Ho Insegnato Storia dell'Arte in un liceo artistico e sono interessata alle espressioni artistiche contemporanee.
Ho anche una particolare attrazione per l'arte Altomedievale.
Male non farebbe, a chi oggi ritorna a celebrare il vantaggio del nucleare, civile ma anche militare – “si vis pacem, para bellum” -, un’immersione in questa mostra di Yukinori Yanagi, potente come messaggio di pace e come riflessione sul “posto” che spetta all’umano nell’ecosistema “mondo”.
All’ingresso, ci si trova, nel buio più avvolgente, di fronte ad una catasta apocalittica di macerie di civiltà, sulla quale un occhio gigante agita la pupilla e l’iride, che riflette l’esplosione nucleare di Hiroshima; immagine di una ferita ancora lacerante, che forse solo una persona giapponese può cercare di far riemergere dalla propria memoria storica con tale forza, tentando di ricucire i lembi della violenza subita.
Yukinori Yanagi (Giappone, 1959), Project God-zilla 2025, The Revenant from “El Mare Pacificum”, 2025, Materiali di recupero, video, suono, Pirelli Hangar Bicocca 2025Yukinori Yanagi (Giappone, 1959), Project God-zilla 2025, The Revenant from “El Mare Pacificum”, 2025, Materiali di recupero, video, suono, Pirelli Hangar Bicocca 2025
Sparsi tra i relitti, ideogrammi al neon riportano frammenti dell’art. 9 della Costituzione del Giappone, tra cui “…. il popolo giapponese rinuncia per sempre alla guerra..…”; la scelta di riprodurre l’articolo con “frasi” spezzate è dovuta alla volontà di far emergere la discussione ancora viva in Giappone sui contenuti dello stesso.
Il percorso di Yukinori, all’interno del proprio immaginario sedimentato, ci porta nei pressi di un container al cui interno, grazie ad un coinvolgente gioco di specchi, si moltiplica all’infinito la figura di Ultraman, supereroe della sua infanzia.
L’artista ricorda quanto da ragazzino fosse attratto dalle immagini di cultura popolare, narrazioni sulle radiazioni nucleari, l’inquinamento, il diritto all’autodifesa; ma nello stesso tempo, oggi, coglie in quel racconto l’insinuarsi di una pericolosa propaganda nazionalista, tingendo l’allestimento dei colori della bandiera giapponese e posizionando tutte le figure in un atteggiamento acritico di profonda “riverenza” verso il potere.
Yukinori rende “visive” le radici del Nazionalismo e del Populismo, problemi oggi diffusi anche in gran parte del mondo.
A fianco di quest’ opera ci coglie la curiosità di entrare nel vicino container e qui, inaspettatamente, si entra in un labirinto costruito intorno al mito di Icaro: dall’immagine del sole, vicinissimo, ad un immersivo percorso in caduta verso il nulla, ma anche di uscita verso un frammento di luce, un pezzo azzurro del cielo di Milano.
E’ un’esperienza emotiva forte, che crea disorientamento, che suscita sentimenti conflittuali di tensione verso l’abisso e poi verso la libertà.
Alla fine della mostra ci aspetta un’opera di grande suggestione, alla quale ci avviciniamo incuriositi dalla presenza di tantissime bandiere, alla parete, che, via via, ci accorgiamo, sono rovinate da una misteriosa corrosione.
Yukinori Yanagi (Giappone, 1959),The World Flag Ant Farm, 2025, Formiche, sabbia colorata, scatole di plastica, tubi, monitor, Pirelli Hangar Bicocca 2025
Un monitor tra le bandiere cattura l’attenzione e lì ci appaiono alcune formiche che si stanno muovendo tra le bandiere corrodendone l’integrità, indifferenti ed incuranti di limiti e dei confini disegnati: un’idea artistica strabiliante, che ci racconta, in estrema sintesi, riflessioni sul ruolo dell’umanità in rapporto alla natura e gli altri esseri viventi, sulla fragilità e l’inutile oppressione dei confini e dei limiti imposti dal potere, sull’ineluttabilità delle migrazioni e degli spostamenti, temi oggi tra i più scottanti della nostra epoca.
Il tema della bandiera e del suo complesso significato ambivalente è proposto anche nella spettacolare e pirotecnica installazione collocata come preludio a The Word Flog Ant Farm.
Un’esperienza visiva ed immersiva, accompagnata da colonne sonore coinvolgenti, completano la ricca e complessa proposta artistica di Yukinori Yanagi, artista tra i più significativi della scena contemporanea giapponese.
Esterno del Padiglione della Germania, Thresholds, Giardini – Yael Bartana (Israele, 1970), Farewell, 2024, Padiglione Germania, 60ª Biennale di Venezia
Di terra, accumulata, se ne incontra molta, tra gli interventi artistici della Biennale.
E, come di terra, c’è anche tanta acqua.
Elementi basilari del nostro pianeta, impastati, possono dare forma ai pensieri ed alle immagini degli artisti; d’altra parte nei miti dall’argilla nasce la creazione di esseri viventi e di nuovi mondi.
Si respira l’urgenza di ricostruire, di ricreare, a partire dalle più essenziali risorse disponibili, ambienti desiderabili, accoglienti e inclusivi, in una ricerca di relazioni sostenibili e soddisfacenti tra gli esseri viventi e il pianeta.
Urgenza che nasce dal vissuto delle tragedie contemporanee, sottese alle esperienze svelate dagli artisti, come motivo di stimolo e di speranza per la ricreazione di un mondo in profonda crisi.
Il Padiglione della Germania ne è una felice sintesi: dalle frana di macerie terrose che blocca l’ingresso, alla congelata ricostruzione, all’interno, di un alloggio anni settanta completamente sommerso dalle ceneri terrose e velenose dell’amianto, simbolo del tramonto del progresso, alla ricerca di soluzioni di fondazione di nuovi mondi nello spazio intergalattico, narrata da video suggestivi, in cui si rigenera una visione di armonia tra le specie viventi. Danze rituali e ritmi coinvolgenti sulla parete concava interna magnetizzano l’attenzione: nostalgia di riti collettivi e appaganti, di movimenti cadenzati dalla musica e dai canti, di gesti che ci facciano riconoscere come comunità?
E’ questo un ‘leit motif’ che riemerge con prepotenza in moltissime altre opere.
John Akomfrah (Ghana, 1957), Listening all night to the rain, 2024, Padiglione della Gran Bretagna, Giardini, 60ª Biennale di Venezia
L’acqua è la protagonista dei meravigliosi video che rivestono le pareti del Padiglione della Gran Bretagna. Affidato a John Akomfrah, artista che con magia crea preziosi quadri in movimento, densi di racconti e di significati.
Attraverso i mari e i fiumi passano le storie di popoli in cammino, documentate con foto d’archivio anche drammatiche, oppure create dall’artista stesso con estrema sapienza.
John Akomfrah (Ghana, 1957), Listening all night to the rain, 2024, Padiglione della Gran Bretagna, Giardini, 60ª Biennale di Venezia
L’acqua come deposito di materiali e oggetti persi nel tempo, luogo in cui si stratificano testimonianze del passato, oppure che diventa ‘sentinella’ delle trasformazioni ambientali e dell’inquinamento.
Se le immagini poetiche di John Akomfrah che ci scorrono davanti agli occhi sono frutto di una ricerca sul passato, la storia, la cultura e la contemporaneità, l’immersione nei mari che ci accolgono nel Padiglione francese ci proiettano dal presente in un futuro fiabesco, a volte ironico e giocoso, a volte inquietante,
Julien Creuzet (Parigi, 1986), ‘Attila cataracte ta source aux pieds des pitons verts finira dans la grande mer gouffre bleu nous nous noyâmes dans les larmes marées de la lune’ , 2024, Padiglione della Francia, Giardini, 60ª Biennale di Venezia
L’artista franco-caraibico, Julien Creuzet, partendo dal suo immaginario infantile, ci porta tra le acque e nella terra delle sue radici, la Martinica; attorno ad un verso poetico del poeta Glissant, nato in Martinica e vissuto in Francia, Julien allestisce uno spazio immersivo in cui fonde mirabilmente scultura, musica, poesia e cinema: immagini di fondali marini, correnti d’acqua e cascate alimentano le nostre percezioni, stimolano la nostra immaginazione e fanno riemergere memorie collettive.
Julien Creuzet (Parigi, 1986), ‘Attila cataracte ta source aux pieds des pitons verts finira dans la grande mer gouffre bleu nous nous noyâmes dans les larmes marées de la lune’ , 2024, frames da video, Padiglione della Francia, Giardini, 60ª Biennale di Venezia
L’artista lavora sull’immagine della confluenza dei corsi d’acqua come metafora delle poetiche di relazioni, come luogo dello scambio con l’altro, immagine di uno spazio utopico molto potente, in cui abitano esseri viventi anche frutto di metamorfosi di varie specie, un luogo del tutto inclusivo e accogliente.
Mark Salvatus (Filippine, 1980), Waiting just behind the courtain of the age, 2024, Padiglione delle Filippine, Arsenale, 60ª Biennale di Venezia
Torniamo alle immagini di terra, molte, tra cui questi particolari dell’installazione dell’artista filippino Mark Salvatus, dove un accumulo di terra, in verità in vetroresina, dà vita al suono di strumenti musicali delle bande e dei musicisti del monte Banahaw delle Filippine.
La scelta del luogo è emblematica, ‘Il monte mi ha sempre affascinato, anche perché è un luogo storico ed è stato uno dei primi spazi in cui Pule, assieme alla popolazione locale, iniziò ad organizzare una rivolta contro il dominio spagnolo.‘
Il progetto che l’artista filippino propone ruota infatti attorno alla propria origine, alla cultura del proprio popolo, alle tradizioni, tra cui l’espressione musicale, riannodando i motivi storici che lo hanno visto protagonista di momenti di resistenza contro i colonizzatori.
Manal Al Dowayan (Arabia Saudita, 1973), Shifting Sands: a Battle Song, 2024, Padiglione dell’Arabia Saudita, Arsenale, 60ª Biennale di Venezia
‘Sabbie mutevoli: una canzone di battaglia’ è il titolo del Padiglione dell’Arabia Saudita, allestito dall’artista Manal Al Dowayan: il potente e coinvolgente messaggio femminista, veicolato sia da un tessuto sonoro di voci e canti di giovani ragazze che inonda l’ambiente, sia dalle eleganti calligrafie arabe, attraverso cui si impongono parole del patrimonio di liberazione delle donne, giunge chiaro.
La scrittura e i grafismi che rivestono i ‘grappoli di lame di cristallo delle rose del deserto’ ci interrogano sulle contraddizioni tra le politiche di governo del paese rispetto ai diritti umani, committente dell’opera, e la radicale rivendicazione degli stessi, da parte dell’artista che lo rappresenta.
Anna Maiolino (Italia, 1942), Anno 1942, Mapas mentals,2973-1999 e Terra Modelata, 2024, Arsenale, 60ª Biennale di Venezia
Anna Maiolino è stata premiata con il Leone d’oro alla carriera e la sua esperienza ripercorre i temi salienti di questa mostra: emigrata dalla Calabria in Brasile, ha vissuto e lavorato tenacemente come artista in America Latina. La forma dell’Italia del 1942, suo anno di nascita, ritagliata dal bruno cenere del fuoco, rimanda ai bombardamenti subiti, e restituisce una figura sofferta della propria identità.
L’artista dagli anni ottanta si dedica a modellare la terra, l’argilla, recuperando la gestualità nella creazione artistica a partire dagli elementi naturali più essenziali. Lo spazio da lei allestito in una stanza all’Arsenale è trasformato in un’architettura abitata e arredata dalla proliferazione di forme in terracotta che rimandano alla ciclicità e continuità della vita, al suo continuo rinnovarsi, in continua trasformazione ed evoluzione.
Maria Madeira (Timor Leste 1969), Kiss and don’t tell, 2024, parte del video, Padiglione di Timor Leste, 60ª Biennale di Venezia
Con argilla rossa, dalla terra di Timor Leste, spalmata sul tessuto tradizionale teso alle pareti e accumulata a terra, Maria Madeira rievoca le violenze subite dalle donne nel suo paese, costrette dagli uomini a baciare col rossetto le pareti e a sottomettersi a loro.
Il canto dolente da lei interpretato, ‘Cara Madre Terra’, e i gesti dell’artista volti a riscattare il sacrificio delle vittime del patriarcato, restituiscono un’esperienza emotiva e poetica intensa, trasfigurata nei delicati colori che avvolgono la stanza del Padiglione.
Maria Madeira (Timor Leste 1969), Kiss and don’t tell, 2024, Padiglione di Timor Leste, 60ª Biennale di Venezia
Con la terra argillosa, con gocce di vernice e noce di betel, Maria Madeira dipinge un ambiente carico di note di dolore e di desiderio di resilienza, in cui si respira la memoria e la storia dei suoi racconti.
