Dalla 60ª Biennale d’Arte di Venezia: FILI – TRAME – MAPPE – MONDI

Juliette Zelime alias Jadez (Seychelles, 1984), Pala, Padiglione della Repubblica delle Seychelles, Arsenale, 60ª Biennale di Venezia

Fili che disegnano traiettorie di collegamento, reti di percorsi, fili che costruiscono mappe e che si aggrovigliano in labirinti; fili che inseguono il fluire del tempo delle persone in viaggio, che si intrecciano in nodi più o meno stabili; fili che a volte si spezzano e a volte si ricongiungono.

Numerose sono le opere, provenienti da diversi luoghi del mondo, disegnate con fili su tessuti; l’impatto visivo e la densità di significati che riescono a narrare sono sorprendenti.

Vlatka Horvat (Croazia, 1974), By the Means at Hand, Padiglione della Croazia, 60ª Biennale di Venezia

Questo umile lavoro esposto nel Padiglione della Croazia, un gioiellino perso tra le calli veneziane, condensa molti significati, tanto da essere scelto, da me, per aprire questa ‘maratona tematica’ tra sedi della Biennale e Padiglioni,

L’immagine illustra il progetto dell’artista croata Vlatka Horvat, cioè una raccolta e uno scambio di opere, tra artisti che vivono in una condizione di diaspora in diversi paesi, che vengono spedite in viaggio attraverso corrieri e mezzi improvvisati, con l’obiettivo di costruire legami di fiducia, di solidarietà e di sostegno reciproco,

Nello stesso tempo il disegno può evocare il significato della parola della tradizione giapponese, ‘musubi’, secondo cui la vita, lo scorrere del tempo, i rapporti e i ‘legami’ tra le persone sono come un intreccio di fili invisibili, figura ricorrente nell’immaginario di molti artisti nomadi e pone l’attenzione su di una tecnica utilizzata in molti lavori della Biennale, non a caso, in relazione al tema di fondo proposto dal curatore e alle vite ‘diasporiche’ dei protagonisti.

Percorrendo l’Arsenale si incontrano interventi artistici coerenti a queste tematiche, ‘mappe’ di mondi fissate nel tessuto, spesso realizzate con pratiche di lavoro collettivo, particolarmente suggestive per lo sguardo colorato di voglia di riscatto, in una prospettiva di dialogo, di pace e di costruzione di un’appartenenza, ovunque si sia.

Bouchra Khalili (Casablanca, 1975), The Mapping Journey Project, 2008-11 e Sea Drift, 2024, Arsenale, 60ª Biennale di Venezia

Le rotte migratorie che dall’Africa si dirigono verso le isole Canarie, restituite con un ricamo di filo luminoso su di un lino naturale blu profondo, assieme a otto silografie ‘Constellations series‘, disegnate da Bouchra Kalili, completano il progetto dell’artista illustrato su otto schermi di una grande videoinstallazione all’Arsenale, in cui vengono narrate e segnate le vie percorse dagli stessi migranti, dall’Africa e dall’Asia. Migranti in viaggio, erranti, come i pianeti, tra le stelle.

Bouchra Khalili (Casablanca, 1975), Constellations Series, 2024, Arsenale, 60ª Biennale di Venezia

La trasfigurazione poetica delle tracce dei viaggi delle persone che fuggono dalla propria terra, affrontano esperienze di pericolo e profonda sofferenza alla ricerca di una vita più desiderabile, diviene quasi una necessità per reinventare alternative alla disperazione; le linee ricamate e le linee ideali delle costellazioni tracciano un paesaggio sognato, senza confini e senza barriere geopolitiche.

Dana Avartani (Palestina, 1985), Vieni, lascia che guarisca le tue ferite, lascia che ripari le tue ossa rotte, 2024, Arsenale, 60ª Biennale di Venezia

Dana Avartani, artista palestinese-saudita, ha lacerato le lunghe pezze di seta stese nel salone dell’Arsenale, poi le ha rammendate, rattoppandone i buchi, con fili dello stesso colore, ottenuto da tinte naturali tratte da spezie orientali, erbe utilizzate anche per guarire, con un gesto di cura; cura delle ferite causate della violenza della guerra e dalle occupazioni devastanti della sua terra natale.

