Ho Insegnato Storia dell'Arte in un liceo artistico e sono interessata alle espressioni artistiche contemporanee.
Ho anche una particolare attrazione per l'arte Altomedievale.
Volti: dipinti, fotografati, ripresi in video, scolpiti, ci seguono con i loro sguardi fieri, attraenti, spaventati, sofferti, orgogliosi, spiazzanti, realizzati in varie dimensioni e di una bellezza a volte struggente.
Racconto di un’umanità che ricerca un ugual posto nel mondo.
Njideka Akunyili Crosby (Nigeria, 1983) – Someday I’ll Tell You AboutThis, 2019 – olio e acrilico su tavola – Arsenale.
Artista di origine nigeriana, Njideka Akunyili Crosby, oggi residente a Los Angeles, nei sapienti e delicatissimi volti esposti all’Arsenale, riflette una profonda nostalgia e un forte radicamento alla propria cultura d’origine, contaminando le proprie iconografie con riferimenti a modelli artistici occidentali (ad esempio al ritratto seicentesco) .
Zanele Muholi (Sudafrica, 1972) – Somnyama Ngonyama, Hail the Dark Lioness 2012, serie di autoritratti fotografici – Arsenale.
Zanele Muholi è un’artista sudafricana, impegnata col proprio lavoro ad affermare le tematiche di genere e LGBTQI+; i suoi ritratti e/o autoritratti rivendicano prepotentemente e con fierezza quella dignità che è stata negata dalla cultura dominante alle persone che vivono orientamenti sessuali non etero.
Christian Marclay (Usa, 1955) – dalla serie Scream, 2018, incisione su legno – Padiglione centrale dei Giardini.
Le immagini di Marclay, che siano fisse o video, nascono dalla manipolazione di materiali preesistenti; in questa serie di incisioni l’artista assembla parti di fumetti americani e giapponesi costruendo volti terrorizzati dei quali si percepisce il grido di angoscia. Volti che condensano le tragedie contemporanee e diventano “allarmi universali”.
Soham Gupta (India, 1988) – dalla serie Angst, 2013-17 – Stampa a pigmento – Padiglione Centrale dei Giardini.
Angoscia quasi rassegnata, ma carica di dignità, è quella che cogliamo nei profondi ritratti di Soham Gupta; protagoniste di una Calcutta notturna ed emarginata, le figure si impongono per la loro umanità, per il loro disperato desiderio di vivere.
Cameron Jamie (Usa 1969) – Untitled, 2014-15 – Ceramica smaltata – Padiglione Centrale dei Giardini
Il “verso” accattivante per effetti di forma e di colore delle maschere in ceramica di Jamie, ribalta e ridiscute il tema del ritratto, proponendo una interpretazione della maschera quale oggetto liberatorio della propria autenticità.
Nicole Eisenman (Francia, 1965) – King Head, 2018 – Alluminio e acciaio inossidabile lucidato – Arsenale.
Le teste decostruite di Nicole Eisenman, ritratti fantastici e ambivalenti di esseri mostruosi e pericolsi (in questo caso è un re, uomo di potere), paiono contemporaneamente osservate con sguardo compassionevole; volti della complessità delle dinamiche psicologiche che possono coinvolgere tutti.
Kahlil Joseph (Usa, 1981) – BLKNWS, 2018 in corso – installazione video a due canali – Padiglione Centrale dei Giardini Kahlil Joseph (Usa, 1981) – BLKNWS, 2018 in corso – installazione video a due canali – Padiglione Centrale dei Giardini
Severi e giudicanti volti di monache sulla parete fanno da sfondo a due video, costruiti dall’artista con un collage di trasmissioni televisive, filmati di youtube, storie da Istagram o da altri media, in continuo aggiornamento. La realtà viene raccontata in tempo reale e i volti dei protagonisti scorrono velocemente, proponendo un frenetico rituale di uso dell’immagine. il conflitto che si genera tra la fissità del fondo, opprimente ed ingombrante, e la velocità incalzante dei racconti degli schermi, crea un corto circuito di inquietudine, disagio, di controllo occulto delle nostre libertà.
La continua ed esasperata esposizione ai volti/selfie in cui viviamo fa sì che il genere del ritratto rischi di perdere del tutto la sua pregnanza.
Tuttavia, nonostante l’abuso di questo soggetto a livello mediatico, la Biennale di quest’anno è la prova che questo genere artistico è lungi dall’essere esausto!