Joshua Serafin (Filippine, 1995), Void, 2022, frames da video, Arsenale, 60ª Biennale di Venezia
Dal fango, in riva ad una pozzanghera, prende vita e corpo una persona, un mito di creazione primordiale che si ripete, lentamente, in un contesto notturno e fortemente contaminato dalla materia argillosa. Nel video di Joshua Serafin, la figura che si anima è una divinità non binaria, emblema di una utopia queer come modello di superamento dei pregiudizi di una cultura patriarcale, radicata nella tradizione filippina, ma non solo; l’opera diviene, a mio parere, una visione pregnante della rivoluzione in atto, a livello planetario, relativamente ai concetti di genere e di identità, motivo che, abbiamo visto, emerge in molte opere, in particolare di giovani artisti.
(Testo di Ivetta Galli, foto e video, dove non specificato, di Ivetta Galli, Aldo Mazzolini e Flavio Mazzolini)
Alioune Diagne (Dakkar, 1985), Bokk Bounds, 2024, Padiglione del Senegal, Arsenale, 60ª Biennale di Venezia
La presenza invasiva di corpi e di volti tra le opere esposte ci porta dentro il cuore pulsante dell’umanità in viaggio, in diaspora, sia rispetto ai luoghi geografici attraversati che in relazione ai propri confini interiori.
Bertina Lopez (Mozambico 1924-2012), Os meninos de Mafalda, 1963, Giardini, 60ª Biennale di Venezia
Lo ‘storico’, oramai, dipinto su legno di Bertina Lopez, artista di origini mozambicane che ha vissuto in Italia, impegnata anche come attivista a Roma nella ricerca di soluzioni per accordi pace per la sua terra, è una dolente ed icastica rappresentazione di figure, volti e corpi, che mescola evocazioni linguistiche d’arte africana e delle avanguardie europee.
Il soggetto di quest’opera apre ad una ricca galleria di preziosi ‘ritratti’, selezionati da Adriano Pedrosa, di donne e uomini del mondo extraeuropeo, del Novecento, frutto di contaminazioni di arti ‘basse’ e ‘alte’, da cui emergono incessanti migrazioni di stili tra popoli di differenti culture.
Teresa Margolles (Messico, 1963), Tela venezuelana, 2019, Giardini, 60ª Biennale di Venezia
Migrazioni che coinvolgono soprattutto ‘corpi’, di cui, a volte, ne rimane solo l’impronta, come un sudario; Teresa Margolles, con questa ‘sindone laica’, esposta come una reliquia, celebra la morte di un giovane migrante venezuelano ucciso sul confine con la Colombia.
Puppies Puppies -Jade Guanaro Kuriki-Olivo, (Dallas, 1989), A sculpture for Trans Women, 2023, Electric Dress (Atsuko Kanaka), 2023, Giardini e Arsenale, 60ª Biennale di Venezia
Puppies Puppies offre un calco in bronzo del proprio corpo, disvelando attraverso l’iconografia del monumento commemorativo, la propria identità sessuale, luogo del sé, in cui i generi convenzionali migrano superando i confini per aprirsi a nuove possibili identità, transgenere e non binarie.
L’artista, all’Arsenale, commemora le vittime queer di un night club di Orlando, Pulse, uccise da un fanatico omobitransfobico nel 2016, riproponendo una scultura dell’artista Atsuko Kanaka, del 1956, il cui corpo si anima grazie a fili di luci intermittenti, che pulsano come il battito del cuore, e si illuminano coi colori dell’arcobaleno della bandiera LGBT+.
Pablo Delano (Portorico, 1954), The Museum of The Old Colony, 2024, Giardini, 60ª Biennale di Venezia
Pablo Delano, portoricano, porta ai Giardini un complessa installazione, allestita con oggetti e documenti, anche fotografici, dai quali si evince la lunga storia di sottomissione politica, economica e culturale vissuta dal suo paese, come colonia; tra questo materiale, anche le immagini di ‘corpi’ di adolescenti e bambini, soggetti dell’occhio fotografico dei colonizzatori europei, contribuiscono a ribaltare la lettura storica ufficiale dei conquistatori, restituendo piena consapevolezza e dignità alla popolazione di Portorico.
Gabrielle Goliath (Sud Africa, 1983), Personal Account, 2024, Giardini, 60ª Biennale di Venezia
Sullo fondo di una colonna sonora che registra suoni paralinguistici, sospensioni tra le parole di un discorso e lamenti cantati e sussurrati, sfilano attorno a noi corpi vittime di violenza patriarcale: donne, indigeni, persone nere, trans, non binarie.
L’artista Gabrielle Goliarth elabora questo progetto transnazionale, raccogliendo storie accomunate dalla pervasività della cultura patriarcale, razziale e coloniale, facendo emergere dai testimoni strategie di sopravvivenza e riparazione e creando uno spazio di ascolto, dialogo e di riscatto.
Giulia Andreani (Mestre, 1985), Conservative Ghost, 2024 e Le fanciulle laboriose, 2024, Giardini, 60ª Biennale di Venezia
Corpi femminili popolano le opere di Giulia Andreani che sceglie di rappresentare alcune figure di donne del primo Novecento, come Emmeline Pankhurst, protagonista del movimento femminista inglese o giovanissime lavoratrici ritratte in fotografie dell’epoca fascista; l’artista immerge le sue rielaborazioni pittoriche ad acrilico nelle tonalità di un grigio, ricco di sfumature, che evoca la memoria, sostenuta dai documenti fotografici, di una storia femminile densa di significati, ma ancora ‘in ombra’.
I dipinti di Giulia Andreani, resi con nitidezza realistica, sottendono una ricca stratificazione di segni: nel dettagliato ritratto di Emmeline, dal suo volto, in una nuvoletta, si disegna un’opera di Medardo Rosso, a lei contemporaneo, il cui tema della maternità mette in gioco riflessioni ancor oggi attuali sul ruolo della figura femminile; dal ritratto di gruppo delle fanciulle che cuciono e ricamano, tutte uniformate per taglio di capelli e abiti, traspare l’ideologia patriarcale e fascista, volta ad annullare le identità delle donne, fin da piccole ingabbiate in ruoli esecutivi.
Nella stessa sala, ai Giardini, su una parete si srotola un lungo lavoro dipinto e ricamato dell’artista inglese Magda Gill (1882-1961), modello tra le donne di un fare artistico autodidatta e dettato da un impulso creativo visionario, alimentato dalla propria condizione di genere e da problemi mentali, figura a cui Giulia Andreani rende omaggio per il suo valore artistico.
Moufouli Bello ( Benin, 1987), Egbe Modjisola, 2024, Padiglione del Benin, Arsenale, 60ª Biennale di Venezia
Restituzione di ritratti femminili, a colori intensi e accattivanti, è la proposta da Moufouli Bello, artista del Benin del Padiglione africano, all’Arsenale. Donne contemporanee, ritagliate da ritratti fotografici, rivestite da preziosi tessuti decorati, con tinte sature sui toni del blu, si impongono allo sguardo con tutta la loro bellezza, forza e dignità, riscatto di secoli di oppressione. Tra i dipinti, una evocativa scultura di danza in cerchio di figure femminili, immagine di relazione ed armonia come recupero di tradizioni utili per riaffermare la propria cultura.
Agnes Questionmark (Roma, 1995), Cyber- Teratology Operation, 2024, Arsenale, 60ª Biennale di Venezia
In fondo al percorso dell’Arsenale, tra gli spazi più lontani dall’ingresso, si incontra un’installazione di forte impatto, una visione ‘post-human’ e cyber del corpo, realizzata dall’artista Agnes Questionmark.
Sul lettino di una sala operatoria è steso un corpo trans, sia transgenere, che trans-specie, che transumano, ossessivamente controllato da monitor e congegni tecnologici avanzati. L’artista ci porta a riflettere su temi apparentemente futuribili, che investono, nel nostro contemporaneo, le persone trans nei propri percorsi di affermazione, il cui corpo viene ancora molto spesso trattato con sguardo patologizzante dalla società fortemente cisnormata.
Agnes Questionmark rivendica con forza il valore emancipatorio delle esperienze transgenere, e pone la questione del rapporto tra genere e riproduzione, temi ancora tabù, intorno ai quali ci stimola una riflessione.
Sandra Gamarra (Perù, 1972), Pinacoteca Migrante, Maschere meticce, 2024, Padiglione della Spagna, Giardini, 60ª Biennale di Venezia
Quanto sia oggi presente nell’elaborazione artistica il corpo transgender, segno di una profonda rivoluzione in atto nel pensiero e nella conoscenza in merito a queste tematiche, lo testimoniano opere esposte anche nei padiglioni nazionali.
Ai Giardini, nel Padiglione Spagnolo, l’artista di origine peruviana-giapponese Sandra Gamarra, ora residente in Spagna, ha costruito un percorso ‘museale’ alternativo, in cui dà voce a narrazioni storicamente messe a tacere, in particolare relative alle colonie spagnole. Sulle tracce dei musei madrileni, da quelli di Storia Naturale ai capolavori delle principali Pinacoteche, ricostruisce ‘stanze’ tematiche, tra cui la stanza delle Maschere meticce.
I corpi protagonisti prendono forma e volume dallo sfondo dipinto di evocazione classica, rivestiti da reali tessuti indigeni e con maschere lignee rituali, accompagnati da riflessioni vergate a mano sulla tela stessa.
L’approccio intersezionale al tema delle minoranze trova una pregnante espressione in questa frase che accompagna la figura sopra riportata: “Il corpo trans sta all’eterosessualità normativa come la Palestina sta all’Occidente: una colonia la cui estensione e forma si perpetuano solo attraverso la violenza…..Il migrante perde lo stato nazionale, il rifugiato perde la casa, la persona trans perde il corpo. Attraversano tutti il confine contiguo, vivendo negli incroci”
Guerriero Do Divino Amor (Ginevra, 1983), Super Superior Civilisations, Roma Talismano, 2024, Padiglione della Svizzera, Giardini, 60ª Biennale di Venezia
Di estetica pop-camp, nutrita di una provocatoria e traboccante creatività, si presenta il Padiglione della Svizzera, creato dall’artista svizzero brasiliano Guerriero Do Divino Amor; intorno alla performence di Ventura Profana (Salvador, 1993), protagonista per la sua prorompente corporeità, pur in un ologramma, si dipana uno spazio architettonico visionario, in cui si affastellano immagini di Roma, Capitale della Civiltà, con imponenti corpi statuari classici, cariche di tagliente ironia , di opulenza barocca e divertita analisi intorno a questioni di propaganda politica e identità nazionale.
Guerriero Do Divino Amor (Ginevra, 1983), Super Superior Civilisations, Roma Talismano, 2024, Padiglione della Svizzera, Giardini, 60ª Biennale di Venezia
L’intento dell’artista è quello di indagare i modelli di autorappresentazione delle Nazioni, smascherando le contraddizioni insite nelle ideologie nazionaliste.
Isabel De Obaldia (USA, 1957), Selva, 2024, Padiglione di Panama, 60ª Biennale di Venezia
Appesi, feriti, traumatizzati sono i corpi fragili, modellati in vetro, dall’artista di origini panamense Isabel De Obaldia, installati in un ambiente immersivo che riproduce, per suoni e dipinti alle parteti, una giungla tropicale.
Siamo nel Padiglione di Panama, collocato in uno stretto rio veneziano, non lontano dalla sede dell’Arsenale.
La foresta ricostruita è quella che separa la Colombia dal Panama, ritenuta impraticabile, ma attraversata da un numero sempre maggiore di migranti diretti negli Stati Uniti, nonostante i molti pericoli che incontrano. Isabel De Obaldia ci regala un’opera di forte impatto visivo ed espressivo, comunicando con immediatezza la tragedia e l’orrore vissuto dalle persone in esodo, esperienze che si condensano sulle tracce dei corpi cesellate nel vetro.
Jems Koko Bi (Sinfra, 1966), A man crushed by iron tracks, 2024, Padiglione della Costa d’Avorio, 60ª Biennale di Venezia
Un monumentale corpo nero, schiacciato e spezzato da rotaie in ferro, ci narra la tragedia della schiavitù degli africani deportati in America: è una installazione dell’artista ivoriano Jems Koko Bi, che accoglie i visitatori nel Padiglione della Costa d’Avorio, costruito attorno al malinconico ‘leit motiv’ del blues,
L’artista, che realizza sculture monumentali in legno, dice: “Gli alberi mi danno istruzioni e io le seguo, nel bosco, mi consigliano e io racconto le loro storie”; nel suo lavoro sono pressanti i riferimenti alla storia del proprio paese, alla cultura e divinità dei propri antenati e al tema dell’esilio.
Frames da video all’interno del Padiglione dell’Iran, Palazzo Malipiero, 60ª Biennale di Venezia
Chiudo questo percorso sulla centralità del corpo e dei volti, in alcune rappresentazioni della Biennale, con uno sguardo all’infanzia e alla gioia dei bambini che insieme paiono felici, pur se in un contesto terribile in cui sono vittime, quale quello di Gaza, di cui queste immagini sono la testimonianza. Il Padiglione ha scelto come titolo un verso del poeta Abu Mohammad Mosleh ebn Abdollāh, vissuto nel XIII secolo, “Of one essence is the human race“, un inno all’unità del genere umano, indipendentemente dalle barriere sociali e dalle etichette.