Dana Avartani utilizza il filo e il cucito in un gesto rituale che ‘delicatamente urla’ un messaggio di pace, in questi giorni particolarmente necessario anche per la distruzione dei territori della Palestina e non solo.

Shalom Kufakwatenzi (Zimbabwe, 1995), Under the Sea, 2023, Arsenale, 60ª Biennale di Venezia

Tra gli spazi dell’Arsenale si incontra la giovane artista dello Zimbabwe, Shalom Kufakwatenzi, che predilige la realizzazione di opere tessili con le quali dipinge suggestivi quadri di ‘paesaggio’; la lavorazione con fili di lana, tela di juta, spago, lenza da pesca, materiali malleabili e trasformabili, le permette di sperimentare un processo di creazione affine alla fluidità della propria identità di genere, non binaria.

L’artista crea mondi fantastici, mappe di un mondo fiabesco, contemporaneamente affascinanti, per le forme e le tinte vivaci, come inquietanti, per le pieghe scure e profonde che le delimitano; inquietudine che vuole essere denuncia del proprio senso di estraneità, rispetto agli stereotipi di genere, così come ‘allarme’ rispetto le tematiche ambientali e sociali.

Claudia Alarcόn & Silӓr (Argentina, 1989), Ottobre e Donne, una volta stelle, 2023, Arsenale, 60ª Biennale di Venezia

La giovane artista della comunità indigena argentina Wichi, Claudia Alarcόn, ha recuperato la tecnica della tessitura tradizionale, che utilizza il filato ottenuto dalla pianta locale del ‘chaguar’, per valorizzare la memoria collettiva e la creatività del proprio popolo.

In questo progetto ha coinvolto alcune donne tessitrici, creando il gruppo ‘Silӓr‘, per la realizzazione collettiva di delicati e preziosi arazzi, alcuni ora esposti all’Arsenale, attuando una pratica che permette di comunicare sogni, intuizioni, pensieri e trasmettere i racconti degli anziani, un modo per costruire tra generazioni un proficuo dialogo ‘non verbale’.

Güneş Terkol (Turchia, 1981), A song to the world (part.) 2024, Arsenale, 60ª Biennale di Venezia

Il particolare dell’opera dell’artista turca Güneş Terkol è tratto dall’arazzo/striscione, lavoro di cucito e di patchwork di stoffe, che è stato realizzato assieme a due collettivi di donne di Venezia, impegnate sulle tematiche femministe e di genere.

La pratica di Güneş Terkol, oltre a coinvolgere direttamente le donne e le loro storie nella tessitura delle opere, prevede momenti di performance, in cui gli striscioni vengono portati per le vie della città in cui sono stati realizzati; in questo caso, per le calli di Venezia, fino ad arrivare all’Arsenale, dove ora è esposto. Come in altre esperienze incontrate nel percorso, l’opera prende vita grazie ad una rete di persone che si raccontano e la costruiscono collettivamente, conferendo alla stessa una forte valenza sociale e politica oltreché artistica.

Bordadoras de Isla Negra (Cile 1967-80), Untitled, 1972, Arsenale, 60ª Biennale di Venezia

Arpilleristas, artiste cilene ignote, Untitled, anni Ottanta, Arsenale, 60ª Biennale di Venezia

Questi vivaci lavori tessili, che provengono dal Cile, esposti all’Arsenale, sono stati realizzati da gruppi di donne in due momenti diversi della storia politica del Paese: le Bordadoras hanno ricamato con fili di lana di colori brillanti, con tecniche tramandate dalle donne anziane, paesaggi e abitanti di una zona costiera del Cile, negli anni del governo popolare di Allende; le Arpilleristas hanno cucito stoffe colorate e tele di juta, dando rilievo alle superfici con interventi ad uncinetto, durante la dittatura di Pinochet.