Jon Rafman (Montréal, 1981) – Disasters Under the Sun, 2019 – still da video, Giardini
L’impressione che rimane dopo alcuni giorni di cammino tra i percorsi dei Giardini, dell’Arsenale, dei Padiglioni Nazionali e di alcune mostre collaterali alla Biennale di Venezia è quella di una energia creativa dirompente espressa da giovani artisti, tra cui moltissime donne, alla ricerca di vie “interessanti” di uscita dagli orrori e dalle tragedie che imperversano nel nostro tempo, di cui sono validi e sensibilissimi testimoni.
La mostra di Venezia quest’anno dà voce ad una generazione di artisti giovani e a molte giovani donne. Uno sguardo fresco e innovativo, ma nonostante questo spesso carico di dolore.
Ed Atkins (Oxford, 1982) – Old Food, 2017-19, still da video_installazione all’Arsenale
Trovo entusiasmante entrare nei lavori degli artisti, attraversando le diverse rappresentazioni di pezzi di mondo, per cogliere il “sentire”, le “emozioni”, i “vissuti” e le “storie” messe in scena con medium espressivi diversissimi e coinvolgenti, dai più tecnologici ai più tradizionali.
Kudzanai Violet Hwami (Gutu, Zimbabwe, 1993) – Jovian Swirl, 2019, olio e acrilico su tela – Padiglione dello Zimbabwe
Ascoltare racconti visivi dalle parti più disparate del pianeta, intravvedere fili comuni tra le figure e le forme, costruire trame di collegamento tra temi, interessi e problematiche, costituisce un’esperienza unica, che la Mostra di Venezia riesce a far vivere.
Nella 58° Biennale si coglie un respiro profondamene contemporaneo, e l’abilità del curatore, Ralph Rugoff, a mio parere, risiede proprio nell’aver dato voce alle istanze emergenti della cultura giovanile che, si scopre, convergere su una comune linea d’onda e di prospettive, nei vari continenti.
Mari Katayama (Saitama, 1987) – Gambe protesiche dell’artista da lei stessa decorate. Fotografia, Arsenale
Globalizzazione e urgenze comuni mettono in moto immagini e riflessioni pressanti sulla centralità dell’”essere umano”, essere vivente che rivendica dignità per le proprie specificità e diversità, che anela alla libertà di espressione e alla costruzione di relazioni tra gli esseri viventi positive e gratificanti, confrontandosi e rispettando l’ecosistema in cui vive, alla ricerca di un “nuovo umanesimo” (espressione coniata dallo stesso curatore della Biennale).
Rugilė Barzdžiukaitė 1983, Vaiva Grainytė 1984, Lina Lapelité 1984 _ Sun & Sea – Opera lirica per 13 voci, site specific, Padiglione della Lituania.
Nei prossimi appunti analizzerò alcuni motivi ricorrenti, colti tra le opere esposte.
E’ accaduto veramente, il lungo corteo, allegro e coloratissimo, che ha attraversato Novara, sabato 26 maggio 2018: una corale manifestazione di “arte relazionale”?
Portare a Novara un fiume così dirompente di allegria, di sorrisi, di colori dell’arcobaleno, che sono i colori della luce e quindi della vita, è stato un potente atto creativo che i ragazzi di Novararcobaleno e di Sermais hanno generato.
Ma ancora più intense e profonde sono state le parole che dal palco sono rimbalzate sulle persone strette tutte attorno.
Voci e testimonianze non urlate, spesso sofferte, di un mondo che ci circonda e ci appartiene, stanco di doversi nascondere, che rivendica di potere esistere.
Un’umanità che attraversa classi sociali, confini geografici, perimetri ideologici, perché ESISTE.
Negli ultimi decenni molti artisti, che lavorano per esplorare l’uomo e i suoi vissuti, si sono fatti interpreti di questa “rivoluzione civile”, portando alla luce storie ed esperienze per smuovere i pregiudizi e le resistenze che portano a ignorare, se non a emarginare o aggredire, chi non appartiene al mondo eterosessuale.
Yto Barrada, artista nata a Parigi nel 1971, di origine marocchina, tra le significative immagini che documentano la cultura del proprio paese, propone “Rue de la liberté“, 2000, opera che con delicatezza ci racconta di un amore che ancora deve essere nascosto.
Dal palco del Novara Pride, una toccante testimonianza è stata portata da un giovane africano rifugiato, omosessuale, che con coraggio ha raccontato la propria fuga “sui barconi” del Mediterraneo, difficile e pericolosa ma necessaria, per trovare la possibilità di vivere liberamente e scappare da persecuzioni e morte.