Il video si trova nel Padiglione dell’Iran, fortemente contestato per la politica di repressione dei diritti perpetrata dal regime del paese. Inevitabilmente le questioni politiche si intrecciano a quelle dell’arte contemporanea.
Credo sia corretto evidenziare ed essere consapevoli delle profonde contraddizioni che spesso si palesano tra scelte dei governi e opere degli artisti esposti a rappresentarli, un tema intricato ma che ci sollecita a riflettere e discutere sui valori e il significato dell’arte stessa.
(Testo di Ivetta Galli, foto e video, dove non specificato, di Ivetta Galli, Aldo Mazzolini e Flavio Mazzolini)
L’archetipo della capanna, luogo primario di rifugio, spazio sicuro per il viandante, è una figura necessaria nell’immaginario delle persone, in particolari nomadi o alla ricerca di un luogo accogliente; questa ‘figura’ ricorre, non a caso, in molti degli interventi artistici dell’esposizione ‘stranierǝ ovunque’.
Frequentemente è una ricostruzione fisica, carica di rimandi simbolici e culturali, di un luogo al centro del nostro peregrinare, o della memoria, ma può essere anche uno ‘safe-space’ evocato come urgente, in particolare dallǝ giovanǝ artistǝ che, ‘stranierǝ’ rispetto ad un mondo rigidamente binario od omobitransfobico, cercano un ambiente domestico a cui appartenere e in cui ‘sentirsi a casa’,
Nil Yalter (Il Cairo, 1938), Topak Ev, 1973, Giardini, 60ª Biennale di Venezia
Nel salone circolare, all’ingresso del padiglione ai Giardini, Nil Yalter, artista turca nata al Cairo, ricostruisce una Topak Ev, una tipica tenda della comunità nomade Bektik dell’Anatolia Centrale, struttura rivestita di feltro e decorata con pelli di pecora, lavorate con scritte e inserti di altri materiali tessili.
“I Bektik della steppa anatolica dicono che la tenda rotonda sia ‘una casa delle donne’ “: la scelta da parte dell’artista di riproporre quest’opera, una tenda che veniva costruita dalle future spose, porta l’attenzione sulle ricerche artistiche esplorate da Nil Yalter: le tematiche di genere e la liberazione sessuale femminile intrecciate ai temi della migrazione. Le pareti avvolgenti della sala riportano l’installazione ‘Exile is a Hard Job‘, una narrazione del tema dell’esilio testimoniata dal punto di vista femminile.
A Nil Yalter è stato riconosciuto il Leone d’oro alla carriera per il proprio significativo percorso artistico in relazione al tema della Biennale di Adriano Pedrosa,
Mataaho Collective (Nuova Zelanda, 2012), Takapau, 2024, Arsenale, 60ª Biennale di Venezia
All’ingresso delle Corderie dell’Arsenale si viene accolti da un’ installazione architettonica, come una grande culla, realizzata da un collettivo di donne maori. Il complesso intreccio di nastri bicromi propone, in grande scala, la tecnica per la realizzazione del ‘takapau’, una stuoia tessuta finemente e utilizzata per la cerimonia del parto.
La nascita, come rito di passaggio dal buio alla luce, viene evocata dal disegno della tessitura, bianco e grigio, e dai diversi giochi di luce e ombra che le trame riflettono nello spazio; uno spazio in cui si percepisce il benessere di una tenda protettiva e accogliente,
Al Collettivo Maori Mataaho è stato riconosciuto il Leono d’Oro assegnato al miglior artista partecipante.
Kiluanji Kia Henda (Angola, 1979), A Espiral do Medo, 2024, Arsenale, 60ª Biennale di Venezia
All’iniziale piacevole effetto decorativo, dato dai diversi disegni delle ringhiere metalliche e dai loro riflessi, segue una sensazione di esclusione dalla ‘Spirale della paura’, una gabbia allestita per difesa da un pericolo imminente.
L’artista angolano Kiluanji Kia Henda ha raccolto questi pezzi di griglie dalla sua terra creando una struttura precaria, uno spazio incerto, denunciando il prevalere di una funzione di chiusura e, conseguentemente di rifiuto dello ‘straniero’, perdendo così, la dimora, qualsiasi riferimento all’accoglienza.
Daniel Otero Torres (Colombia, 1985), Lluvia, 2024, Arsenale, 60ª Biennale di Venezia
Lo scheletro di una palafitta, posticcia, che regge recipienti e materiali di scarto, riciclati, immersa in una vasca d’acqua, ricostruisce un’abitazione della comunità Emberà, edificate lungo le rive del fiume Atrato, in Colombia. Il modello proposto da Daniel Otero Torres, racconta la difficoltà, di queste comunità emarginate, nel sopravvivere ai problemi di precarietà abitativa e di carenza di acqua potabile; infatti, pur disponendo la zona di molta acqua, la gran quantità di inquinamento dovuto all’estrazione dell’oro, ne pregiudica la potabilità.
L’ingegnoso sistema di purificazione del ciclo dell’acqua, ricostruito qui simbolicamente, vuole essere una denuncia delle gravi conseguenze sull’abitare dei processi di privatizzazione della natura.
Antonio Jose Guzman (Panama, 1971) & Iva Jankovic (Serbia, 1979), Orbital Mechanics, from the Electric Dub Station series, 2024, Arsenale, 60ª Biennale di Venezia
Tutti noi da bambini abbiamo costruito una capanna/tenda con lenzuola e panni vari per gioco, per creare un nostro spazio sicuro, per sentirci protetti e cullati. Non so perché ma percorrere questa grande tenda/architettura che si incontra all’Arsenale, costruita con raffinate tele tinte con l’indaco, dentro cui si diffonde un ‘tessuto’ sonoro dato dall’intreccio di ritmi senegalesi e timbri elettronici, ha fatto riemergere pezzetti di memoria dei miei giochi infantili.
Il complesso lavoro di Antonio Jose Guzman e Iva Jankovic scava nella storia coloniale e dello schiavismo africano, utilizzando il colore indaco, di origine vegetale, proprio dei tessuti sacri, come simbolo della migrazione nelle Americhe; infatti, gli schiavi africani portarono e diffusero la coltivazione di questa pianta nelle terre in cui furono deportati.
Per realizzare i tessuti dell’installazione gli artisti hanno utilizzato tecniche di tintura antichissime e i disegni scelti creano trame geometriche molto suggestive; tra i segni tessuti emblematici sono le ritmiche tracce di sequenze di DNA, impronta di un ricco patrimonio umano di esistenze dato dall’ intreccio di etnie conseguenti alle migrazioni.
‘Safe-space’ è anche quello cercato dalle giovani persone queer, ‘estranee’ troppo spesso all’interno della propria casa e della propria famiglia, in una cultura eteronormata, cultura che impedisce di vivere un sereno percorso di autoaffermazione, coerente alla propria identità di genere e al proprio orientamento sessuale.
L’occhio curioso del giovane volto è lo sguardo profondo della giovane artista del Singapore, Charmaine Poh che, nei video presentati all’Arsenale, narra con estrema poesia e delicatezza, momenti di vita desiderati ed immaginati da tre giovani queer, in un contesto domestico, accogliente e sicuro.
Kin, an imaginary safe space for queer life in Singapore, è una creazione suggestiva che mette in luce le complesse tematiche vissute dalle persone queer, la cui invisibilità inizia ad essere scalfita dalle giovani generazioni; in questa Biennale, Adriano Pedrosa dà voce a molte esperienze di artisti della galassia LGBT+, persone che per la loro condizione di minoranza hanno spesso vissuto come “straniere” nel proprio stesso mondo.
Elmear Walshe (Irlanda, 1992), Romantic Ireland, 2024, Padiglione dell’Irlanda, Arsenale, 60ª Biennale di Venezia
La giovane artista queer irlandese Elmear Walshe, nell’installazione multidisciplinare all’Arsenale, intreccia storie della propria terra legate al tema dell’abitare, sia da un punto di vista storico/politico che personale; in Romantic Ireland allestisce video con performers, mascherati con terra argillosa, risorsa prima per le costruzioni delle case storiche, sulle note di un’opera che narra un episodio di sfratto, ‘attori’ che si muovono tra muri in argilla di un’abitazione in rovina.
L’episodio di sfratto di un anziano che si vede costretto a lasciare tutto quello che per lui era la vita, è motivo di riflessione sulla disparità di potere nella gestione delle terre, eredità di rapporti ‘coloniali’ tra proprietari e abitanti.
Rapporti di potere che impediscono la fruizione di uno spazio sicuro, come dovrebbe essere considerata la propria casa. Emblematica a riguardo è la stesura/copertura della propria pelle con la terra cruda, estremo bisogno di dare al corpo un tessuto protettivo sicuro, un rifugio abitativo.
Moufouli Bello (Benin, 1987), Ashe, 2024, Padiglione del Benin, Arsenale, 60ª Biennale di Venezia
‘Ashe‘ è il titolo del grande guscio che si erge al centro dell’interessante Padiglione del Benin, ‘Everything precious is fragile’: è una capanna realizzata con taniche di plastica sovrapposte, sulle cui facce interne si modellano maschere dalle fattezze umane.
L’artista del Benin, Moufouli Bello, celebra in quest’opera la saggezza del suo popolo, mettendo in luce le voci storicamente marginalizzate. Il nome ‘Ashe‘ significa ‘Così sia‘, ma anche potere ed energia e la scelta vuole sottolineare il valore spirituale attribuito allo spazio emisferico, “come fosse un convento”, dice l’artista stesso.
Le maschere evocano il popolo del Benin, le persone deportate come schiavi, le donne di ieri e di oggi, un passato ed un presente che si impone come storia per ricostruire un futuro: all’interno, basta alzare la testa e si vede la volta celeste, luogo abitato dagli antenati, lì nascosti per vegliare sul mondo. E il le sonorità indigene che si diffondono nella capanna austera trasmettono l’intensità e l’emozione di un rito sacro.
Sergey Maslov (Samara 1952, 2002), Baikonur 2, Padiglione del Kazakistan, 60ª Biennale di Venezia
Nel Padiglione del Kazakistan, collocato nel Museo Navale, viene elaborata con installazioni l’utopia di una terra promessa, narrata da sempre dai miti kazaki, sogno necessario per fuggire dalle apocalissi terrene di una terra soggetta a continue dominazioni e devastazioni ecologiche. Attraverso visioni futuristiche, tra le opere esposte, quella di Sergey Maslov, artista non più vivente, mette al centro la ‘yurta’, una tenda dei popoli nomadi, nella ricerca di una relazione tra umanità e cosmo, combinando la tenda con astronavi spaziali, sognando una coabitazione tra popoli diversi e molto distanti tra loro.
La tenda della tradizione nomade diviene modello di un profondo desiderio di armonia e di pace.
Toyin Ojih Odutola (Nigeria, 1985), Ilé Oriaku (Casa dell’abbondanza), 2024, Padiglione della Nigera, 60ª Biennale di Venezia
E’ valsa la pena perdersi tra le calli di Venezia per arrivare al Padiglione della Nigeria, un insieme di decisamente interessante di voci di artisti africani, molti residenti altrove, come Toyin Ojih Odutola, artista ora residente negli Stati Uniti.
La sala allestita con i dipinti di Toyin Ojih Odutola, è stata concepita come la ricreazione della sala quadrangolare delle ‘Mbari House’ nigeriane, case rituali del sud-est della Nigeria, distrutte in seguito alla guerra civile degli anni Sessanta/Settanta, eredità della violenza coloniale e postcoloniale.
La casa era luogo in cui si celebravano riti propiziatori per placare le divinità, in particolare Ala, la dea della terra; la casa era adornata da statue scolpite nel fango o dipinte alle pareti, ora del tutto perse. Nelle notti di luna piena, si raccontava, gli spiriti inquieti si esibivano in performance che raccontavano storie dell’immaginario nigeriano.
L’artista parte dalla memoria storica, dal folklore e dalla mitologia della sua terra per recuperare, dalla forza della tradizione, la potenza creativa che può essere motore di rigenerazione per la Nigeria postcoloniale. Quindi la ‘Mbari House’, rivisitata, può divenire luogo di incontro e dialogo tra persone che, liberando la propria capacità progettuale, possono attraverso l’arte ricostruire un senso di comunità.
Le parti di figure, prevalentemente femminili e di colore, dipinte dall’artista nigeriana sono quasi scolpite con il colore, steso con decisione e grande sapienza per superfici luminose e contrapposte. Corpi che si intrecciano con l’architettura e la natura come frammenti colorati di un immaginario ricco di scorci inconsueti; l’artista definisce le sue figure come vulnerabili, ma dignitose, forti e, nello stesso tempo, fragili. Si respira il desiderio di far parte di un ambiente domestico/sacro sicuro.
(Testo di Ivetta Galli, foto e video, dove non specificato, di Ivetta Galli, Aldo Mazzolini e Flavio Mazzolini)
Juliette Zelime alias Jadez (Seychelles, 1984), Pala, Padiglione della Repubblica delle Seychelles, Arsenale, 60ª Biennale di Venezia
Fili che disegnano traiettorie di collegamento, reti di percorsi, fili che costruiscono mappe e che si aggrovigliano in labirinti; fili che inseguono il fluire del tempo delle persone in viaggio, che si intrecciano in nodi più o meno stabili; fili che a volte si spezzano e a volte si ricongiungono.