Il linguaggio artistico delle opere riflette un’estetica caratteristica dei popoli indigeni, affine ad uno sguardo infantile, linguaggio che nel Novecento spesso è stato rielaborato dalle avanguardie artistiche occidentali.

Mentre il paesaggio di Isla Negra si dipana in un racconto vivace, che procede dal mare alle Ande, celebrando una vita serena ed impegnata in varie attività quotidiane in cui il popolo è protagonista, i tessuti delle Arpilleristas, pur restituendo un simile contesto culturale, divengono manifesti della resistenza delle donne cilene all’oppressione della cultura patriarcale e alla dittatura di Pinochet. Infatti le donne, attraverso alcuni inserti tra le immagini ricamate, lanciavano messaggi di critica al governo e richiesta di aiuto per il proprio sostentamento, al punto che molte furono perseguitate per questa attività.

WangShui (USA, 1986), Weak Pearl, 2024, Arsenale, 60ª Biennale di Venezia

Fili e reti possono essere tessuti anche utilizzando tecnologie più avanzate, come nell’installazione immersiva e sonora all’Arsenale dell’artista americano WangShui.

La rete è data da una membrana intrecciata di punti luce LED cangianti, in movimento grazie a una complessa tecnologia che sfrutta l’intelligenza artificiale, con sensori che si attivano in presenza delle persone, proponendo un’esperienza interattiva avvolgente ed emozionante .

Il titolo dell’opera ‘Perla debole’, rivela la fragilità, pur nella complessità della realizzazione, della videoscultura a rete, mutevole, smaterializzata, immersa in un paesaggio sonoro, immagine della ricerca artistica di WangShui; la sua pratica è volta ad indagare i principi di metamorfosi e trasformazione propri della natura biologica, per riflettere anche sulle questioni di identità di genere ed utilizza la tecnologia più avanzata quale medium per comunicare concetti di fluidità e libertà.

Katya Buchatska (Kiev, 1987), Saluti sinceri, 2024, Padiglione dell’Ucraina, Arsenale, 60ª Biennale di Venezia

Net making‘ è il titolo scelto dai curatori del Padiglione dell’Ucraina, all’Arsenale; ‘la tessitura’, metafora della costruzione di una rete tra le persone per resistere in un contesto di guerra, è anche possibilità di attivare un’azione collettiva, orizzontale e autogestita per sperimentare processi di unificazione e di dialogo.

All’interno di questo progetto, Katya Buchatska, per realizzare ‘Saluti sinceri’ ha coinvolto 15 artisti che hanno ricamato, con colori vivaci e andamenti liberi e gioiosi, frasi di augurio, da un lato, e tanti cuori stretti tra loro, dall’altro: urgente desiderio di amore e messaggio di pace in un contesto di conflitto molto violento.

Aziza Kadyri (Mosca, 1994), Don’t Miss the Cue, 2024, Padiglione dell’Uzbekistan, 60ª Biennale di Venezia

Tra gli ultimi Padiglioni dell’Arsenale, quello dell’Uzbekistan ci accoglie in un ambiente suggestivo improntato sulle tonalità di un incantevole blu-indaco, colore che pervade lo spazio uzbeko, dalle decorazioni architettoniche, alle cupole delle moschee, ai disegni sulle ceramiche ai costumi femminili o le giacche maschili, e in genere ai tessuti indossati nella quotidianità.

Il Padiglione è stato allestito dalla giovane artista della diaspora uzbeka, Aziza Kadyri, nata a Mosca, cresciuta in Cina, che attualmente si sposta tra Londra e l’Uzbekistan, Aziza Kadyri proietta nelle proprie opere la difficoltà a connettersi con le sue radici e per realizzare il progetto ‘Don’t Miss the Cut’ ha coinvolto un collettivo di donne, con le quali si è confrontata sul tema della memoria, storica e visiva e dell’identità.