Questa immagine di una videoistallazione di Isaac Jiulien (Londra, 1969), Western Union: Small Boats, del 2007, riassume in uno scatto quanto possa essere potente il desiderio di fuggire da condizioni di oppressione e violenza, anche per motivi di orientamento sessuale, pur sapendo di dover affrontare molti pericoli attraversando il Mediterraneo.
Come ci ricorda l’artista svedese Runo Lagomarsino (1944) con l’opera esposta a Milano alla mostra “La terra inquieta” nel 2017:
Stessa scritta che, ad intermittenza, cambiando una lettera, diventa un SOS straziante.
Maria Lai, artista sarda che ha vissuto il Novecento, mancata nel 2013, nel lontano 1965 proponeva il delicatissimo “Ermafrodito. Il dio distratto“:
un quadro dipinto con tessuto e fili di lana su una spessa tela grezza; paura e imbarazzo si colgono tra i residui di volto annegato sotto le ciocche spesse e protettive di capelli.
(La stessa artista è stata una pioniera dell’ “arte relazionale”, con “Legarsi alla montagna”, ad Ulassai, nel 1981, lavoro artistico che ha coinvolto attivamente gli abitanti del proprio paese. Maria Lai, a cui era stato commissionato un “monumento ai caduti”, si è fatta promotrice di un’azione collettiva, coinvolgendo con un impegnativo e non facile lavoro, la comunità: un lunghissimo nastro azzurro ha collegato e annodato le case del paese alla cima della montagna che lo aveva minacciato con una frana; si racconta che una bambina si fosse salvata rincorrendo un nastro azzurro. L’artista ha utilizzato la propria energia e creatività realizzando un “monumento per i vivi”, riuscendo a smuovere diffidenze e chiusure, comportamenti sedimentati dalle abitudini, cambiamenti possibili quando il significato e il valore degli obiettivi proposti risultano convincenti. In questo intravvedo un’analogia tra fare “arte relazionale” e fare il “pride”).
Anche l’arte cosiddetta “tradizionale” si è confrontata con tematiche di genere; come non ricordare il quadro “Donna barbuta“, del 1630, di Jusepe De Ribera, pittore caravaggesco detto “Lo Spagnoletto”?
Lo sguardo disincantato con cui l’artista ritrae la figura sorprende per il profondo realismo e la grande sensibilità nel cogliere la fatica e il disorientamento nel vivere la propria condizione.
Tra la moltitudine presente al corteo di Novara Pride ha trovato posto anche l”‘associazione interssessuali” il cui simbolo è un cerchio viola su fondo giallo:
Le testimonianze di due giovani persone di questa associazione raccontate dal palco a tratti con esitazione, ma decise nell’affermare la propria identità, forse hanno rappresentato uno dei momenti più intensi della manifestazione.
A Novara è intervenuta anche una portavoce dei diritti dei transessuali, Antonia Monopoli, ricordando con commozione Bruna, vittima di un brutale omicidio proprio nella nostra città nel 2012; e, al doloroso ricordo della violenza, ha affiancato il racconto emozionato dell’esperienza vissuta al funerale per Bruna, nella chiesa di San Francesco, organizzato dall’Associazione Liberazione e Speranza, dove una chiesa gremita si è stretta a lei con grande rispetto, solidarietà e affetto.
Gli scatti rubati nelle strade del Cile dall’artista e fotografa, Paz Errazuriz, nel 1983, della serie “La mela di Adamo“, documentano, con forte carica di denuncia politica, le numerose storie di emarginazione e repressione delle persone transessuali nel periodo della dittatura fascista di Pinochet.
Alla Biennale di Venezia del 2017, Charles Atlas (Usa, 1949) ha esposto un sensazionale video composto da 44 tramonti, Kiss the Day Goodbye seguito da Here she is…v1, la cui protagonista è Lady Bunny, famosa drag queen di New York.
L’artista ha creato una magica metafora della fine del mondo, disegnando nei video il lento spegnersi del sole e dei colori della luce. I colori dell’arcobaleno. Alla fine di tutto, dopo il buio, sopravvive la drag queen, con la sua storia personale raccontata ballando e intrecciata ad una critica analisi politica dell’America contemporanea.
Guardiamo la foto del palco, alla fine della manifestazione a Novara: un sacco di giovani felici stipati tra le due drag queen, madrine simpatiche, discrete, sensibili oltreché capaci a gestire quasi due ore di interventi densi di umanità, dolori e sogni
Lo sguardo “internazionalista” dei giovani organizzatori di Novara Pride, l’apertura alle tematiche della diversità e alla difesa dei diritti civili, e necessariamente il deciso impegno politico (nel senso di partecipazione diretta nelle questioni della cittadinanza che interessano la polis e la vita collettiva), rappresentano forse un piccolo fermento di un nuovo ’68, cinquant’anni dopo?