Numerose sono le opere, provenienti da diversi luoghi del mondo, disegnate con fili su tessuti; l’impatto visivo e la densità di significati che riescono a narrare sono sorprendenti.
Vlatka Horvat (Croazia, 1974), By the Means at Hand, Padiglione della Croazia, 60ª Biennale di Venezia
Questo umile lavoro esposto nel Padiglione della Croazia, un gioiellino perso tra le calli veneziane, condensa molti significati, tanto da essere scelto, da me, per aprire questa ‘maratona tematica’ tra sedi della Biennale e Padiglioni,
L’immagine illustra il progetto dell’artista croata Vlatka Horvat, cioè una raccolta e uno scambio di opere, tra artisti che vivono in una condizione di diaspora in diversi paesi, che vengono spedite in viaggio attraverso corrieri e mezzi improvvisati, con l’obiettivo di costruire legami di fiducia, di solidarietà e di sostegno reciproco,
Nello stesso tempo il disegno può evocare il significato della parola della tradizione giapponese, ‘musubi’, secondo cui la vita, lo scorrere del tempo, i rapporti e i ‘legami’ tra le persone sono come un intreccio di fili invisibili, figura ricorrente nell’immaginario di molti artisti nomadi e pone l’attenzione su di una tecnica utilizzata in molti lavori della Biennale, non a caso, in relazione al tema di fondo proposto dal curatore e alle vite ‘diasporiche’ dei protagonisti.
Percorrendo l’Arsenale si incontrano interventi artistici coerenti a queste tematiche, ‘mappe’ di mondi fissate nel tessuto, spesso realizzate con pratiche di lavoro collettivo, particolarmente suggestive per lo sguardo colorato di voglia di riscatto, in una prospettiva di dialogo, di pace e di costruzione di un’appartenenza, ovunque si sia.
Bouchra Khalili (Casablanca, 1975), The Mapping Journey Project, 2008-11 e Sea Drift, 2024, Arsenale, 60ª Biennale di Venezia
Le rotte migratorie che dall’Africa si dirigono verso le isole Canarie, restituite con un ricamo di filo luminoso su di un lino naturale blu profondo, assieme a otto silografie ‘Constellations series‘, disegnate da Bouchra Kalili, completano il progetto dell’artista illustrato su otto schermi di una grande videoinstallazione all’Arsenale, in cui vengono narrate e segnate le vie percorse dagli stessi migranti, dall’Africa e dall’Asia. Migranti in viaggio, erranti, come i pianeti, tra le stelle.
Bouchra Khalili (Casablanca, 1975), Constellations Series, 2024, Arsenale, 60ª Biennale di Venezia
La trasfigurazione poetica delle tracce dei viaggi delle persone che fuggono dalla propria terra, affrontano esperienze di pericolo e profonda sofferenza alla ricerca di una vita più desiderabile, diviene quasi una necessità per reinventare alternative alla disperazione; le linee ricamate e le linee ideali delle costellazioni tracciano un paesaggio sognato, senza confini e senza barriere geopolitiche.
Dana Avartani (Palestina, 1985), Vieni, lascia che guarisca le tue ferite, lascia che ripari le tue ossa rotte, 2024, Arsenale, 60ª Biennale di Venezia
Dana Avartani, artista palestinese-saudita, ha lacerato le lunghe pezze di seta stese nel salone dell’Arsenale, poi le ha rammendate, rattoppandone i buchi, con fili dello stesso colore, ottenuto da tinte naturali tratte da spezie orientali, erbe utilizzate anche per guarire, con un gesto di cura; cura delle ferite causate della violenza della guerra e dalle occupazioni devastanti della sua terra natale.
Dana Avartani utilizza il filo e il cucito in un gesto rituale che ‘delicatamente urla’ un messaggio di pace, in questi giorni particolarmente necessario anche per la distruzione dei territori della Palestina e non solo.
Shalom Kufakwatenzi (Zimbabwe, 1995), Under the Sea, 2023, Arsenale, 60ª Biennale di Venezia
Tra gli spazi dell’Arsenale si incontra la giovane artista dello Zimbabwe, Shalom Kufakwatenzi, che predilige la realizzazione di opere tessili con le quali dipinge suggestivi quadri di ‘paesaggio’; la lavorazione con fili di lana, tela di juta, spago, lenza da pesca, materiali malleabili e trasformabili, le permette di sperimentare un processo di creazione affine alla fluidità della propria identità di genere, non binaria.
L’artista crea mondi fantastici, mappe di un mondo fiabesco, contemporaneamente affascinanti, per le forme e le tinte vivaci, come inquietanti, per le pieghe scure e profonde che le delimitano; inquietudine che vuole essere denuncia del proprio senso di estraneità, rispetto agli stereotipi di genere, così come ‘allarme’ rispetto le tematiche ambientali e sociali.
Claudia Alarcόn & Silӓr (Argentina, 1989), Ottobre e Donne, una volta stelle, 2023, Arsenale, 60ª Biennale di Venezia
La giovane artista della comunità indigena argentina Wichi, Claudia Alarcόn, ha recuperato la tecnica della tessitura tradizionale, che utilizza il filato ottenuto dalla pianta locale del ‘chaguar’, per valorizzare la memoria collettiva e la creatività del proprio popolo.
In questo progetto ha coinvolto alcune donne tessitrici, creando il gruppo ‘Silӓr‘, per la realizzazione collettiva di delicati e preziosi arazzi, alcuni ora esposti all’Arsenale, attuando una pratica che permette di comunicare sogni, intuizioni, pensieri e trasmettere i racconti degli anziani, un modo per costruire tra generazioni un proficuo dialogo ‘non verbale’.
Güneş Terkol (Turchia, 1981), A song to the world (part.) 2024, Arsenale, 60ª Biennale di Venezia
Il particolare dell’opera dell’artista turca Güneş Terkol è tratto dall’arazzo/striscione, lavoro di cucito e di patchwork di stoffe, che è stato realizzato assieme a due collettivi di donne di Venezia, impegnate sulle tematiche femministe e di genere.
La pratica di Güneş Terkol, oltre a coinvolgere direttamente le donne e le loro storie nella tessitura delle opere, prevede momenti di performance, in cui gli striscioni vengono portati per le vie della città in cui sono stati realizzati; in questo caso, per le calli di Venezia, fino ad arrivare all’Arsenale, dove ora è esposto. Come in altre esperienze incontrate nel percorso, l’opera prende vita grazie ad una rete di persone che si raccontano e la costruiscono collettivamente, conferendo alla stessa una forte valenza sociale e politica oltreché artistica.
Bordadoras de Isla Negra (Cile 1967-80), Untitled, 1972, Arsenale, 60ª Biennale di Venezia
Arpilleristas, artiste cilene ignote, Untitled, anni Ottanta, Arsenale, 60ª Biennale di Venezia
Questi vivaci lavori tessili, che provengono dal Cile, esposti all’Arsenale, sono stati realizzati da gruppi di donne in due momenti diversi della storia politica del Paese: le Bordadoras hanno ricamato con fili di lana di colori brillanti, con tecniche tramandate dalle donne anziane, paesaggi e abitanti di una zona costiera del Cile, negli anni del governo popolare di Allende; le Arpilleristas hanno cucito stoffe colorate e tele di juta, dando rilievo alle superfici con interventi ad uncinetto, durante la dittatura di Pinochet.
Il linguaggio artistico delle opere riflette un’estetica caratteristica dei popoli indigeni, affine ad uno sguardo infantile, linguaggio che nel Novecento spesso è stato rielaborato dalle avanguardie artistiche occidentali.
Mentre il paesaggio di Isla Negra si dipana in un racconto vivace, che procede dal mare alle Ande, celebrando una vita serena ed impegnata in varie attività quotidiane in cui il popolo è protagonista, i tessuti delle Arpilleristas, pur restituendo un simile contesto culturale, divengono manifesti della resistenza delle donne cilene all’oppressione della cultura patriarcale e alla dittatura di Pinochet. Infatti le donne, attraverso alcuni inserti tra le immagini ricamate, lanciavano messaggi di critica al governo e richiesta di aiuto per il proprio sostentamento, al punto che molte furono perseguitate per questa attività.
WangShui (USA, 1986), Weak Pearl, 2024, Arsenale, 60ª Biennale di Venezia
Fili e reti possono essere tessuti anche utilizzando tecnologie più avanzate, come nell’installazione immersiva e sonora all’Arsenale dell’artista americano WangShui.
La rete è data da una membrana intrecciata di punti luce LED cangianti, in movimento grazie a una complessa tecnologia che sfrutta l’intelligenza artificiale, con sensori che si attivano in presenza delle persone, proponendo un’esperienza interattiva avvolgente ed emozionante .
Il titolo dell’opera ‘Perla debole’, rivela la fragilità, pur nella complessità della realizzazione, della videoscultura a rete, mutevole, smaterializzata, immersa in un paesaggio sonoro, immagine della ricerca artistica di WangShui; la sua pratica è volta ad indagare i principi di metamorfosi e trasformazione propri della natura biologica, per riflettere anche sulle questioni di identità di genere ed utilizza la tecnologia più avanzata quale medium per comunicare concetti di fluidità e libertà.
Katya Buchatska (Kiev, 1987), Saluti sinceri, 2024, Padiglione dell’Ucraina, Arsenale, 60ª Biennale di Venezia
‘Net making‘ è il titolo scelto dai curatori del Padiglione dell’Ucraina, all’Arsenale; ‘la tessitura’, metafora della costruzione di una rete tra le persone per resistere in un contesto di guerra, è anche possibilità di attivare un’azione collettiva, orizzontale e autogestita per sperimentare processi di unificazione e di dialogo.
All’interno di questo progetto, Katya Buchatska, per realizzare ‘Saluti sinceri’ ha coinvolto 15 artisti che hanno ricamato, con colori vivaci e andamenti liberi e gioiosi, frasi di augurio, da un lato, e tanti cuori stretti tra loro, dall’altro: urgente desiderio di amore e messaggio di pace in un contesto di conflitto molto violento.
Aziza Kadyri (Mosca, 1994), Don’t Miss the Cue, 2024, Padiglione dell’Uzbekistan, 60ª Biennale di Venezia
Tra gli ultimi Padiglioni dell’Arsenale, quello dell’Uzbekistan ci accoglie in un ambiente suggestivo improntato sulle tonalità di un incantevole blu-indaco, colore che pervade lo spazio uzbeko, dalle decorazioni architettoniche, alle cupole delle moschee, ai disegni sulle ceramiche ai costumi femminili o le giacche maschili, e in genere ai tessuti indossati nella quotidianità.
Il Padiglione è stato allestito dalla giovane artista della diaspora uzbeka, Aziza Kadyri, nata a Mosca, cresciuta in Cina, che attualmente si sposta tra Londra e l’Uzbekistan, Aziza Kadyri proietta nelle proprie opere la difficoltà a connettersi con le sue radici e per realizzare il progetto ‘Don’t Miss the Cut’ ha coinvolto un collettivo di donne, con le quali si è confrontata sul tema della memoria, storica e visiva e dell’identità.
La sua ricerca artistica (prima foto) parte dal ‘suzani,’ il ricamo fatto a mano nella tradizione dell’Asia Centrale, miniera di storie, di miti e racconti non scritti, e con l’utilizzo di un programma di intelligenza artificiale, rigenera, nei video accostati, figure e forme del ricco patrimonio della memoria collettiva uzbeka.
Le foto successive sono pezze cucite e ricamate di una coinvolgente scenografia in cui, inconsapevolmente, ci troviamo ad essere attori e spettatori in un gioco spiazzante di riflessi tra osservatori e osservati.
Aziza Kadyri (Mosca, 1994), Don’t Miss the Cue, 2024, Padiglione dell’Uzbekistan, 60ª Biennale di Venezia
Olga De Amaral (Colombia, 1932), Muro tejido terruño, 1969, Giardini, 60ª Biennale di Venezia
Il percorso tematico prosegue ai Giardini dove, con l’ artista colombiana, Olga De Amaral, oggi novantenne, abbiamo una testimonianza delle radici storiche della ‘Fiber Art’ forma artistica che trova legittimazione nel secolo scorso. L’opera di scultura tessile di Olga De Amaral richiama antiche tecniche di lavorazione dei tessuti inca; il rilievo creato con raggruppamenti e nodi dei fili di lana, intreccia una elegante sequenza ritmica sia per le forme che per le tinte accostate, variazioni delle ricche tonalità naturali della terra. Un inno alla natura e al potenziale creativo del medium!
Kang Seung Lee (Corea, 1978), Untitled (Costellation), 2024, installazione, Giardini, 60ª Biennale di Venezia
“Il destino del seme della terra è mettere radici tra le stelle”, è il poetico messaggio ricamato con un prezioso filo d’oro da Kang Seung Lee, artista coreano, su di una tela grezza, tra le numerose piccole creazioni che compongono la sua installazione, presentata in una sala dell’edificio ai Giardini.
