59ª Biennale: ‘intrecci’ tra simboli preistorici e arte contemporanea

Disegni da simboli astratti della Grotta di La Pasiega (Spagna), attribuiti alla cultura dell’uomo di Neanderthal, 64000 anni fa. Simboli astratti dalla Grotta di Altamira, Paleolitico Superiore e
Ruth Asawa, (1926-2013), Untitled, 1952 ca. – fil di ferro – Arsenale, 59ª Biennale di Venezia

una foglia una zucca un guscio una rete una borsa una tracolla una bisaccia una bottiglia una pentola una scatola un contenitore

Toshiko Takaezu (1922-2011), Vasi in ceramica, Arsenale, 59ª Biennale di Venezia.

Il percorso, proposto nella “IV capsula” della Biennale di Cecilia Alemani, parte da questa lista, intrigante.

La suggestione, attorno cui la curatrice ha raccolto opere del secolo scorso accanto ad altre contemporanee, nasce dal saggio della scrittrice di fantascienza Ursula K. La Guin, “The Carrier Bag Thoery of Fiction” (1986), a sua volta ispirata dalla tesi dell’antropologa Elisabeth Fischer, esposta in “Woman’s creation, Sexual Evolution and the Shaping of Society” ( 1980), volta a costruire una diversa narrazione sull’origine della cultura umana.

Questa narrazione è tesa a sovvertire il racconto dell’uomo nomade dell’epoca paleolitica che, in quanto cacciatore, forgia i primi manufatti in funzione di questa attività, creando intorno a sé un’aura mitica dell’eroe forte e aggressivo, mito che sta alla base di un modello ‘maschiocentrico’, caposaldo della cultura patriarcale.

Un immaginario che persiste ancora nella nostra cultura contemporanea, ribadito recentemente anche dall’etologo Frans De Waal in DiversiLe questioni di genere viste con gli occhi di un primatologo (Raffaello Cortina Editore, 2022), in cui sostiene:

“Il mito secondo cui l’evoluzione avrebbe luogo principalmente attraverso la linea maschile è ancora in auge. Basta aprire un qualunque libro sulla preistoria umana per veder immagini di uomini che fanno la guerra, accendono il fuoco, cacciano grandi prede, costruiscono ripari e difendono donne, bambini e bambine che con aria spaventata si raccolgono in gruppo contro le minacce esterne. “

Il contributo di Ursula Le Guin, scritto negli anni ’80 sull’ onda del femminismo americano, propone una narrazione diversa: alla figura della freccia/lancia dell’uomo/eroe cacciatore (legata anche ai soggetti dei dipinti rupestri e dai reperti archeologici rinvenuti), antepone un’altra ‘immagine’, ovvero quella della borsa/contenitore/cesto/recipiente, invenzione necessaria per raccogliere e conservare semi e frutti, cibo per poter prendersi cura e proteggere la vita (oltre che per contenere e trasportare armi o frecce o altri utensili).

Pinaree Sanpitak (1961), 1. Breast Vessel in the Reds, 2021, acrylic, pencil and feathers on canvas, 2. Offering Vessel, 2021, acrylic and pencil on canvas, 3. Offering Vessel II, 2021, acrylic and paper on canvas, Arsenale, 59ª Biennale di Venezia.

Certo, una diversa lettura della Preistoria, ricca di spunti per la nostra contemporaneità, volta a valorizzare aspetti etici di solidarietà e collaborazione, legati a modelli di socialità costruttiva, piuttosto che di aggressione e morte, di armi affilate e lotta sanguinaria!

Aggiungo che oggi si fa strada anche una visione aggiornata dei ruoli di genere nella Preistoria, grazie alle ricerche archeologiche, che vede anche la donna, oltre che raccoglitrice, partecipe alla caccia, e viceversa.

Alla ricerca di testimonianze visive di ‘Carrier Bags’ paleolitiche

Ma come possiamo dare a questa ‘narrazione’ una consistenza più ‘solida’, avendo a che fare con un’epoca così lontana, con documenti visivi e reperti archeologici che possiamo solo tentare di interpretare?