Il film di Sorrentino lavora lentamente nell’immaginario, penetrando nel profondo. Certo, solo se ti lasci coinvolgere nel dialogo visivo, vivi momenti di emozione, di fastidio, di fascino, di disgusto, di commozione, di poesia.
Di fronte allo scorrere delle immagini si aprono diversi livelli di lettura, non sempre immediati, che possono affiorare lentamente nelle ore/giorni successivi. La potenza delle visioni del regista credo nasca dal saper mescolare iconografie della storia dell’arte a simboli più immediati, a miti e riti della nostra cultura ( e non solo) con storie dell’oggi, troppo vicine a noi per essere guardate con distanza o indifferenza.
Sequenze che intrecciano sguardi sul mondo a racconti del desiderio, del sogno, a pulsioni profonde legate a istinti più viscerali.
L’intrusione di una candida pecora, che entra curiosa e guardinga nell’elegante e tecnologica villa di Berlusconi in Sardegna, è emblematica; spaesata, non riconosce il proprio ambiente, la campagna sarda, luogo di una cultura pastorale che ha radici in una storia millenaria, fatta di fatica, lavoro, ma anche di natura spettacolare e incontaminata, violentata dalle costruzioni turistiche.
La pecora non è abituata a climi differenti dal proprio naturale e soccombe al freddo meccanico del condizionatore.
Muore, come agnello indifeso, sacrificato.
Figura sacra, l’agnello si ripete nelle rappresentazioni cristiane dei luoghi di culto, di cui la nostra terra è costellata. Sacrificio che avviene nella casa di “LUI” o “DIO”, come lo chiamano “LORO”.
L?inquadratura dell’altra villa che s’affaccia su quella di Berlusconi, dove gli ospiti allineati sulle balconate e su tre livelli, in silenzio, dopo un’orgiastica festa, cercano con sguardo fisso e disperatamente l’uomo dei loro sogni, è tra le più intense del film.
Paradossalmente richiama immagini di immigrati, assiepati lungo i parapetti delle loro imbarcazioni, tesi spasmodicamente a raggiungere la loro meta che via via all’orizzonte si fa possibile. Sguardi di desiderio, di speranza, di paura.
“LORO” sono tutti uguali, alla fine, con corpi nudi esibiti a forza, carichi di una artificiale e torbida sensualità, scatenata da una pioggia “magrittiana” di pillole colorate e segnate da volti urlanti e devastati, droga per la loro sopravvivenza: si muovono tutti insieme, come un “gregge di pecore”.
Una piuma di gallina volteggia lievemente in un acquario, osservata anche da vere galline che razzolano tra terra e detriti nello stretto corridoio, collegato al salone espositivo dell’Hangar Bicocca.
Moderno reliquiario, leggerezza ed eleganza della linea che fluttua.
Sulla parete accanto il segno diventa motivo ritmico colorato, aggrovigliato, gomitolo sfrangiato che galleggia in uno spazio siderale.
Untitled (Celebration), 2013
Oltre la parete si spalanca l’ampio volume dello Shed di Pirelli Hangar Bicocca, nel quale Petrit Halilay (1986), giovane artista kosovaro, tra dicembre 2015 e marzo 2016, ha allestito Space Shuttle in the Garden.
Space Shuttle in the Garden, 3 dicembre 2015 – 13 marzo 2016, Pirelli Hangar Bicocca
L’impatto iniziale non è stato gradevole: l’aspetto di un cantiere aperto, scheletri di case in parte sospese innaturalmente sopra le nostre teste, disorientamento.
Dopo poco sentiamo il canto di un gallo e scorgiamo un grande pollaio abitato da molte galline impegnate ad esplorare il loro spazio inconsueto e attratte dalla porta aperta verso il giardino. Ci avviciniamo e si delinea la sagoma di un “razzo spaziale” in legno, abitato da altri polli, internamente tutto dipinto di blu.
They are Lucky to be Bourgeois Hens, 2009
Forte è il desiderio di volare, delle galline, sì, con il loro razzo spaziale, ed è evidente lo slittamento ironico-giocoso operato da Petrit per narrarci i suoi sogni. Da piccolo ha vissuto in un paese del Kosovo, tra gli animali di cascina che sono diventati parte importante della propria storia; a dieci anni circa la sua infanzia è stata violata dalla guerra che ha portato alla distruzione la casa di famiglia, obbligando la stessa alla fuga in campi profughi.
