai nel 1955 e morto per malattia prematuramente nel 2000 a Parigi.
Le grandi installazioni che si incontrano durante il percorso della mostra aprono flash ‘illuminanti’ sulle tematiche della seconda metà del Novecento.
L’artista rielabora la propria esperienza plasmando forme pregne di simboli create con oggetti e materiali attinti dagli elementi che il pensiero taoista utilizza per descrivere l’ambiente che ci circonda, legno, fuoco, terra, metallo e acqua, e base della medicina tradizionale cinese, integrando le sue radici orientali alla cultura occidentale.


Mettiamoci in cammino dall’opera ‘Le chemin/Le Radeau de l’ecriture’, del 1991, seguendo un itinerario cronologico delle opere esposte, che non corrisponde alla collocazione delle stesse nello spazio espositivo.
Traversine ferroviarie in disuso, sulle quali l’artista incide il proprio nome, evocano il viaggio, memoria del proprio emigrare a Parigi, nel 1986; le travi di legno poggiano su giornali e libri deteriorati dall’uso e mescolati ai frammenti di roccia alla base. Natura, cultura, tecnologia si compattano in questa piattaforma alla deriva, motivi comuni alle culture dell’est e dell’ovest, facendoci percepire la vertigine della velocità delle trasformazioni in atto, sull’onda della globalizzazione.
Simile riflessione si coglie in ‘Le Rite suspendu/moullié’, opera dello stesso anno, concepita come riflessione sui medium del fare arte.


Chen Zhen ingabbia cornici di legno e strumenti tradizionali dell’operare artistico in teche di vetro e metallo, annegandoli in acqua, qua e là tinta di rosso. Il ‘rosso’ è forse l’unico colore che l’artista utilizza: memoria ‘visiva’ del suo vissuto infantili della lettura imposta del Libretto Rosso di Mao? Al centro delle quattro teche un gruppo di una decina di cilindri trattati in modo simile: contenitori di rotoli di antiche pergamene dipinte, preziosi documenti della storia della pittura cinese.
Chen Zhen, ora a Parigi, si apre ad un fare artistico contemporaneo sollecitato dalla rivoluzione dadaista facendo propri i linguaggi dei movimenti della seconda metà del Novecento: New-Dada, Nouveau Réalisme e Arte Povera.
In ‘Round Table’, del 1995 lo sguardo poetico di Chen Zhen, nutrito dai propri vissuti personali, si intreccia con i temi politici e sociali della propria epoca.

L’essenziale ed ampio tavolo di legno rotondo, luogo del pasto consumato nelle feste e spazio di incontro e di dialogo, qui richiama le ‘tavole rotonde’ delle Nazioni Unite, nazioni incarnate dalle sedie sospese di foggia diversa, attorno al cerchio centrale su cui sono incisi alcuni temi della Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo.

Diritti dell’Uomo ancora lontani da essere realizzati per tutti, come ci ricorda in ‘The voice of Migrators’, dello stesso anno.

La forma del globo/mondo che ritorna nell’immaginario artistico di questi anni, simbolo dell’esplosione dei temi della globalizzazione, tinta di vari colori dei lacerti di vestiti intrecciati, emette, da altoparlanti, voci di uomini che raccontano storie di migrazione.
Chen Zhen, figlio di medici, scopre nel 1970 di avere una malattia autoimmune; la ricerca di terapie di guarigione lo induce ad approfondire la medicina tradizionale cinese ed a vivere esperienze di meditazione buddista; patrimonio che si riversa nel suo operare artistico, vissuto anche come cura.

Lavoro suggestivo e ricco di simboli stratificati è l’installazione ‘ Daily Incantations’, del 1996.

L’artista costruisce un’orchestra silente con strutture lignee a forma concava a cui sono appesi e allineati una serie di vasi da notte, sul modello di un antico strumento musicale cinese, il Bianzhong; la percussione delle campane di bronzo creava suoni e armonie musicali suggestive per la meditazione.