La sua ricerca artistica (prima foto) parte dal ‘suzani,’ il ricamo fatto a mano nella tradizione dell’Asia Centrale, miniera di storie, di miti e racconti non scritti, e con l’utilizzo di un programma di intelligenza artificiale, rigenera, nei video accostati, figure e forme del ricco patrimonio della memoria collettiva uzbeka.

Le foto successive sono pezze cucite e ricamate di una coinvolgente scenografia in cui, inconsapevolmente, ci troviamo ad essere attori e spettatori in un gioco spiazzante di riflessi tra osservatori e osservati.

Aziza Kadyri (Mosca, 1994), Don’t Miss the Cue, 2024, Padiglione dell’Uzbekistan, 60ª Biennale di Venezia

Olga De Amaral (Colombia, 1932), Muro tejido terruño, 1969, Giardini, 60ª Biennale di Venezia

Il percorso tematico prosegue ai Giardini dove, con l’ artista colombiana, Olga De Amaral, oggi novantenne, abbiamo una testimonianza delle radici storiche della ‘Fiber Art’ forma artistica che trova legittimazione nel secolo scorso. L’opera di scultura tessile di Olga De Amaral richiama antiche tecniche di lavorazione dei tessuti inca; il rilievo creato con raggruppamenti e nodi dei fili di lana, intreccia una elegante sequenza ritmica sia per le forme che per le tinte accostate, variazioni delle ricche tonalità naturali della terra. Un inno alla natura e al potenziale creativo del medium!

Kang Seung Lee (Corea, 1978), Untitled (Costellation), 2024, installazione, Giardini, 60ª Biennale di Venezia

“Il destino del seme della terra è mettere radici tra le stelle”, è il poetico messaggio ricamato con un prezioso filo d’oro da Kang Seung Lee, artista coreano, su di una tela grezza, tra le numerose piccole creazioni che compongono la sua installazione, presentata in una sala dell’edificio ai Giardini.

Fili, tessuti, bottoni, fotografie, piume, spighe di grano, pannelli di legno e molto altro ancora, oggetti colti da una domestica quotidianità, intreccio di sguardi femminili e maschili, costituiscono la materia prima delle raffinate micro-creazioni, parte dell’intervento ‘Costellation‘, volto a rendere omaggio ad alcuni artisti deceduti a causa dell’AIDS.

Un percorso pensato per restituire uno spazio di dignità e di riconoscimento ad alcune figure dell’arte della galassia queer, marginalizzate dalla storia ufficiale e qui pienamente riscattate.

Liz Collins (Usa, 1968), Rainbow Mountains Weather, 2024, Giardini, 60ª Biennale di Venezia

Fantasia di un’utopia queer che è appena fuori portata“, è la descrizione che l’artista ci regala dei due grandi arazzi esposti ai Giardini, paesaggi da cui si sprigiona una forte energia coivolgente, segnalandoci quanto sia dirompente e rivoluzionaria, oggi, la tematica sugli orientamenti sessuali e le identità di genere.

Le fiammate dei colori degli arcobaleni tessuti su di un cielo nero, tra astri inquietanti, cercano una propria affermazione in un contesto di conflitti che ancora frenano il pieno riconoscimento di tutte le esistenze,

Kapwani Kiwanga (Canada, 1978), Trinket e Impiraresse 2024, Padiglione del Canada, Giardini, 60ª Biennale di Venezia

(La prima foto è tratta da https://www.finestresullarte.info/arte-contemporanea/biennale-venezia-padiglione-canada-riflessione-emarginazione-artista-kapwani-kiwanga)

Nel Padiglione del Canada, ai Giardini, il filo diventa il supporto su cui vengono infilate circa 7 milioni di perline di vetro, di vari colori, realizzando leggeri tendaggi che rivestono sia internamente che esternamente l’architettura del padiglione.

Il progetto “Trinket“, gioiello, viene concepita dall’artista franco-canadese Kapwani Kiwanga, di origini della Tanzania, oggi residente a Parigi, la cui biografia è rappresentativa dei complessi percorsi di vita degli artisti selezionati per questa Biennale.