Petrit lascerà il Kosovo per raggiungere Milano e studiare all’Accademia di Brera, formazione artistica che approfondirà a Berlino, esperienze di stimolo alla sua creatività vulcanica generatrice di quelle piccole meraviglie disperse, e da scoprire, nello spazio dell’Hangar.
L’artista dimostra di muoversi con grande maestria tra medium differenti; si è appropriato delle più efficaci forme espressive d’arte contemporanea: il video che scorre su una parete dello Shed è stato girato sul luogo della propria casa, dove rimangono tracce ormai “archeologiche” dell’abitazione, oggi colonizzate da esili fili di erbe, dai fiori di campo, da una infinità di piccoli insetti ripresi poeticamente mentre ricreano una nuova vita.
Who does the earth belong to while painting the wind ?!, 2012, still da video
E’ questa commistione tra senso della tragedia e grande voglia di vivere, tra desiderio di radicamento e tensione verso l’altrove, che prende forma e si modella negli oggetti realizzati.
It is first time dear that you have a human shape (diptych I – earring), 2012
Come le ampie forme che ricreano gli orecchini della madre, da lei sotterrati prima di scappare, all’interno delle cui trame versa vera terra di quel “Luogo” perduto e le cui decorazioni evocano modelli di oreficeria dei popoli medievali che hanno abitato il cuore dell’Europa.
Ma ancora più in là, nel tempo, il lavoro di Petrit recupera il neolitico attraverso la modellazione in argilla e ottone di “ocarine”, strumenti musicali a fiato preistorici ritrovati vicino alla sua casa natale; strumenti antichi che invitano a momenti di convivialità e di festa anche oggi.
Si Okarina e Runikut, 2014
Il racconto generoso della propria esperienza più profondamente personale diventa emozione vera di fronte ad alcuni fogli scritti dall’artista stesso, dove una calligrafia incerta, ripete e ci svela di un difficile rapporto col padre dal quale non si sente accettato per il proprio orientamento sessuale, e col quale tuttavia riesce a dialogare, non a parole, ma con i gesti, con il lavoro, con il fare.
26 Objekte n’ Kumpir, 2009
Con discrezione Petrit apre al proprio vissuto, invitandoci a riflettere su quanta sofferenza ancora possa generare un rifiuto della diversità; nello stesso tempo fa emergere consapevolmente la propria identità, testimoniando una maturazione che è, direi, fenomeno epocale, proprio delle nuove generazioni.
Molti lavori esposti sono stati realizzati, su sua indicazione, dai famigliari; sono oggetti che appartenevano al mondo contadino e alla sua infanzia.
26 Objekte n’ Kumpir, 2009
La paletta “schiacciamosche” è stata ricostruita, con altri 26 utensili, ed esposta sotto vetro, su lamine di rame, in una struttura in legno avvolta da rami e terriccio: un “nido” in grande scala, apparentemente sospeso, dimora nomade degli uccelli, metafora della sua identificazione.
26 Objekte n’ Kumpir, 2009
E il collegamento con il Padiglione del Kosovo, allestito alla Biennale di Venezia del 2013, dallo stesso artista, diviene obbligatorio: un grande rifugio precario – nido – costruito con rami e terra impastata, immagine di una terra devastata dalle distruzione di gran parte delle dimore esistenti.
Urgenza di riempire un vuoto. Desiderio di trovare un rifugio.
Particolare dell’installazione “The hungry to keep you close. I want to find the words to resist but in the end there is a locked sphere. the funny thing is that you’re not here, nothing is”, 2013 Padiglione del Kosovo, Biennale di Venezia 2013
Nel lavoro esposto alla Biennale di Venezia del 2017, dove la giuria gli ha assegnato una menzione speciale, l’artista ha disseminato l’ampio spazio dell’Arsenale di gigantesche falene realizzate in tessuto kosovaro con l’aiuto della madre, recuperando un sapiente fare creativo femminile.
Do you realise there is a rainbow even if it’s night?, 2017
Do you realise there is a rainbow even if it’s night? (pink), 2017
Il bestiario delle sue creazioni è fatto di creature fragili, umili, animali spesso alati che danno voce a tanta parte di umanità che non fa “rumore”, ma che incarna qualità preziose.
Il suo “fare” vulcanico, i variegati medium che Petrit elabora, la poesia e la profondità delle sue narrazioni testimoniano la possibilità, anche nell’oggi, di poter vivere esperienze artistiche ed estetiche di grande valore.