Mi sono in camminata alla caccia di segni, simboli e tracce tra quello che ci è rimasto della nostra storia più antica, tra le pitture, i graffiti e i reperti paleolitici, per dare un senso più concreto a questa narrazione.

Girovagando in Internet, ho trovato la recensione del libro di Silvia Ferrara, “IL SALTO – segni, figure, parole, viaggio all’origine dell’immaginazione”, edito da Feltrinelli nel 2021; non poteva esserci modo migliore per partire nella mia indagine, essendo un testo aggiornato sulle testimonianze preistoriche in varie parti del mondo, un viaggio appassionato dell’autrice alla ricerca dell’origine della scrittura.

Quindi, sulle tracce di ‘Carrier Bags’ paleolitiche, ho trovato studi di archeologia che sembrano avallare la lettura di Ursula Le Guin ed Elisabeth Fischer.

Tra interpretazione di dipinti rupestri, studi etnografici e racconti mitici

Approfondendo i dipinti rupestri australiani mi sono imbattuta nello studio di Emily Miller, archeologa presso la Griffith University in Australia, ‘Finding fibre in the rock art and ethnography of Western Arnhem Land, Northen Australia‘, (2021) uno scrigno prezioso di notizie intorno alle ‘Carrier Bags’ preistoriche.

E. Miller ci documenta rappresentazioni di oggetti in fibra vegetale, piccole o medie borse in corda, che gli uomini primitivi, come gli indigeni oggi, si appendevano al collo e al busto, probabilmente per motivi rituali, ma non solo, tratte dai dipinti rupestri nel Western Arnhem Land, nel nord dell’Australia, e dagli studi etnografici sulle popolazioni indigene della zona, strettamente legate a tale patrimonio di immagini.

Figura antropomorfa che indossa una borsa da cerimonia e impugna una lancia; 2. Figura antropomorfa con borsa a forma di pesce e manico a zig-zag; fotografie da :”Pathway: people, landscape, and rock art in Djok Country” project, tracing by E. Miller

Ciò testimonia la presenza di oggetti/contenitori realizzati con fibre vegetali intrecciate che, oltre a motivi rituali, potevano servire alle attività di raccolta e conservazione per cibo, ma che per la deperibilità del materiale non si sono conservate.

Purtroppo non sono riuscita a trovare la datazione dei dipinti rupestri pubblicati nel prezioso studio da E. Miller, probabilmente di difficile individuazione; più fortunati sono stati i dipinti rupestri della regione del Kimberley, dove alcune immagini, dette Gwion Gwion Bradshaw, essendo sottostanti a nidi di vespe, datati intorno a 12000 anni fa, dovrebbero risalire ad un’epoca simile o precedente.

Dipinti di figure umane riccamente abbigliate e ornate di accessori, dette Gwion Gwion Bradshaw, risalenti a 12000 anni fa ca. – regione del Kimberly in Australia

E’ evidente il linguaggio formale più dettagliato di questo modello rispetto alle due immagini precedenti; epoche e culture diverse? Tuttavia si ritrovano simili piccole borse che pendono dal collo delle figure.

L’aspetto cerimoniale, tema diffusamente documentato nei dipinti, ci permette di trovare tracce di quella cultura materiale di cui poco o nulla è conservato.

Accanto a questo, anche i miti, racconti ancestrali, che narrano l’origine della popolazione di un territorio, ci possono confermare del ruolo fondamentale proprio delle ‘Carrier Bags’, in questo come in altri contesti geografici.

Dipinto di Yingarna in Injalak Hill, Australia

Ci viene in aiuto il dipinto rupestre che rappresenta Yingarna, disegno che dà forma ad un insieme di racconti simili sulla creazione della civiltà del nord dell’Australia: una figura antropomorfa che porta, appese al collo, 15 borse di foggia più o meno rettangolare e decorate con diversi tratteggi paralleli.

I miti narrano che una donna, immagine della dea madre, arriva in Australia dal mare del nord; è gravida e porta con sé molte borse appese al collo. Camminando verso sud lascia qua e là sul territorio una borsa/cesto, all’interno della quale c’è una creatura e, in alcuni racconti, anche alcune patate; in questo modo, Yingarna dà vita alle diverse comunità locali e ai linguaggi del territorio australiano.