Le perline di vetro, prodotte dagli artigiani a Venezia dal 1400 alla metà del ‘900, sono state esportate in Africa, America e India, come merce barattata con risorse molto più preziose, anche con schiavi, sfruttando l’alto valore attribuito dalle popolazioni extraeuropee a queste piccole sfere di vetro colorato.

L’artista ha portato alla luce questa modalità, tra le tante, di rapina di risorse dei popoli colonizzati, denunciandone il meccanismo attraverso una rielaborazione artistica di grande valore estetico e poetico; il colore cangiante dei drappi alle pareti annulla l’architettura del padiglione, creando uno spazio suggestivo e accogliente.

All’esterno è teso un grande tendaggio realizzato con file di perline blu, “Impiraresse“, definito con il nome delle donne incaricate di infilare le sferette di vetro, omaggio dunque alle artigiane costrette ad eseguire quel lungo lavoro ripetitivo.

Jaffrey Gibson (USA, 1972), If there is no struggle there is no progress, We wold these truths to be self-evident, 2024, Padiglione degli Stati Uniti, Giardini, 60ª Biennale di Venezia

Di perline e fili e nastri colorati è pervaso il Padiglione degli Stati Uniti, ai Giardini, ‘The Space in which to place me’, dove note caleidoscopiche di colori squillanti rivestono le pareti, le sculture, i quadri e i video creati da Jaffrey Gibson, artista statunitense di origini Cherokee.

Emblematico è il titolo della prima scultura a forma di piccolo uccello/papera ‘Senza lotta non c’è progresso‘, per ricordare quanto sia necessario non dare per scontati i diritti acquisiti, ma anche quanto la storia e la resistenza dei propri antenati sia parte integrante del presente e del futuro.

Jaffrey Gibson (USA, 1972), The obligation of honor of a powerful nation, We want to be free, 2024, Padiglione degli Stati Uniti, Giardini, 60ª Biennale di Venezia

Gibson intreccia materiali e linguaggi della tradizione del sud-est statunitense, zona dei suoi antenati Choctaw e Cherokee, con tecniche e forme della cultura artistica contemporanea, (come non pensare ai lavori di Boetti?), inserendo testi significativi tra le trame geometriche dipinte, che evocano motivi decorativi indigeni.

Il profilo dell’indiano nel cammeo, disegnato con perline cucite, come le tende dei popoli indigeni, alternate alla bandiera americana, inserti raffinati di gusto folkloristico, così come la scritta ricamata che cita la legge ‘Indian Citizenship Act‘ del 1924, testo che garantisce i diritti primari alle popolazioni indigene, riportano la nostra attenzione oltre il suggestivo impatto estetico, facendoci recuperare frammenti di storia sottaciuta e confinata ‘nelle riserve’.

Jaffrey Gibson (USA, 1972), Every boby is sacred, powerful because we’re different, 2024, Padiglione degli Stati Uniti, Giardini, 60ª Biennale di Venezia

Nei lavori di Gibson si coglie anche una ricerca volta a scardinare gli stereotipi legati alle questioni di genere, tematica a lui cara, in quanto persona omosessuale: l’inserimento in molte opere dei colori dell’arcobaleno, tra le tinte squillanti e psichedeliche, come le scritte nelle due opere sopra riportate, documentano il suo impegno per il riconoscimento delle diverse e possibili identità sessuali.

All’interno del Padiglione si è contagiati dall’energia positiva e dalla gioia che l’artista comunica con il proprio lavoro, invito coinvolgente volto a dare voce e celebrare le comunità di nativi che, pur se emarginate nella storia americana, hanno mantenuto una profonda cultura e dignità. Il coinvolgimento emotivo si accentua avvicinandosi alle ritmiche sonorità del video, alla fine del percorso.