Fili, tessuti, bottoni, fotografie, piume, spighe di grano, pannelli di legno e molto altro ancora, oggetti colti da una domestica quotidianità, intreccio di sguardi femminili e maschili, costituiscono la materia prima delle raffinate micro-creazioni, parte dell’intervento ‘Costellation‘, volto a rendere omaggio ad alcuni artisti deceduti a causa dell’AIDS.
Un percorso pensato per restituire uno spazio di dignità e di riconoscimento ad alcune figure dell’arte della galassia queer, marginalizzate dalla storia ufficiale e qui pienamente riscattate.
Liz Collins (Usa, 1968), Rainbow Mountains Weather, 2024, Giardini, 60ª Biennale di Venezia
“Fantasia di un’utopia queer che è appena fuori portata“, è la descrizione che l’artista ci regala dei due grandi arazzi esposti ai Giardini, paesaggi da cui si sprigiona una forte energia coivolgente, segnalandoci quanto sia dirompente e rivoluzionaria, oggi, la tematica sugli orientamenti sessuali e le identità di genere.
Le fiammate dei colori degli arcobaleni tessuti su di un cielo nero, tra astri inquietanti, cercano una propria affermazione in un contesto di conflitti che ancora frenano il pieno riconoscimento di tutte le esistenze,
Kapwani Kiwanga (Canada, 1978), Trinket e Impiraresse 2024, Padiglione del Canada, Giardini, 60ª Biennale di Venezia
Nel Padiglione del Canada, ai Giardini, il filo diventa il supporto su cui vengono infilate circa 7 milioni di perline di vetro, di vari colori, realizzando leggeri tendaggi che rivestono sia internamente che esternamente l’architettura del padiglione.
Il progetto “Trinket“, gioiello, viene concepita dall’artista franco-canadese Kapwani Kiwanga, di origini della Tanzania, oggi residente a Parigi, la cui biografia è rappresentativa dei complessi percorsi di vita degli artisti selezionati per questa Biennale.
Le perline di vetro, prodotte dagli artigiani a Venezia dal 1400 alla metà del ‘900, sono state esportate in Africa, America e India, come merce barattata con risorse molto più preziose, anche con schiavi, sfruttando l’alto valore attribuito dalle popolazioni extraeuropee a queste piccole sfere di vetro colorato.
L’artista ha portato alla luce questa modalità, tra le tante, di rapina di risorse dei popoli colonizzati, denunciandone il meccanismo attraverso una rielaborazione artistica di grande valore estetico e poetico; il colore cangiante dei drappi alle pareti annulla l’architettura del padiglione, creando uno spazio suggestivo e accogliente.
All’esterno è teso un grande tendaggio realizzato con file di perline blu, “Impiraresse“, definito con il nome delle donne incaricate di infilare le sferette di vetro, omaggio dunque alle artigiane costrette ad eseguire quel lungo lavoro ripetitivo.
Jaffrey Gibson (USA, 1972), If there is no struggle there is no progress, We wold these truths to be self-evident, 2024, Padiglione degli Stati Uniti, Giardini, 60ª Biennale di Venezia
Di perline e fili e nastri colorati è pervaso il Padiglione degli Stati Uniti, ai Giardini, ‘The Space in which to place me’, dove note caleidoscopiche di colori squillanti rivestono le pareti, le sculture, i quadri e i video creati da Jaffrey Gibson, artista statunitense di origini Cherokee.
Emblematico è il titolo della prima scultura a forma di piccolo uccello/papera ‘Senza lotta non c’è progresso‘, per ricordare quanto sia necessario non dare per scontati i diritti acquisiti, ma anche quanto la storia e la resistenza dei propri antenati sia parte integrante del presente e del futuro.
Jaffrey Gibson (USA, 1972), The obligation of honor of a powerful nation, We want to be free, 2024, Padiglione degli Stati Uniti, Giardini, 60ª Biennale di Venezia
Gibson intreccia materiali e linguaggi della tradizione del sud-est statunitense, zona dei suoi antenati Choctaw e Cherokee, con tecniche e forme della cultura artistica contemporanea, (come non pensare ai lavori di Boetti?), inserendo testi significativi tra le trame geometriche dipinte, che evocano motivi decorativi indigeni.
Il profilo dell’indiano nel cammeo, disegnato con perline cucite, come le tende dei popoli indigeni, alternate alla bandiera americana, inserti raffinati di gusto folkloristico, così come la scritta ricamata che cita la legge ‘Indian Citizenship Act‘ del 1924, testo che garantisce i diritti primari alle popolazioni indigene, riportano la nostra attenzione oltre il suggestivo impatto estetico, facendoci recuperare frammenti di storia sottaciuta e confinata ‘nelle riserve’.
Jaffrey Gibson (USA, 1972), Every boby is sacred, powerful because we’re different, 2024, Padiglione degli Stati Uniti, Giardini, 60ª Biennale di Venezia
Nei lavori di Gibson si coglie anche una ricerca volta a scardinare gli stereotipi legati alle questioni di genere, tematica a lui cara, in quanto persona omosessuale: l’inserimento in molte opere dei colori dell’arcobaleno, tra le tinte squillanti e psichedeliche, come le scritte nelle due opere sopra riportate, documentano il suo impegno per il riconoscimento delle diverse e possibili identità sessuali.
All’interno del Padiglione si è contagiati dall’energia positiva e dalla gioia che l’artista comunica con il proprio lavoro, invito coinvolgente volto a dare voce e celebrare le comunità di nativi che, pur se emarginate nella storia americana, hanno mantenuto una profonda cultura e dignità. Il coinvolgimento emotivo si accentua avvicinandosi alle ritmiche sonorità del video, alla fine del percorso.
Jaffrey Gibson (USA, 1972), She never dances alone, 2024, parte del video del Padiglione degli Stati Uniti, Giardini, 60ª Biennale di Venezia Glicéria Tupinambà (Brasile, 1982), Okarà Assojaba 2024, Padiglione del Brasile, Giardini, 60ª Biennale di Venezia
Glicéria Tupinambà, artista leader indigena del popolo amazzonico dei Tupinambà, popolo per secoli perseguitato e decimato violentemente, nel Padiglione del Brasile ai Giardini volge la propria pratica artistica alla valorizzazione della capacità di resistenza delle comunità indigene impegnate nella ‘rinascita’ delle foreste disboscate.
Recupera come materia prima le reti da pesca locali e le piume di uccelli della foresta, per ricostruire, nell’installazione ‘ Okarà Assojaba‘, l’assemblea degli anziani, in ascolto e dialogo, attorno alla figura leader, che veste il mantello caratteristico della comunità, dal valore rituale e spirituale, mantello realizzato con tecniche di tessitura tradizionali.
Ziel Tupinambà (Brasile, 1994), Cardume, 2024, Padiglione del Brasile, Giardini, 60ª Biennale di Venezia
Anche Ziel Tupinambà ricostruisce nel Padiglione del Brasile un’installazione che vuole celebrare la vita della popolazione amazzonica, immergendo i simboli della propria cultura e storia in un paesaggio sonoro che mescola, al rumore dei fiumi e ai canti tradizionali, i violenti colpi degli spari d’arma da fuoco.
Sotto ampie ‘volte’ di reti da pesca, che rappresentano le correnti dei fiumi abitate dai pesci, risorsa fondamentale, si affrontano colorate e gioiose maracas e pericolosi proiettili, in racconto visivo carico di significato simbolico per la propria esistenza.
Rashad Alakbarov (Azerbaigian, 1979), I Am Here, 2024, Padiglione dell’Azerbaigian, 60ª Biennale di Venezia
Uscendo dalle sedi della Biennale si trovano Padiglioni che, con opere interessanti. continuano a tessere motivi coerenti al nostro percorso.
Con ritagli di caratteristici tappeti azeri, come copertura di bianchi blocchi labirintici, Rashad Alakbarov compone la scritta ‘I am here‘, immagine catturata da uno specchio convesso collocato nell’angolo alto, tra le pareti di uno spazio claustrofobico.
Siamo nel Padiglione dell’Azerbaigian, dove, tra le varie installazioni, quella di Rashad Alakbarov utilizza frammenti di decorati tappeti tradizionali per comunicare il bisogno di trovare un proprio ‘luogo’, una propria identità; il messaggio viene riflesso nel nostro rispecchiamento, immergendoci in una sensazione di spaesamento e contemporaneamente di piacevole sorpresa.
Guy Woueté (Camerun, 1980), Posséder deposséder, 2024, Padiglione del Camerun, 60ª Biennale di Venezia
Nel Padiglione del Camerun, allestito nel Palazzo Donà delle Rose, l’artista Guy Woueté presenta alcuni lavori sui temi della colonizzazione, della migrazione e della diaspora; tra le sue creazioni, il tessuto di tela appeso, lavorato con piccole e regolari pezze cucite come una griglia, come frammenti di terra imprigionati, dalle evocative tinte naturali, viene ricamato da queste frasi:
NON RIESCO A RESPIRARE (in verticale)
SE SIAMO ORGANIZZATI, SE LOTTIAMO, POSSIAMO VINCERE E RESPIRARE
Dalla scritta, appena percettibile, germogliano fili neri, quasi capelli, che cadono aggrovigliandosi, come una cascata di lacrime.
La drammatica forza espressiva di questo lavoro condensa tutta la sofferenza e la determinazione, sia personale che di un popolo, nella ricerca di liberazione dalle gabbie di schiavitù e di dipendenza vissute nei secoli della colonizzazione gabbie che ancora oggi condizionano pesantemente la loro esistenza.
(Testo di Ivetta Galli, foto e video, dove non specificato, di Ivetta Galli, Aldo Mazzolini e Flavio Mazzolini)
Claire Fontaine,Foreigners Everywhere, 2024, Arsenale, 60ª Biennale di Venezia
“… noi siamo coesi, ci contagiamo a vicenda. Le nostre azioni sono le gomme che cancellano i confini, e riscriviamo il presente con il nostro affetto. Siamo il futuro…. Forse, e dico forse, il futuro appartiene ai meticci, ai bastardi” (Saif ur Relman Raia, Hijra (trad. Frocio), Fandango Libri, 2024)
Le parole di Saif, giovane autore pakistano, tratta dal suo racconto autobiografico, può essere una delle chiavi di lettura di “FOREIGNERS EVERYWHERE”, 60ª Biennale di Venezia, in cui lo sguardo del curatore, Adriano Pedrosa, ci offre le forme, i segni, le voci, i rumori e i colori dell’”altro”, dello straniero, ovunque esso sia, anche quello che abita dentro di noi.
Le prospettive e i punti di vista spesso inconsueti, come le tecniche di rappresentazione proprie delle culture marginali, intrecciate ai medium contemporanei, sollecitano l’esplorazione di mondi ed esperienze poco conosciuti, che possiamo comprendere ed apprezzare con uno sguardo ‘innocente’, integrando e superando i nostri schemi di interpretazione “occidentalicentrici”.
Dobbiamo farci prendere per mano dall’astronauta nomade di Shonibare che, all’ingresso delle Corderie dell’Arsenale, carico di un pesante ‘ kit’ per la sopravvivenza alle crisi ecologiche ed umanitarie e coperto da una tuta di tessuto africano, si dirige all’interno tra gli spazi creati dagli artisti alla ricerca di nuovi mondi possibili.
Yinka Shonibare (Londra, 1962), Refugee Astronaut, Arsenale, 60ª Biennale di Venezia
Dalle periferie del pianeta arrivano immagini affascinanti di mondi reinventati, luoghi di vita gioiosa, desiderata, costruiti sulle macerie di una storia di oppressione e di dipendenza coloniale. Sono disegni di luoghi in cui si intreccia l’ambiente naturale e la vita delle persone, la narrazione dei miti, con una comune passione per il segno deciso, la semplificazione delle figure e delle forme e l’uso di tinte vivaci, squillanti, stese con campiture piatte, in prospettive ribaltate, mondi rappresentati con varie tecniche artistiche, dipinti su muro, quadri su tela e anche ‘arazzi’, con fili intrecciati di origine animale o vegetale e pezze di stoffe cucite.
MAHKU (Artisti Brasiliani Huni Kuin, dal 2013), Storia di Kapewë pukeni.(Ponte alligatore), 2024, Giardini, 60ª Biennale di Venezia
Tracciare percorsi di lettura all’interno della complessa visione dell’arte della contemporaneità, nutrita di storia e di antropologia, è un’impresa che mi ha coinvolto con passione; sono curiosa di cogliere le visioni articolate, ma nello stesso tempo comuni o parallele, raccontate dagli artisti dell’oggi, da qualsiasi luogo, origine e cultura provengano, alla ricerca di quel minimo-comune-denominatore che ci riconosce come umanità in viaggio sul pianeta terra nel 2024.
Dalle sedi della Biennale, Giardini e Arsenale, e dai Padiglioni diffusi nella città , mi sembra di poter cogliere alcune figure e forme che si ripropongono frequentemente, immagini sedimentate in un immaginario collettivo contemporaneo, segni/sogni carichi di senso, che prefigurano possibili e creative vie di uscita dalle tragedie dell’oggi.