Questo ‘racconto della creazione’ mostra la stretta connessione che esiste tra l’origine della storia del territorio e gli oggetti in fibra vegetale, le ‘Carrier Bags’, appunto, come sostiene la stessa Emily Miller nell’articolo citato.

D’altra parte miti simili sono stati documentati anche in altre aree geografiche, come in Malesia.

Non so se lo posso dimostrare, ma forse, questi miti, hanno antiche radici comuni con le narrazioni in cui la vita di un piccolo essere umano inizia in un cesto (Mosè biblico) o viene portato in un cestino/fagotto (leggenda delle cicogne)?

Intorno ad un frammento di corda intrecciata dall’uomo di Neanderthal

Ma passiamo dalle suggestioni delle immagini e della narrazione a fatti concreti, a ricerche scientifiche che documentano, se ancora ne avessimo bisogno, la ‘creazione’ di ‘Carrier Bags’ dall’origine della cultura umana, dall’uomo di Neanderthal.

E qui ci viene in aiuto un prezioso studio, pubblicato su di una rivista “peer reviewed“, di B. L. Hardy, Direct evidence of Neanderthal fibre technology and its cognitive and behavioral implications, pubblicato nell’aprile 2020 su Scientific Reports.

Il lavoro analizza, con metodo rigorosamente scientifico, il frammento di corda rinvenuto nella grotta paleolitica di Abri du Maras, in Francia, definendone la datazione (45000 ca. anni fa), la composizione delle fibre vegetali intrecciate per creare la corda e confrontando questo reperto con i pochi altri rinvenuti anche in altri depositi paleolitici.

L’indagine, avvincente nel suo svolgimento, induce Hardy a sostenere che “Le fibre vegetali intrecciate forniscono la base per vestiario, corde, borse, reti. stuoie, etc.”.

Eccoci, forse siamo arrivati alla conferma che cercavamo!

Divagazioni interpretative personali su tracce dipinte di corde, reti, stuoie, cesti, borse

Tra i disegni lasciati dai nostri avi sulle pareti delle caverne, tra i graffiti rupestri realizzati anche su manufatti scultorei, ho cercato tracce di oggetti in fibre vegetali, in particolare tra quella ricca documentazione di simboli astratti conservati.

Qui propongo una personale interpretazione di alcuni simboli astratti, in alcuni casi classificati dagli studiosi come ‘tettiformi’, consapevole di muovermi su un terreno scivoloso ed esposto a contestazioni.

Si tratta, prevalentemente di disegni paleolitici in cui, all’interno di contorni non sempre regolari, vedono tratteggiate griglie, linee parallele, segni di diverso spessore; per questi simboli azzardo l’ipotesi che possano rappresentare oggetti creati dall’intreccio di fibre vegetali

1. Frammento di ocra con incisioni a griglia, Blombos, Sud Africa, 60.000 ca. anni fa – 2. Dipinti dalla Grotta de La Pasiega, Spagna, 65.000 ca. anni fa – 3 e 4. Dipinti dalla Grotta di Monte Castillo, (canestri?), Spagna, 22.000 ca, anni fa – 5. Disegni dalla Grotta di Altamira, Spagna, 16.000 ca. anni fa.

Aggiungo queste due immagini: una piccola statua in avorio la cui testa sembra coperta da una rete in fibra vegetale (se non è la stilizzazione di capelli ricci!) e un disegno rettangolare in cui la griglia disegnata si fa decisamente più regolare rispetto alle precedenti forme:

Testina in avorio della Venere di Brassempouy (la dame à la capouche), Francia, 25.000 ca. anni fa – Disegno dalla Grotta del Boxu, Spagna, 19.000 ca. anni fa.

Ancora due esempi di rappresentazioni che risalgono a circa 10.000 anni fa, interessanti in quanto: nella prima figura sono visibili due borse/fagotti appese ai polsi, mentre il secondo rilievo, ingrandito nella terza immagine, sembra proporre un capitello/canestro decorato con intrecci di rimando vegetale.

Dal deserto del Sahara, dipinti del periodo delle teste rotonde, Algeria, 9500 ca. anni fa; Pilastro a T, Gobekli Tepe, Turchia, 10000 ca. anni fa.