Autoritratto, tra le opere dello “Studio d’artista”, allestito alla mostra del Castello di Rivoli (19 settembre 2017 – 9 gennaio 2018), retrospettiva di Anna Boghiguian
Il mondo artistico di Anna Boghiguian esercita un tale magnetismo da stimolare un continuo approfondimento del suo lavoro.
Il mio primo incontro con l’artista è avvenuto durante la visita del Padiglione Armeno della Biennale di Venezia, nel 2015.
Il Padiglione, che raccoglieva diversi protagonisti della diaspora armena, si è meritato il Leone d’oro per il valore dei lavori esposti, sia artistico che di testimonianza della storia del popolo armeno e della memoria del genocidio, subito proprio a cent’anni di distanza.
Entrati nel chiostro del Monastero degli Armeni, alcuni uccelli neri in cartapesta, sospesi tra le volte del portico, accompagnavano all’interno di una stanza spoglia, avvolta in un’atmosfera silenziosa di sobrietà e umiltà; pochi ma intensi “segni” narravano la stratificazione tra storie individuali e memoria collettiva.
Ani, 2015, Biennale di Venezia, Padiglione Armeno
L’allestimento di Anna Boghiguian, Ani, 2015, comunicava un’emozione profonda:
alcuni mazzi di rose tinte pastello, sagome scure di uccelli, rettangoli di terra ammassata quali sepolture, mensole precarie con quaderni scritti e disegnati dall’artista, ad evocare gli antichi manoscritti miniati medioevali e piccoli quadri in legno eredità delle icone orientali.
Ani, 2015, Biennale di Venezia, Padiglione Armeno
Ani, 2015, Biennale di Venezia, Padiglione Armeno
Ani, 2015, Biennale di Venezia, Padiglione Armeno
Ani, 2015, Biennale di Venezia, Padiglione Armeno
Le tracce da lei seminate nella stanza ci portavano alla città di Ani, grande e bella città armena nel Medioevo, distrutta dalle invasioni mongole nel XIV secolo.
Ani, 2015, Biennale di Venezia, Padiglione Armeno
Pochi, ma affascinanti, sono i resti di ciò che rimane oggi in quel magico luogo e delle sue architetture; è d’obbligo un collegamento col video The Silence of Ani, di Francis Alӱs, presentato alla Biennale di Istanbul sempre nel 2015, le cui immagini e storie rivelano una profonda consonanza tra i due artisti.
Francis Alӱs, The silence of Ani, 2015, still del video
Anna Boghiguian è nata a Il Cairo nel 1946, e oggi vive in più luoghi, per scelta. La sua arte sa raccontare il dolore del cammino dell’esodo, incarnando un’esperienza che nella nostra realtà sta assumendo dimensioni epocali.
Nei lavori dell’artista esposti alla mostra “La terra Inquieta” (Triennale di Milano, 2017), Crossing Boundaries Physical and Mental. Voluntary and Involuntary, immagini, parole colori si accavallano inquieti disegnando uno spazio mentale ed emotivo carico di tensione.
Crossing Boundaries Physical and Mental. Voluntary and Involuntary, 2012-2017
Crossing Boundaries Physical and Mental. Voluntary and Involuntary, 2012-2017
Crossing Boundaries Physical and Mental. Voluntary and Involuntary, 2012-2017
Al Castello di Rivoli è da poco stata inaugurata una retrospettiva con molte opere dell’artista (visitabile fino al 7 gennaio 2018).
La sensazione che si prova, muovendosi tra i suoi lavori, è quella di viaggiare in luoghi tra di loro lontani e in tempi ancora più distanti. Anna Boghiguian si è formata in scienze politiche in Egitto, poi in Canada ha studiato musica e arte; si interessa di letteratura, poesia e filosofia. Gli spunti di riflessione da cui prendono corpo i suoi lavori sono molteplici, anche se ruotano prevalentemente intorno all’uomo e al suo rapporto con la storia e la politica.
All’ingresso della Manica Lunga del castello di Rivoli, tra la serie dei suoi libri d’artista, troviamo disegnati piccoli capolavori, come l’albero e i frutti di melograno, parte di una serie di più di quattrocento fogli, in parte perduti, lavorati con gouache, acquarello, pastello, scrittura a mano, collage; spesso tratta i colori ad encausto .
ZYX – XYZ, 1981 – 1986, Castello di Rivoli
ZYX – XYZ, 1981 – 1986, Castello di Rivoli
Il melograno da sempre simbolo della terra armena, è reso con segno fortemente espressionista, carico di suggestioni che rimandano alle sue radici.