Riassumo queste sollecitazioni in quattro categorie, definite dalle seguenti parole-chiave, anche se frequentemente tali figure ‘migrano’ tra di loro:
FILI – TRAME – MAPPE – MONDI
CAPANNA – ‘SAFE-SPACE’
CORPI – VOLTI
ACQUA – TERRA – FANGO – ARGILLA
(Testo di Ivetta Galli, foto di Ivetta Galli, Aldo Mazzolini e Flavio Mazzolini)
Yuki Kihara, Fonofono o le nuanua: Patches of the rainbow (After Gauguin), 2020. Fotografia tableau, parte del progetto Pardise Camp, Padiglione della Nuova Zelanda, Arsenale, 59ª Biennale
Cecilia Alemani ha dichiarato, presentando la sua Biennale lo scorso anno, di volere dare voce alle espressioni marginali e minoritarie nel mondo dell’arte e, dico io, nella vita; una sfida coraggiosa, ma necessaria, se l’obiettivo della sua proposta è fare emergere, dalla moltitudine dell’arte contemporanea, quei germogli di ricerca e percorsi innovativi che colgono temi e urgenze poste dalle giovani generazioni.
Tra i materiali esposti nella Mostra e nei Padiglioni Nazionali ho raccolto alcune opere intorno al tema all’identità di genere, al mondo no binary e queer, trovando molti spunti interessanti, sia tra le proposte di figure artistiche storiche del Novecento, che contemporanee: una presenza discreta, ma che si offre al mondo dell’arte con determinazione, a sottolineare quanto sia necessario conoscere e portare alla luce le unicità della natura umana.
Annodare immagini e messaggi in questo percorso non è stato facile. Ci sono vissuti, un tempo rimossi o sconosciuti, che oggi nelle giovani generazioni prendono forma e corpo; alcuni artisti ne diventano portavoce, protagonisti di una rivoluzione culturale e sociale che si fa travolgente, che va oltre i temi specifici della comunità LGBTAQ+, per abbracciare le voci tutte delle minoranze, in modo intersezionale.
– Claude Cahun (1894-1954), esponente della rivoluzione surrealista.
Tra le artiste che hanno alimentato le ricerche delle avanguardie storiche, emergono figure molto interessanti, le cui storie e identità, non sempre facilmente definibili, raccontano di esistenze non conformi ai generi.
Emblematica è la figura di Claude Cahun, pronome di Lucy Renée Mathilde Schwob, fotografa, scrittrice e performer, protagonista della stagione del Surrealismo in Francia, di origine ebrea e impegnata nella Resistenza Francese.
Claude Cahun (1894-1954), Autoritratto riflesso allo specchio, 1928 ca., fotografia Giardini 59ª Biennale
Claude Cahun (1894-1954),Self portrait, in robe with masks attached, 1928, fotografia Giardini 59ª Biennale
Dalle opere selezionate nel percorso espositivo ho tratto due immagini significative: Autoritratto riflesso allo specchio, scatto fotografico in cui Claude, guardandoci, sembra fuggire dalla propria immagine riflessa, per offrirci quella percepita, non conforme a generi strettamente binari; in Self portrait, in robe with masks attached si traveste da bambola, oggetto/stereotipo di uno sguardo maschile da cui vuole affrancarsi, celando, attraverso il gioco di maschere, il proprio sé.
Claude Cahun si lega sentimentalmente alla sorellastra, Marcel Moore, pronome di Suzanne Malherbe; con lei, rifugiatesi sull’isola di Jersey nel 1938 per fuggire alla persecuzione antisemita, intraprenderà una lotta di resistenza contro i Nazisti, che occuperanno l’isola nel 1940. Sfruttando metodi di provocazione surrealista, diffondono di nascosto sull’isola volantini contro gli occupanti, firmati “soldato senza nome”.
Scoperte e arrestate nel 1944, saranno salvate dalla pena capitale in seguito all’armistizio nel 1945.
Segnalo un omaggio alla “resistenza poetica ” delle due protagoniste: il cortometraggio di Astré Desrives: Héroïnes, (dal titolo di un’opera di Claude Cahun), proiettato al Sicilia Queer Filmfest 2023, anno di produzione dello stesso.
– Sguardi dalle giovani generazioni
Particolarmente interessanti sono due videoinstallazioni; la prima era allestita nel Padiglione della Romania ai Giardini, creata da Adina Pintilie (1980), You are another me. A cathedral of the body, 2022, l’altra, collocata nel percorso espositivo dell’Arsenale, di Eglé Budvytyté (1981), Song from the Compost: Mutating Bodies imploding Starts,
Adina Pintilie (1980), You Are Another Me. A Cathedral of the Body, 2022, frames da videoinstallazione a tre canali – Padiglione della Romania, Giardini, 59ª Biennale
Adina Pintilie, artista rumena, crea uno spazio safe, evocando una cattedrale contemporanea, con proiezioni multicanali, in cui possiamo esplorare il dialogo intimo e poetico vissuto all’interno di convivenze oltre il binarismo di genere: celebrazione del corpo e delle relazioni umane al di là di ogni preconcetto.
Eglé Budvytyté, artista lituana, ha realizzato un video poetico in cui dà forma alle teorie della biologa Lynn Margulis, (teorica dell’endosimbiosi: l’evoluzione è data dall’interazione e cooperazione tra organismi) e della filosofa Octavia Butler (apre al concetto d’identità di genere, svincolato dal sesso assegnato alla nascita).
Eglé Budvytyté (1981), Song from the Compost: Mutating Bodies imploding Starts, 2020, frame da videoinstallazione, Arsenale, 59ª Biennale
Le immagini che scorrono nel video ci conducono in un’ambientazione onirica, dove un gruppo di giovani persone si muovono tra le dune sabbiose e le foreste lituane, incarnando forme e gesti fortemente interconnesse con il mondo vegetale, animale e minerale/geologico.
La colonna sonora, e le parole che accompagnano le sequenze, evocano una profonda nostalgia per uno stato “primordiale” in cui la vita è germogliata da una simbiosi tra organismi di specie differenti; nello stesso tempo, le visioni, carche di poesia, sono create per scardinare i presupposti della cultura antropocentrica, causa delle attuali gravi alterazioni ambientali nel nostro pianeta, alla ricerca di una via d’uscita dalle stesse.
Eglé Budvytyté (1981), Song from the Compost: Mutating Bodies imploding Starts, 2020, frames da videoinstallazione, Arsenale, 59ª Biennale
A questi temi di natura ecologica si intrecciano riflessioni sul corpo e l’identità di genere.
E’ evidente quanto negli ultimi anni sia emerso, in particolare nel mondo giovanile e a livello planetario (la Biennale lo certifica), una nuova consapevolezza rispetto all’ identità sessuale. Ci piaccia, o ci crei disorientamento, il tema sottende un processo rivoluzionario inarrestabile, frutto di nuove acquisizioni teoriche, filosofiche, mediche, scientifiche che appartengono all’ evoluzione del pensiero e della conoscenza in merito alle questioni di genere.
L’immagine che propongo, potente a riguardo, sintetizza le questioni più dibattute e i vissuti più profondi che alcunǝ giovanǝ trans hanno portato alla luce, a volte anche con sofferenza: un corpo che non si riconosce come rappresentativo della propria identità sessuale (da cui la necessità di cancellare il seno) e il complesso tema della maternità/genitorialità che ne deriva.
Eglé Budvytyté (1981), Song from the Compost: Mutating Bodies imploding Starts, 2020, frames da videoinstallazione, Arsenale, 59ª B
La creazione del video di Egle Budvytyté nasce dall’esigenza di cercare nuove vie per costruire relazioni e mondi possibili, all’insegna dell’inclusione e del rispetto, al di là di ogni confine oggi ancora troppo definito e di stabilire una relazione con l’ambiente fondata sulla conoscenza e la collaborazione con tutte le specie viventi.
– Da Samoa, Yuki Kihara, artista Fa’afafine
Dell’universalità delle tematiche di genere è testimonianza il progetto del Padiglione della Nuova Zelanda, Paradise Camp, allestito in Arsenale dall’artista Yuki Kihara.
Yuki Kihara, progetto Pardise Camp, Padiglione della Nuova Zelanda, Arsenale, 59ª Biennale
Siamo dall’altra parte del mondo occidentale, su di un’isola “mitica” allo sguardo coloniale, l’isola di Samoa.
“Paradise Camp immagina l’utopia Fa’afafine che frantuma l’eteronormatività coloniale per aprire la strada ad una visione del mondo indigena, che sia più inclusiva e sensibile al cambiamento della natura” afferma Yuki Kihara.
La comunità Fa’afafine dell’isola di Samoa annovera persone indigene del “terzo genere”, cioè persone alla nascita uomini che si percepiscono donne, o con identità fluida; nella cultura dell’isola sono sempre state riconosciute parte integrante di tutta la comunità.
Il progetto trae spunto dall’iconografia di Gauguin, che, pur non avendo vissuto sull’isola di Samoa, aveva raccolto materiale fotografico e documenti anche dalla stessa, riproducendo in alcuni ritratti persone del terzo genere.
Yuki Kihara, progetto Pardise Camp, Padiglione della Nuova Zelanda, Arsenale, 59ª Biennale
Yuky Kihara elabora, con la tecnica fotografica, “tableau vivantes”, in cui da voce alla storia queer polinesiana, con l’obiettivo di decostruire i concetti di razza, genere, sessualità e geografia propri alla cultura coloniale.
Yuki Kihara, progetto Pardise Camp, Padiglione della Nuova Zelanda, Arsenale, 59ª Biennale
Accanto ai protagonisti, i colori sgargianti, i vestiti e i tessuti della tradizione locale, i paesaggi tropicali di fondo, che hanno subito pesanti devastazioni dallo tsunami nel 2009, sono gli ingredienti del linguaggio artistico di Kihara, volto a provocare una discussione sulle trasformazioni in atto in merito al cambiamento climatico, ai temi di genere e agli effetti delle colonizzazioni.
Disegni da simboli astratti della Grotta di La Pasiega (Spagna), attribuiti alla cultura dell’uomo di Neanderthal, 64000 anni fa. Simboli astratti dalla Grotta di Altamira, Paleolitico Superiore e Ruth Asawa, (1926-2013), Untitled, 1952 ca. – fil di ferro – Arsenale, 59ª Biennale di Venezia
“una foglia una zucca un guscio una rete una borsa una tracolla una bisaccia una bottiglia una pentola una scatola un contenitore“
Toshiko Takaezu (1922-2011), Vasi in ceramica, Arsenale, 59ª Biennale di Venezia.
Il percorso, proposto nella “IV capsula” della Biennale di Cecilia Alemani, parte da questa lista, intrigante.
La suggestione, attorno cui la curatrice ha raccolto opere del secolo scorso accanto ad altre contemporanee, nasce dal saggio della scrittrice di fantascienza Ursula K. La Guin, “The Carrier Bag Thoery of Fiction” (1986), a sua volta ispirata dalla tesi dell’antropologa Elisabeth Fischer, esposta in “Woman’s creation, Sexual Evolution and the Shaping of Society” ( 1980), volta a costruire una diversa narrazione sull’origine della cultura umana.
Questa narrazione è tesa a sovvertire il racconto dell’uomo nomade dell’epoca paleolitica che, in quanto cacciatore, forgia i primi manufatti in funzione di questa attività, creando intorno a sé un’aura mitica dell’eroe forte e aggressivo, mito che sta alla base di un modello ‘maschiocentrico’, caposaldo della cultura patriarcale.
Un immaginario che persiste ancora nella nostra cultura contemporanea, ribadito recentemente anche dall’etologo Frans De Waal in Diversi – Le questioni di genere viste con gli occhi di un primatologo (Raffaello Cortina Editore, 2022), in cui sostiene:
“Il mito secondo cui l’evoluzione avrebbe luogo principalmente attraverso la linea maschile è ancora in auge. Basta aprire un qualunque libro sulla preistoria umana per veder immagini di uomini che fanno la guerra, accendono il fuoco, cacciano grandi prede, costruiscono ripari e difendono donne, bambini e bambine che con aria spaventata si raccolgono in gruppo contro le minacce esterne. “
Il contributo di Ursula Le Guin, scritto negli anni ’80 sull’ onda del femminismo americano, propone una narrazione diversa: alla figura della freccia/lancia dell’uomo/eroe cacciatore (legata anche ai soggetti dei dipinti rupestri e dai reperti archeologici rinvenuti), antepone un’altra ‘immagine’, ovvero quella della borsa/contenitore/cesto/recipiente, invenzione necessaria per raccogliere e conservare semi e frutti, cibo per poter prendersi cura e proteggere la vita (oltre che per contenere e trasportare armi o frecce o altri utensili).
Pinaree Sanpitak (1961), 1. Breast Vessel in the Reds, 2021, acrylic, pencil and feathers on canvas, 2. Offering Vessel, 2021, acrylic and pencil on canvas, 3. Offering Vessel II, 2021, acrylic and paper on canvas, Arsenale, 59ª Biennale di Venezia.
Certo, una diversa lettura della Preistoria, ricca di spunti per la nostra contemporaneità, volta a valorizzare aspetti etici di solidarietà e collaborazione, legati a modelli di socialità costruttiva, piuttosto che di aggressione e morte, di armi affilate e lotta sanguinaria!