Jaffrey Gibson (USA, 1972), She never dances alone, 2024, parte del video del Padiglione degli Stati Uniti, Giardini, 60ª Biennale di Venezia

Glicéria Tupinambà (Brasile, 1982), Okarà Assojaba 2024, Padiglione del Brasile, Giardini, 60ª Biennale di Venezia

Glicéria Tupinambà, artista leader indigena del popolo amazzonico dei Tupinambà, popolo per secoli perseguitato e decimato violentemente, nel Padiglione del Brasile ai Giardini volge la propria pratica artistica alla valorizzazione della capacità di resistenza delle comunità indigene impegnate nella ‘rinascita’ delle foreste disboscate.

Recupera come materia prima le reti da pesca locali e le piume di uccelli della foresta, per ricostruire, nell’installazione ‘ Okarà Assojaba‘, l’assemblea degli anziani, in ascolto e dialogo, attorno alla figura leader, che veste il mantello caratteristico della comunità, dal valore rituale e spirituale, mantello realizzato con tecniche di tessitura tradizionali.

Ziel Tupinambà (Brasile, 1994), Cardume, 2024, Padiglione del Brasile, Giardini, 60ª Biennale di Venezia

Anche Ziel Tupinambà ricostruisce nel Padiglione del Brasile un’installazione che vuole celebrare la vita della popolazione amazzonica, immergendo i simboli della propria cultura e storia in un paesaggio sonoro che mescola, al rumore dei fiumi e ai canti tradizionali, i violenti colpi degli spari d’arma da fuoco.

Sotto ampie ‘volte’ di reti da pesca, che rappresentano le correnti dei fiumi abitate dai pesci, risorsa fondamentale, si affrontano colorate e gioiose maracas e pericolosi proiettili, in racconto visivo carico di significato simbolico per la propria esistenza.

Rashad Alakbarov (Azerbaigian, 1979), I Am Here, 2024, Padiglione dell’Azerbaigian, 60ª Biennale di Venezia

Uscendo dalle sedi della Biennale si trovano Padiglioni che, con opere interessanti. continuano a tessere motivi coerenti al nostro percorso.

Con ritagli di caratteristici tappeti azeri, come copertura di bianchi blocchi labirintici, Rashad Alakbarov compone la scritta ‘I am here‘, immagine catturata da uno specchio convesso collocato nell’angolo alto, tra le pareti di uno spazio claustrofobico.

Siamo nel Padiglione dell’Azerbaigian, dove, tra le varie installazioni, quella di Rashad Alakbarov utilizza frammenti di decorati tappeti tradizionali per comunicare il bisogno di trovare un proprio ‘luogo’, una propria identità; il messaggio viene riflesso nel nostro rispecchiamento, immergendoci in una sensazione di spaesamento e contemporaneamente di piacevole sorpresa.

Guy Woueté (Camerun, 1980), Posséder deposséder, 2024, Padiglione del Camerun, 60ª Biennale di Venezia

Nel Padiglione del Camerun, allestito nel Palazzo Donà delle Rose, l’artista Guy Woueté presenta alcuni lavori sui temi della colonizzazione, della migrazione e della diaspora; tra le sue creazioni, il tessuto di tela appeso, lavorato con piccole e regolari pezze cucite come una griglia, come frammenti di terra imprigionati, dalle evocative tinte naturali, viene ricamato da queste frasi:

NON RIESCO A RESPIRARE (in verticale)

SE SIAMO ORGANIZZATI, SE LOTTIAMO, POSSIAMO VINCERE E RESPIRARE

Dalla scritta, appena percettibile, germogliano fili neri, quasi capelli, che cadono aggrovigliandosi, come una cascata di lacrime.

La drammatica forza espressiva di questo lavoro condensa tutta la sofferenza e la determinazione, sia personale che di un popolo, nella ricerca di liberazione dalle gabbie di schiavitù e di dipendenza vissute nei secoli della colonizzazione gabbie che ancora oggi condizionano pesantemente la loro esistenza.

(Testo di Ivetta Galli, foto e video, dove non specificato, di Ivetta Galli, Aldo Mazzolini e Flavio Mazzolini)

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