Come non ricordare le stupende immagini del film sperimentale “Il colore del melograno” realizzato da Sergei Parajanov, nel 1968, su di un poeta armeno del Settecento?
Così colpisce l’immagine di Everan, antichissima città armena, ai piedi del Monte Ararat:
ZYX – XYZ, 1981 – 1986, Everan, Castello di Rivoli
Dialogano con i quaderni esposti su una lunga mensola, tre grandi disegni appesi alla parete, con vedute di Alessandria d’Egitto, a carboncino e pastelli su carta:
Alessandria d’Egitto, 2003, Castello di Rivoli
Nei progetti artistici di Anna Boghiguian molto spazio trovano le riflessioni sulla storia del Novecento, sui grandi conflitti mondiali e le loro origini; in particolare nell’intervento Sinfonia incompiuta del 2011-12, proposto a Documenta a Kassel, allestisce tende militari, oggetti e disegni che ripercorrono le tragedie del “secolo breve”.
Sinfonia incompiuta, 2011-2012, Castello di Rivoli
Sinfonia incompiuta, 2011-2012, Castello di Rivoli
La sua ricerca continua essere molto attuale, come evidenzia questa pagina manoscritta, parte di un lavoro del 2013, ispirato dalla figura del poeta indiano Tagore:
Il riallestimento dei “Mercanti del sale”, a Rivoli, opera da lei esposta a Istanbul nel 2015, oltre oltre alle riflessioni sulla storia apre a tematiche che si confrontano con le risorse naturali e agli equilibri economici e sociali che lo sfruttamento delle stesse determinano.
I mercanti del sale, 2017, Castello di Rivoli
“L’opera è composta da grandi vele dipinte appese al soffitto, tramite corde e collage su carta montati su strutture lignee, frammenti di imbarcazione, cumuli di sale e sabbia, fili di lana rossa, che si riferiscono alla figura di Penelope, e altri vari oggetti” (dal pannello della mostra a Rivoli).
Gli spunti poetici che l’artista ci propone sono come tanti piccoli frammenti di mondo che in trasparenza si ravvivano grazie alla luce. Piccoli quadri che raccontano con passione l’amore per la vita, nonostante tutto.
I mercanti del sale, 2017, Castello di Rivoli
I mercanti del sale, 2017, Castello di Rivoli
Il viaggio tra passato e presente, storie antiche che si fanno attuali, radici che riemergono da lontani paesaggi e racconti si affollano tra le pagine dei diari di Anna Boghiguian, vergate con forza, energia, espressione di una carica vitale e di un vorticoso dinamismo. Diventano colore vivo e dilagante, forme che si stratificano, collage polimaterici che lasciano piccole ma intense tracce della nostra condizione umana.
I mercanti del sale, 2017, Castello di Rivoli
Mi piace lasciare quest’ultimo frammento visivo, che come un’opera d’arte che si rispetti, condensa segni, simboli e una moltitudine di significati, a testimoniare il fascino magnetico dell’arte di Anna Boghiguian.
È un cammino all’interno di uno sguardo prevalentemente femminile; non nel senso di divisione di generi, ma inteso come presenza invisibile di una moderna Atena, dea delle “attività creatrici”, tra cui, soprattutto, la tessitura, ma non solo, che a Venezia diviene un medium pervasivo, ma necessario, per provare a ricucire un mondo che sta implodendo.
Con un lavoro puntiglioso che riflette anche la qualità/virtù della “sapienza” dell’antica dea, Christine Marcel raccoglie esperienze di artisti volte a creare comunità, a ricostruire momenti di socialità e di condivisione, anche attraverso la leggerezza, il gioco, la danza e il “rito”, esprimendo il desiderio di provare a governare la complessità del mondo senza lasciarsi travolgere dalla tragedia del male.
Opere avvolgenti, morbide, tessuti, pelli che rivestono
Il Leone d’oro all’artista tedesco Franz Erhard Walther (1939), qui presente con Wallformation, sintetizza uno tra i principali significati di questa mostra: le installazioni murali, tra pittura e scultura, create con materiali e tessuti intensamente colorati, invitano lo spettatore ad una piacevole immersione fisica e sensoriale.