Aggiungo che oggi si fa strada anche una visione aggiornata dei ruoli di genere nella Preistoria, grazie alle ricerche archeologiche, che vede anche la donna, oltre che raccoglitrice, partecipe alla caccia, e viceversa.
Alla ricerca di testimonianze visive di ‘Carrier Bags’ paleolitiche
Ma come possiamo dare a questa ‘narrazione’ una consistenza più ‘solida’, avendo a che fare con un’epoca così lontana, con documenti visivi e reperti archeologici che possiamo solo tentare di interpretare?
Mi sono in camminata alla caccia di segni, simboli e tracce tra quello che ci è rimasto della nostra storia più antica, tra le pitture, i graffiti e i reperti paleolitici, per dare un senso più concreto a questa narrazione.
Girovagando in Internet, ho trovato la recensione del libro di Silvia Ferrara, “IL SALTO – segni, figure, parole, viaggio all’origine dell’immaginazione”, edito da Feltrinelli nel 2021; non poteva esserci modo migliore per partire nella mia indagine, essendo un testo aggiornato sulle testimonianze preistoriche in varie parti del mondo, un viaggio appassionato dell’autrice alla ricerca dell’origine della scrittura.
Quindi, sulle tracce di ‘Carrier Bags’ paleolitiche, ho trovato studi di archeologia che sembrano avallare la lettura di Ursula Le Guin ed Elisabeth Fischer.
Tra interpretazione di dipinti rupestri, studi etnografici e racconti mitici
Approfondendo i dipinti rupestri australiani mi sono imbattuta nello studio di Emily Miller, archeologa presso la Griffith University in Australia, ‘Finding fibre in the rock art and ethnography of Western Arnhem Land, Northen Australia‘, (2021) uno scrigno prezioso di notizie intorno alle ‘Carrier Bags’ preistoriche.
E. Miller ci documenta rappresentazioni di oggetti in fibra vegetale, piccole o medie borse in corda, che gli uomini primitivi, come gli indigeni oggi, si appendevano al collo e al busto, probabilmente per motivi rituali, ma non solo, tratte dai dipinti rupestri nel Western Arnhem Land, nel nord dell’Australia, e dagli studi etnografici sulle popolazioni indigene della zona, strettamente legate a tale patrimonio di immagini.
Figura antropomorfa che indossa una borsa da cerimonia e impugna una lancia; 2. Figura antropomorfa con borsa a forma di pesce e manico a zig-zag; fotografie da :”Pathway: people, landscape, and rock art in Djok Country” project, tracing by E. Miller
Ciò testimonia la presenza di oggetti/contenitori realizzati con fibre vegetali intrecciate che, oltre a motivi rituali, potevano servire alle attività di raccolta e conservazione per cibo, ma che per la deperibilità del materiale non si sono conservate.
Purtroppo non sono riuscita a trovare la datazione dei dipinti rupestri pubblicati nel prezioso studio da E. Miller, probabilmente di difficile individuazione; più fortunati sono stati i dipinti rupestri della regione del Kimberley, dove alcune immagini, dette Gwion Gwion Bradshaw, essendo sottostanti a nidi di vespe, datati intorno a 12000 anni fa, dovrebbero risalire ad un’epoca simile o precedente.
Dipinti di figure umane riccamente abbigliate e ornate di accessori, dette Gwion Gwion Bradshaw, risalenti a 12000 anni fa ca. – regione del Kimberly in Australia
E’ evidente il linguaggio formale più dettagliato di questo modello rispetto alle due immagini precedenti; epoche e culture diverse? Tuttavia si ritrovano simili piccole borse che pendono dal collo delle figure.
L’aspetto cerimoniale, tema diffusamente documentato nei dipinti, ci permette di trovare tracce di quella cultura materiale di cui poco o nulla è conservato.
Accanto a questo, anche i miti, racconti ancestrali, che narrano l’origine della popolazione di un territorio, ci possono confermare del ruolo fondamentale proprio delle ‘Carrier Bags’, in questo come in altri contesti geografici.
Dipinto di Yingarna in Injalak Hill, Australia
Ci viene in aiuto il dipinto rupestre che rappresenta Yingarna, disegno che dà forma ad un insieme di racconti simili sulla creazione della civiltà del nord dell’Australia: una figura antropomorfa che porta, appese al collo, 15 borse di foggia più o meno rettangolare e decorate con diversi tratteggi paralleli.
I miti narrano che una donna, immagine della dea madre, arriva in Australia dal mare del nord; è gravida e porta con sé molte borse appese al collo. Camminando verso sud lascia qua e là sul territorio una borsa/cesto, all’interno della quale c’è una creatura e, in alcuni racconti, anche alcune patate; in questo modo, Yingarna dà vita alle diverse comunità locali e ai linguaggi del territorio australiano.
Questo ‘racconto della creazione’ mostra la stretta connessione che esiste tra l’origine della storia del territorio e gli oggetti in fibra vegetale, le ‘Carrier Bags’, appunto, come sostiene la stessa Emily Miller nell’articolo citato.
D’altra parte miti simili sono stati documentati anche in altre aree geografiche, come in Malesia.
Non so se lo posso dimostrare, ma forse, questi miti, hanno antiche radici comuni con le narrazioni in cui la vita di un piccolo essere umano inizia in un cesto (Mosè biblico) o viene portato in un cestino/fagotto (leggenda delle cicogne)?
Intorno ad un frammento di corda intrecciata dall’uomo di Neanderthal
Ma passiamo dalle suggestioni delle immagini e della narrazione a fatti concreti, a ricerche scientifiche che documentano, se ancora ne avessimo bisogno, la ‘creazione’ di ‘Carrier Bags’ dall’origine della cultura umana, dall’uomo di Neanderthal.
E qui ci viene in aiuto un prezioso studio, pubblicato su di una rivista “peer reviewed“, di B. L. Hardy, Direct evidence of Neanderthal fibre technology and its cognitive and behavioral implications, pubblicato nell’aprile 2020 su Scientific Reports.
Il lavoro analizza, con metodo rigorosamente scientifico, il frammento di corda rinvenuto nella grotta paleolitica di Abri du Maras, in Francia, definendone la datazione (45000 ca. anni fa), la composizione delle fibre vegetali intrecciate per creare la corda e confrontando questo reperto con i pochi altri rinvenuti anche in altri depositi paleolitici.
L’indagine, avvincente nel suo svolgimento, induce Hardy a sostenere che “Le fibre vegetali intrecciate forniscono la base per vestiario, corde, borse, reti. stuoie, etc.”.
Eccoci, forse siamo arrivati alla conferma che cercavamo!
Divagazioni interpretative personali su tracce dipinte di corde, reti, stuoie, cesti, borse…
Tra i disegni lasciati dai nostri avi sulle pareti delle caverne, tra i graffiti rupestri realizzati anche su manufatti scultorei, ho cercato tracce di oggetti in fibre vegetali, in particolare tra quella ricca documentazione di simboli astratti conservati.
Qui propongo una personale interpretazione di alcuni simboli astratti, in alcuni casi classificati dagli studiosi come ‘tettiformi’, consapevole di muovermi su un terreno scivoloso ed esposto a contestazioni.
Si tratta, prevalentemente di disegni paleolitici in cui, all’interno di contorni non sempre regolari, vedono tratteggiate griglie, linee parallele, segni di diverso spessore; per questi simboli azzardo l’ipotesi che possano rappresentare oggetti creati dall’intreccio di fibre vegetali
1. Frammento di ocra con incisioni a griglia, Blombos, Sud Africa, 60.000 ca. anni fa – 2. Dipinti dalla Grotta de La Pasiega, Spagna, 65.000 ca. anni fa – 3 e 4. Dipinti dalla Grotta di Monte Castillo, (canestri?), Spagna, 22.000 ca, anni fa – 5. Disegni dalla Grotta di Altamira, Spagna, 16.000 ca. anni fa.
Aggiungo queste due immagini: una piccola statua in avorio la cui testa sembra coperta da una rete in fibra vegetale (se non è la stilizzazione di capelli ricci!) e un disegno rettangolare in cui la griglia disegnata si fa decisamente più regolare rispetto alle precedenti forme:
Testina in avorio della Venere di Brassempouy (la dame à la capouche), Francia, 25.000 ca. anni fa – Disegno dalla Grotta del Boxu, Spagna, 19.000 ca. anni fa.
Ancora due esempi di rappresentazioni che risalgono a circa 10.000 anni fa, interessanti in quanto: nella prima figura sono visibili due borse/fagotti appese ai polsi, mentre il secondo rilievo, ingrandito nella terza immagine, sembra proporre un capitello/canestro decorato con intrecci di rimando vegetale.
Dal deserto del Sahara, dipinti del periodo delle teste rotonde, Algeria, 9500 ca. anni fa; Pilastro a T, Gobekli Tepe, Turchia, 10000 ca. anni fa.
Nelle rappresentazioni neolitiche, espressioni di una cultura stanziale, le immagini di trame e tessuti si fanno più riconoscibili e identificate come tali dagli studiosi; riporto alcuni esempi da cui si evince l’evoluzione del linguaggio grafico verso una sintesi e geometrizzazione delle forme.
Particolare di menhir antropomorfo di Aosta, con trama di tessuto incisa; dai graffiti della Val Camonica, in alto, disegno di stuoia (?) e sotto rappresentazione riconosciuta di un telaio.
Dalle ‘Carrier Bags’ paleolitiche alle opere esposte ne “Il latte dei sogni”
Come si riflette la narrazione di Ursula Le Guin sui lavori artistici selezionati ed esposti alla Biennale, in questa sezione?
Consapevolmente o meno, dalle forme elaborate in alcune rappresentazioni artistiche si coglie una simile ‘forma mentis’ e un’adesione alla pregnanza simbolica propria al significato della creazione di recipienti/borse/contenitori, in particolare in relazione al ruolo della donna; premesso che nella realtà l’attività di intreccio di reti o ceste o altro non è stata e non è esclusivamente femminile, il percorso intrapreso dalla mostra privilegia il contributo delle donne artiste.
Ho scelto alcune opere realizzate nel Novecento, da artiste non più viventi; di seguito, presento lavori del nuovo millennio, di artiste contemporanee.
Ruth Asawa, (1926-2013), Untitled, 1952 ca. – fil di ferro – Arsenale, 59ª Biennale di Venezia
L’installazione di Ruth Asawa, artista giapponese, ma che ha vissuto negli Stati Uniti, propone forme/contenitori realizzati con filo di metallo, secondo tecniche di intreccio per realizzare ceste proprie del Messico. Il recupero di una sapienza artigianale antica, le cui radici affondano nella cultura precoloniale (motivo che ritorna in molti lavori esposti nella mostra), viene valorizzata da Ruth per proporre oggetti evocativi del corpo femminile, come di oggetti di raccolta, cura e conservazione.
Toshiko Takaezu (1922-2011), Vasi in ceramica, Arsenale, 59ª Biennale di Venezia.
Le variegate forme, modellate in ceramica smaltata dall’artista hawaiana, Toshiko Takaezu, rimandano a bozzoli, zucche, recipienti e contenitori della natura, che hanno perso l’originaria funzione di raccogliere o di preparare alla vita, non avendo aperture; si propongono come icone simboliche della potenza generatrice della natura.
Belkis Ayon (1967-1999), La pesca, 1989, collografia su carta – Arsenale, 59ª Biennale di Venezia.
Belkis Ayon, artista cubana, intreccia la propria esperienza con quella dei racconti e dei miti di una confraternita afrocubana, dando vita ad immagini cariche di simboli e codici che attinge da quella profondità culturale. Le sue opere sono valorizzate da una tecnica di stampa che, da una variegata gamma dal bianco al nero, risulta efficace nello svelare la stratificazione delle immagini sedimentate nella memoria di questo popolo afrocubano. Qui ho selezionato una scena di pesca, in cui la presenza di reti/involucri per la raccolta del pesce, evoca l’antico e necessario gesto di creazione di “Carrier Bags”.
Niki De Saint-Phalle (1930-2013), Gwendolyn, 1966-1990, Resina di poliestere dipinta, su base di metallo – Arsenale, 59ª Biennale di Venezia
Gwendolyn incarna il prototipo delle ‘Nanas’ di Niki de Saint Phalle, aggiornate Veneri preistoriche, che esibiscono con gioia ed orgoglio le forme femminili, il proprio potere creativo. Il corpo della donna diventa luogo in cui si raccoglie la vita, il contenitore per eccellenza, si carica del profondo e ancestrale significato insito nei miti della creazione.
Maria Bartuszova (1936-1996), Untitled, 1986, gesso – Arsenale, 59ª Biennale di Venezia
Artista di origine cecoslovacca, Maria Bartuszova modella col gesso forme tonde ed ovoidali, di rimando all’ uovo, ad elementi organici, luoghi di generazione di una vita. Tessuti fragili rivestono queste forme, avvolti in più strati per resistere in parte alla rottura, ma pronti a schiudersi.