Nelle rappresentazioni neolitiche, espressioni di una cultura stanziale, le immagini di trame e tessuti si fanno più riconoscibili e identificate come tali dagli studiosi; riporto alcuni esempi da cui si evince l’evoluzione del linguaggio grafico verso una sintesi e geometrizzazione delle forme.

Particolare di menhir antropomorfo di Aosta, con trama di tessuto incisa; dai graffiti della Val Camonica, in alto, disegno di stuoia (?) e sotto rappresentazione riconosciuta di un telaio.

Dalle ‘Carrier Bags’ paleolitiche alle opere esposte ne “Il latte dei sogni”

Come si riflette la narrazione di Ursula Le Guin sui lavori artistici selezionati ed esposti alla Biennale, in questa sezione?

Consapevolmente o meno, dalle forme elaborate in alcune rappresentazioni artistiche si coglie una simile ‘forma mentis’ e un’adesione alla pregnanza simbolica propria al significato della creazione di recipienti/borse/contenitori, in particolare in relazione al ruolo della donna; premesso che nella realtà l’attività di intreccio di reti o ceste o altro non è stata e non è esclusivamente femminile, il percorso intrapreso dalla mostra privilegia il contributo delle donne artiste.

Ho scelto alcune opere realizzate nel Novecento, da artiste non più viventi; di seguito, presento lavori del nuovo millennio, di artiste contemporanee.

Ruth Asawa, (1926-2013), Untitled, 1952 ca. – fil di ferro – Arsenale, 59ª Biennale di Venezia

L’installazione di Ruth Asawa, artista giapponese, ma che ha vissuto negli Stati Uniti, propone forme/contenitori realizzati con filo di metallo, secondo tecniche di intreccio per realizzare ceste proprie del Messico. Il recupero di una sapienza artigianale antica, le cui radici affondano nella cultura precoloniale (motivo che ritorna in molti lavori esposti nella mostra), viene valorizzata da Ruth per proporre oggetti evocativi del corpo femminile, come di oggetti di raccolta, cura e conservazione.

Toshiko Takaezu (1922-2011), Vasi in ceramica, Arsenale, 59ª Biennale di Venezia.

Le variegate forme, modellate in ceramica smaltata dall’artista hawaiana, Toshiko Takaezu, rimandano a bozzoli, zucche, recipienti e contenitori della natura, che hanno perso l’originaria funzione di raccogliere o di preparare alla vita, non avendo aperture; si propongono come icone simboliche della potenza generatrice della natura.

Belkis Ayon (1967-1999), La pesca, 1989, collografia su carta – Arsenale, 59ª Biennale di Venezia.

Belkis Ayon, artista cubana, intreccia la propria esperienza con quella dei racconti e dei miti di una confraternita afrocubana, dando vita ad immagini cariche di simboli e codici che attinge da quella profondità culturale. Le sue opere sono valorizzate da una tecnica di stampa che, da una variegata gamma dal bianco al nero, risulta efficace nello svelare la stratificazione delle immagini sedimentate nella memoria di questo popolo afrocubano. Qui ho selezionato una scena di pesca, in cui la presenza di reti/involucri per la raccolta del pesce, evoca l’antico e necessario gesto di creazione di “Carrier Bags”.

Niki De Saint-Phalle (1930-2013), Gwendolyn, 1966-1990, Resina di poliestere dipinta, su base di metallo – Arsenale, 59ª Biennale di Venezia

Gwendolyn incarna il prototipo delle ‘Nanas’ di Niki de Saint Phalle, aggiornate Veneri preistoriche, che esibiscono con gioia ed orgoglio le forme femminili, il proprio potere creativo. Il corpo della donna diventa luogo in cui si raccoglie la vita, il contenitore per eccellenza, si carica del profondo e ancestrale significato insito nei miti della creazione.

Maria Bartuszova (1936-1996), Untitled, 1986, gesso – Arsenale, 59ª Biennale di Venezia

Artista di origine cecoslovacca, Maria Bartuszova modella col gesso forme tonde ed ovoidali, di rimando all’ uovo, ad elementi organici, luoghi di generazione di una vita. Tessuti fragili rivestono queste forme, avvolti in più strati per resistere in parte alla rottura, ma pronti a schiudersi.