“Ogni mattina mi recavo a scuola al suono dei vasi da notte che venivano risciacquati…”, racconta Chen Zhen. L’evocazione di questo umile gesto, come colonna sonora di un rito quotidiano, da un lato appare permeata da sottile ironia, dall’altro lato trasforma il vaso di legno in un prezioso scrigno artistico, oggetto di creazione artigianale e cassa di risonanza del ritmo vitale.

Il grande globo che racchiude scarti di ferraglie di oggetti contemporanei legati alla riproduzione del suono elettronico, ripropone quel corto-circuito tra passato e presente, tra antichi e lenti tempi e vorticose mutazioni dell’oggi, generanti un “mondo di scarti”.

Dal lavoro di Chen emerge una forte tensione spirituale, come il desiderio di ritualizzare momenti della quotidianità per ricreare un forte senso di collettività tra gli uomini; la propria esperienza personale/individuale è collegata a quell’energia universale di cui è solo una delle tante espressioni, come principio delle filosofie orientali.
In Crystal Gazing, del 1999, la limpida sfera di cristallo di una semplice ampolla di laboratorio, richiama la nostra attenzione dopo esserci avvicinati a una intrigante forma organica avvolgente, grande goccia d’acqua o utero o frutto, appesa ad una struttura lignea.


Racchiusa da file di sferette di legno, tratte dagli abachi per contare, ma anche palline per pregare dei rosari buddisti, la superficie convessa della sfera/mondo di cristallo, riempita di acqua fisiologica, riflette l’universo attorno capovolto, con le nostre piccole sagome.
Siamo piccole parte di quell’universo collettivo, siamo fragili e bisognosi di cura.
Chen Zhen era attratto dal mondo della medicina, a lui contiguo per i problemi di salute oltre che per motivi familiari; nel fare arte cerca e trova una funzione terapeutica e la grande ‘installazione relazionale’ ‘Jue Chang – Dancing Body – Drumming Mind (The last Song)’, del 2000, è concepita proprio come una summa della sua ricerca ed una proposta di apertura ad una partecipazione collettiva che, tuttavia, oggi, per il Covid 19, non è esperibile.

L’artista assembla attorno ad uno spazio centrale sedie e strutture lignee di letti, intelaiati tra loro con uno spago che disegna una regolare maglia intrecciata; tende poi sugli oggetti pelle di vacca, come negli antichi strumenti di percussione, proprio per invitarci a battere ritmicamente insieme, danzando, creando una grande cassa di risonanza del nostro mondo emotivo.


Peccato non poter prendere parte a questo rituale di liberazione e gioia che nasce da una massima buddista per cui battere, colpendo le parti coinvolte in una disputa, viene considerato un modo necessario per risolvere i conflitti.
Il gesto si fa metafora della ricerca di un’armonia universale.
Uno sguardo disincantato ai conflitti violenti del mondo contemporaneo e un racconto del dramma dell’emigrazione/fuga soprattutto dei più giovani dalle proprie terre invivibili prende forma nell’opera ‘Six Roots Enfance/Garcon‘, 2000


Non servono commenti, il messaggio è esplicito per chi vuole capire.

L’ultima sala dell’esposizione, racchiude una riflessione sgomenta/serena sulla morte; ancora un corto circuito che Chen Zhen ci propone come lascito della sua intensa e affascinante ricerca artistica.
Lo stesso titolo, ‘ Jardin lavoir’, ci costringe a fare i conti con il concetto di trasformazione e ciclicità della vita, percezione che viene valorizzata dalla forma letto/fontana.


Undici letti/fontana sono distribuiti nell’ampio spazio cubico della sala; il pellegrinaggio che siamo invitati a percorre da un’opera all’altra, reliquie della nostra storia, ci permette di scoprire forme e colori che circondano la nostra esistenza e, come la nostra esistenza, diventano ‘nature morte’, oggetti che hanno una vita limitata, che nel tempo della storia e nella corrosione lenta determinata dall’acqua e degli elementi naturali, si riscatteranno, forse, in qualcosa d’altro.
Molto altro si può scoprire in questa mostra, di cui ho selezionato solo alcune opere; Chen Zhen si rivela essere un grande artista, interprete della seconda metà del Novecento.
Testo e foto di Ivetta Galli