Saodat Ismailova (1981), Palyack, tessuto ricamato e Chillahona, video a tre canali, 2022 – Arsenale, 59ª Biennale di Venezia
In questa installazione, la giovane artista uzbeka mette in dialogo il video a tre canali, girato a Tashkent, in Uzbekistan, con un Palyack, tessuto tradizionale da lei ricamato, che riporta il disegno della cosmologia femminile, la cui forma concava vuole potenziarne la funzione di protezione, guarigione e fertilità. La luce colorata, di cui il tessuto è imbevuto, proviene dalle immagini del video, girato intorno alle celle sotterranee disposte su tre piani e di forma ottagonale, dette Chillahona, luoghi per l’autoisolamento e la meditazione, spazi architettonici che assurgono a simboli di rinascita; in particolare nel video segue una donna in questo percorso di discesa nello spazio più profondo. Con questo lavoro l’artista ricerca le radici della propria cultura, recuperando i riti e le manifestazioni sacre in cui le donne hanno avuto un ruolo fondamentale.
Portia Zvavahera (1985), Captured Owls e Uplifted, part, 2021 – inchiostro da stampa su base oleosa, olio su tela – Arsenale, 59ª Biennale di Venezia
Le visioni oniriche di Portia Zrarahera, artista dello Zimbawe, sono contaminate dalla propria cultura indigena africana e portano alla luce soprattutto figure femminili in momenti di ritualità secolari (cortei nuziali, parto, momenti di preghiera…). La forma avvolgente in Captured Owls evoca un grande cesto, che contiene un racconto visionario ancestrale, dove un gruppo di donne si raccoglie per trovare conforto nell’amicizia e nella preghiera, per esorcizzare incubi e sofferenze e trovare la pace. Il cesto di fibre vegetali diviene forma simbolica di ricerca di libertà e della vita.
Emma Talbot (1969), particolari dell’installazione all’Arsenale, 2022, 59ª Biennale di Venezia.
L’intervento dell’artista inglese Emma Talbot è complesso e stratificato: da un grande e avvolgente telo di seta dipinto, diaframma leggero, Where Do We Come From, What Are We, Where Are We Going?, riflessione drammatica sul desiderio di fuga per le catastrofi climatiche, all’inquietante donna scura, inginocchiata e tesa in una lotta forse tra vita e morte. Un’Eva contemporanea, con serpente ai suoi piedi, si proietta su di un cerchio di metallo, rivestito da un tessuto di rete di rame sottile, frammento di natura imprigionato, recipiente che non contiene più nulla. Un disperato grido di desiderio di vita in cui la donna, portatrice di vita e di forza, è protagonista assoluta.
Pinaree Sanpitak (1961), Breast Vessel in the Reds, 2021, acrylic, pencil and feathers on canvas, Arsenale, 59ª Biennale di Venezia.
L’artista tailandese elabora nelle sue opere le forme di parti del corpo femminile (seni, uova, linee incurvate…), trasfigurandole in recipienti che ricordano ciotole rituali, grazie alla raffinata e complessa tecnica di esecuzione dell’opera (all’uso di acrilici aggiunge texture ottenute con piume, foglie d’oro e argento e seta). In questo modo il corpo femminile viene valorizzato e celebrato per le sue ricche potenzialità.
Acaje Kerunen, Radience – They Dream in Time, 2022 – Padiglione Uganda, Palazzo Palumbo Fossati, Venezia
Per finire questo percorso voglio rendere omaggio ad Acaje Keruen, (di cui ho parlato nell’articolo: https://wordpress.com/post/notediarte.wordpress.com/3251), artista del Padiglione dell’Uganda, per il cui lavoro ha coinvolto donne della propria terra, creatrici di ceste, tappeti, borse, stuoie, per riannodare, in un percorso di crescita collettiva, gesti e motivi della cultura indigena; dall’intreccio di fibre vegetali presenti in loco, di banani e sorgo, da foglie di palma, dalla rafia, ha dato loro la possibilità di affermare con orgoglio il proprio ruolo di donne e la propria esistenza.
Dopo un’intensa giornata trascorsa pellegrinando tra la Mostra ai Giardini e i Padiglioni Nazionali, si sperimenta un piacevole tuffo nella leggerezza e nella poesia, entrando nel Padiglione del Belgio, tra voci, urla, canti, balli e giochi di bambini.
Sì, il mondo è abitato anche da loro.
Francis Alÿs (1959), The Nature of The Game, 2022, still da videoinstallazioni nel Padiglione del Belgio, Giardini, 59ª Biennale di Venezia
E, ovunque si trovino bambini, al nord, come al sud del pianeta, l’energia che si sprigiona dall’incontro dei piccoli uomini è travolgente: il gioco è prova, impegno, lotta e fatica, poi diventa gioia, emozione, liberazione.
Francis Alÿs (1959), The Nature of The Game, Congo, 2022, still da videoinstallazione nel Padiglione del Belgio, Giardini, 59ª Biennale di Venezia
Il gioco è necessario e si fa rito.
Il gioco è serio confronto con la realtà, nello stesso tempo sogno creazione di gesti favolosi, come riuscire a far volare un aquilone.
Francis Alÿs (1959), The Nature of The Game, Afghanistan, 2022, still da video nel Padiglione del Belgio, Giardini, 59ª Biennale di Venezia
Francis Alÿs (1959), artista belga e autore del Padiglione, da anni raccoglie video che raccontano i momenti meno ufficiali della storia, la vita e i giochi di tanti bambini di tutto il mondo; lo stesso artista dichiara di essere interessato al gioco come gesto universale, e, attraverso lo sguardo dei suoi piccoli protagonisti, i momenti ludici divengono filtro e metafora di tematiche sociali e politiche complesse, temi di cui l’artista si fa testimone.
Nel Padiglione del Belgio, i video sono accompagnati da piccoli dipinti, raccolti in una saletta, che, come uno ‘storyboard’, sono sintetici ma potenti flash dei contesti sociali e politici documentati.
Francis Alÿs (1959), The Nature of The Game, 2022, dipinti nel Padiglione del Belgio, Giardini, 59ª Biennale di Venezia
Ritrovo in questi disegni la struttura narrativa e artistica di Francis Alÿs, il suo stile asciutto, sintetico e denso di significato; con pochi segni e con tinte dalle tonalità smorzate mette a fuoco, come un ‘dietro le quinte’, quello che si agita nei luoghi del mondo narrati.
La mia memoria corre a rievocare i lavori dello stesso artista incontrati in altre esposizioni, opere che si incatenano come anelli e costituiscono un ricco repertorio di continuità con il Padiglione attuale, progetti che mi hanno sempre incantato per la loro forza espressiva.
Francis Alÿs (1959), Don’t Cross The Bridge Before You Get To The River, 2008, video, dipinti e installazione, mostra: La terra inquieta, Fondazione Triennale di Milano, Fondazione N. Trussardi, 2017
Nel lavoro esposto alla Triennale a Milano, nel 2017, Don’t Cross The Bridge Before You Get To The River, Francis Alÿs coinvolge bambini di Tangeri e Tarifa per costruire un ponte ideale tra le sponde del Mediterraneo: sogno di un mondo senza confini, di dialogo gioioso tra i popoli, di solidarietà e freschezza, come solo la spontaneità dei bambini può realizzare, anche attraverso il gioco; il ponte/giocattolo si disegna con barche fatte di ciabatte e vele di tessuto.
Francis Alÿs (1959), Don’t Cross The Bridge Before You Get To The River, 2008, installazione, mostra: La terra inquieta, Fondazione Triennale di Milano, Fondazione N. Trussardi, 2017
Nel raffinato video in bianco e nero del 2015, The Silence of Ani, citato in un mio articolo precedente sull’artista armena Anna Boghiguian, il ruolo dei bambini è quello di ridare vita alle rovine dell’antica città armena di Ani, richiamando con fischietti che imitano il loro canto, gli uccelli, a ripopolare uno spazio distrutto e devastato da guerre e abbandonato, seppur carico di arte, architettura e storia.
E il miracolo, desiderio dei bambini, nell’immaginario, avviene: una colomba si posa su di un frammento di colonna; una colomba, che incarna il desiderio universale di pace, sfida e necessario racconto di un altro mondo possibile.
Simone Leigh (1967), Sfinge, 2022, Bronzo, Padiglione deli Stati Uniti, 59ª Biennale di Venezia
Girando tra i Padiglioni Nazionali ai Giardini, colpisce l’allestimento realizzato da Simone Leigh per quello degli Stati Uniti: una capanna, sul modello del Padiglione del Congo, costruito per l’Esposizione Coloniale a Parigi nel 1931, che qui si fa dimora del complesso mondo creativo dell’artista afroamericana, vincitrice del Leone d’oro.
Simone Leigh (1967), Sovereignty, 2022, Padiglione deli Stati Uniti, 59ª Biennale di Venezia e Postcard del ‘Pavillon des transports’, mostra del Congo Belga alla Esposizione Coloniale di Parigi del 1931
Entriamo nel progetto artistico di Simone, volto a decostruire e ribaltare l’immaginario che lo sguardo colonialista ha fissato in fotografie storiche, per valorizzare con orgoglio la dignità della cultura afroamericana, riscrivendo così, con l’arte, frammenti di storia e di memoria ignorati dalla narrazione ufficiale.
Nella prima sala del Padiglione Statunitense incontriamo l’installazione ‘L’ultimo indumento’: la figura china della lavandaia, riflessa in un suggestivo gioco di specchi d’acqua, rielabora l’immagine di una delle cartoline che il governo coloniale britannico aveva diffuso per propagandare lo stereotipo delle donne della Giamaica, persone pulite, disciplinate, obbedienti, al fine di incentivare il turismo sulle isole coloniali.
Simone Leigh (1967), Last Garment, 2022, Bronzo, Padiglione deli Stati Uniti, 59ª Biennale di Venezia e Postcard di C.H. Graves, Mammy’s Last Garment, Jamaica, 1879
Proseguendo nella Rotonda del Padiglione, un’affusolata, essenziale ed imponente figura di forma femminile, Sentinel, si contamina simbolicamente con la forma dei ‘bastoni di potere’ africani, utilizzati nei riti di fertilità, portatori di sapienza divina.
Il motivo iconografico che potenzia questo significato simbolico è la grande forma concava al posto della testa, che, come un’antenna parabolica, celebra le capacità ricettive e intuitive della donna.
Simone Leigh (1967), Sentinel, 2022, Bronzo, Padiglione deli Stati Uniti, 59ª Biennale di Venezia
La forma concava/convessa associata al capo del corpo femminile, è fortemente evocativa: Simone la propone anche all’esterno del Padiglione, dove ci accoglie ‘Satellite‘ una figura di donna/capanna, architettonica e totemica, creata sia sul modello dei D’mba, maschera a spalla a forma di busto femminile della Guinea, che sulla suggestione dell’idolo femminile visibile nella foto riportata.
Simone Leigh (1967), Satellite, 2022, esterno del Padiglione deli Stati Uniti, 59ª Biennale di Venezia e
Postcard, M. E: Chevrier, Guinée, idole femelle des Bagasforés, 1907 ca.
‘Satellite’ si erge su quattro pilastri arcuati, che creano uno spazio architettonico integrato al corpo femminile, realizzando la struttura di un volume simile ad una capanna.
Questa iconografia, di donna/dimora, matura dall’interesse dell’artista per l’architettura vernacolare africana e le pure forme geometriche delle capanne, assumendo un insieme di significati fortemente coerenti alla sua ricerca.
Ancora una volta questo modello sovverte uno stereotipo radicato in tutte le culture patriarcali, quello dell’Angelo del focolare: Simone Leigh plasma forme scultoree che celebrano con orgoglio la soggettività femminile nera, coerentemente con il suo impegno di attivista in ambito politico in difesa dei diritti civili per tutte le minoranze.
All’ingresso dell’Arsenale, l’imponente Brick House, scultura per la quale ha vinto il Leone d’Oro in questa Mostra, si erge al centro di un’ampia sala in forma monumentale e allo stesso tempo essenziale, figura carica di evocazioni emotive e culturali, potente messaggio della sua poetica.
Simone Leigh (1967), Brick House, Arsenale, 59ª Biennale di Venezia
L’opera, realizzata nel 2019 per il parco sopraelevato High Line a New York, viene qui riproposta come apertura del percorso della Biennale all’Arsenale, simbolo carico di temi e forme evocative che costituiscono il nucleo fondamentale della mostra, pensata da Cecilia Alemani.
Una forma stabile e sicura, che riprende modelli di capanne del popolo Musgum del Camerun, si fa corpo, abito, contenitore di uno spazio che può accogliere, può curare, può proteggere, può generare, ma solo se la donna sceglie di farlo, nella sua completa autodeterminazione.
Simone Leigh (1967), Brick House, Arsenale, 59ª Biennale di Venezia e Abitazioni/capanne del popolo Musgum del Camerun
Pochi ma significativi simboli completano il capo della donna nera: lunghe trecce che terminano con conchiglie di ciprea, richiamo alla fertilità, volto con caratteristiche etniche sottolineate ma senza occhi; la scultura non è ritratto, ma icona archetipa di femminilità, dove lo sguardo, senza fermarsi sulla superficie, deve indagare i livelli più profondi della sua essenza e umanità.