Saodat Ismailova (1981), Palyack, tessuto ricamato e Chillahona, video a tre canali, 2022 – Arsenale, 59ª Biennale di Venezia

In questa installazione, la giovane artista uzbeka mette in dialogo il video a tre canali, girato a Tashkent, in Uzbekistan, con un Palyack, tessuto tradizionale da lei ricamato, che riporta il disegno della cosmologia femminile, la cui forma concava vuole potenziarne la funzione di protezione, guarigione e fertilità. La luce colorata, di cui il tessuto è imbevuto, proviene dalle immagini del video, girato intorno alle celle sotterranee disposte su tre piani e di forma ottagonale, dette Chillahona, luoghi per l’autoisolamento e la meditazione, spazi architettonici che assurgono a simboli di rinascita; in particolare nel video segue una donna in questo percorso di discesa nello spazio più profondo. Con questo lavoro l’artista ricerca le radici della propria cultura, recuperando i riti e le manifestazioni sacre in cui le donne hanno avuto un ruolo fondamentale.

Portia Zvavahera (1985), Captured Owls e Uplifted, part, 2021 – inchiostro da stampa su base oleosa, olio su tela – Arsenale, 59ª Biennale di Venezia

Le visioni oniriche di Portia Zrarahera, artista dello Zimbawe, sono contaminate dalla propria cultura indigena africana e portano alla luce soprattutto figure femminili in momenti di ritualità secolari (cortei nuziali, parto, momenti di preghiera…). La forma avvolgente in Captured Owls evoca un grande cesto, che contiene un racconto visionario ancestrale, dove un gruppo di donne si raccoglie per trovare conforto nell’amicizia e nella preghiera, per esorcizzare incubi e sofferenze e trovare la pace. Il cesto di fibre vegetali diviene forma simbolica di ricerca di libertà e della vita.

Emma Talbot (1969), particolari dell’installazione all’Arsenale, 2022, 59ª Biennale di Venezia.

L’intervento dell’artista inglese Emma Talbot è complesso e stratificato: da un grande e avvolgente telo di seta dipinto, diaframma leggero, Where Do We Come From, What Are We, Where Are We Going?, riflessione drammatica sul desiderio di fuga per le catastrofi climatiche, all’inquietante donna scura, inginocchiata e tesa in una lotta forse tra vita e morte. Un’Eva contemporanea, con serpente ai suoi piedi, si proietta su di un cerchio di metallo, rivestito da un tessuto di rete di rame sottile, frammento di natura imprigionato, recipiente che non contiene più nulla. Un disperato grido di desiderio di vita in cui la donna, portatrice di vita e di forza, è protagonista assoluta.

Pinaree Sanpitak (1961), Breast Vessel in the Reds, 2021, acrylic, pencil and feathers on canvas, Arsenale, 59ª Biennale di Venezia.

L’artista tailandese elabora nelle sue opere le forme di parti del corpo femminile (seni, uova, linee incurvate…), trasfigurandole in recipienti che ricordano ciotole rituali, grazie alla raffinata e complessa tecnica di esecuzione dell’opera (all’uso di acrilici aggiunge texture ottenute con piume, foglie d’oro e argento e seta). In questo modo il corpo femminile viene valorizzato e celebrato per le sue ricche potenzialità.

Acaje Kerunen, Radience – They Dream in Time, 2022 – Padiglione Uganda, Palazzo Palumbo Fossati, Venezia

Per finire questo percorso voglio rendere omaggio ad Acaje Keruen, (di cui ho parlato nell’articolo: https://wordpress.com/post/notediarte.wordpress.com/3251), artista del Padiglione dell’Uganda, per il cui lavoro ha coinvolto donne della propria terra, creatrici di ceste, tappeti, borse, stuoie, per riannodare, in un percorso di crescita collettiva, gesti e motivi della cultura indigena; dall’intreccio di fibre vegetali presenti in loco, di banani e sorgo, da foglie di palma, dalla rafia, ha dato loro la possibilità di affermare con orgoglio il proprio ruolo di donne e la propria esistenza.

Testo e foto di Ivetta Galli

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