Sullo sfondo un elemento a parete del progetto di Franz Erhard Walther, Wallformation e in primo piano spazio labirintico metafora di percorsi difficoltosi, creato dall’argentino Martin Cordiano,
L’artista marocchino Achraf Touloub (1986), con le sue “Pelli“, intreccia tradizione e modernità:
Katherine Nunez (1992) e Issay Rodriguez (1991), giovani filippine, propongono libri in tessuto, carte lavorate e accessori da ufficio ad uncinetto:
Katherine Nunez end Issay Rodriguez, In Between the Lines
David Medalla, (1938, Manila), fa creare il lavoro dalle tracce impresse e ricamate dai visitatori della mostra liberamente su di un lungo tessuto sospeso:
David Medalla, A stitch in Time
Cogliamo nelle differenti proposte un disperato bisogno di comunicare, di “collegarci”, di tessere relazioni, scambiarsi idee ed esperienze realizzando trame e orditi coloratissimi.
Maestra di questa ricerca è sicuramente Maria Lai, artista sarda recentemente scomparsa, alla quale la curatrice ha consegnato un ruolo fondamentale, “…immagine leggendaria della piccola ‘Jana’- fata benevola del folklore sardo – che tesse e impasta miti e ricordi sepolti nella memoria collettiva” ( dal Catalogo Viva Are Viva, 2017).
Maria Lai (1921-2013), libro cucito tra quelli esposti, realizzati tra il 1981 e il 2008I
E il libro, metafora del racconto e della comunicazione, della memoria personale e collettiva, nelle varie interpretazione degli artisti, invade gran parte degli spazi della mostra.
Il giovane kosovaro Petrit Halilaj (1986) disegna fogli di libri/abbecedari immergendosi nella propria sofferta infanzia, segnata dalla fuga dalla guerra, trasformando una parete nel ricordo di un caleidoscopio insieme di segni, calligrafie, grafismi e illustrazioni:
C’è una costante consapevolezza del dolore dell’esperienza umana che si evince dalla proposta di lavori artistici volti ad esorcizzare il male e riscattare i valori più elementari dell’uomo.
La solitudine e lo sgomento che leggiamo nelle le figure di Firenze Lai (1984, Hong Kong), come le trasparenti e fragili sagome femminili di Kiki Smith (1954), o le impenetrabili e labirintiche tracce disegnate su corpi da Huguette Caland (1931, Beirut) ci raccontano di lacerazioni profonde e fratture di identità.
Firenze Lai, Shoulder Pain, 2012
Firenze Lai, Autism, 2013
Kiki Smith, Garland, 2012,inchiostro e collage su carta nepalese
Huguette Caland, Christine, 1995
Risuona costante l’urgenza del rito.
Meraviglioso è il progetto di Maria Lai (1921-2013), Legarsi alla montagna, del 1981, lavoro artistico che ha coinvolto la popolazione del suo paese, Ulassai, per costruire un collettivo Monumento ai Caduti, tramite un nastro azzurro che ha legato il paese alla propria montagna, sulla suggestione di un’antica leggenda del luogo; operazione difficile, ma riuscita, di partecipazione collettiva e attiva.
Un’immagine del video-documento dell’esperienza di Maria Lai e due foto dell’evento di Piero Berengo Gardin:
Monumentale è la ricostruzione del lavoro artistico-antropologico di Ernesto Neto (1964, Brasile), con la grande tenda che riproduce la “Cupixawa”, luogo di socializzazione, incontri politici e cerimonie spirituali degli indios amazzonici:
Ernesto Neto, Cupixawa, cotone, poliammide, marmo, sabbia, rafia, legno compensato, cristallo di rocca, ametista, amazzonite, perline di vetro, palle in vinile, pepe, chiodi di garofano, curcuma, zenzero, lavanda, strumenti musicali, candele. Ernesto Neto, Cupixawa
Il video di Marcos Avila Forero (1983, Parigi, lavora a Bogotà) presenta il progetto Atrato, in cui ridà vita alla tradizione delle popolazioni afroamericane di suonare percussioni, cantando, nel fiume Atrato, che attraversa la foresta di Choco in Colombia, linguaggio di comunicazione.
Marcos Avila Forero, fotogramma del video Atrato, 2014
Planetary Dance della coreografa americana Anna Halprin (1920, Usa), è un lavoro in cui la danza e il movimento mettono in gioco il corpo in relazione ad eventi e problemi sociali da affrontare comunitariamente:
Anna Halprin, Planetary Dence, 2003, foto della performence; schemi di studi coreografici
Senso del rito come antidoto all’individualità imperante del nostro tempo e anche “terapia” contro gli integralismi che minacciano la nostra terra.
E il rito coinvolge il corpo, il nostro corpo, che si fa mezzo artistico per costruire un “nuovo umanesimo”, espressione tratta dalla presentazione della curatrice alla propria mostra.
Acuta è l’intuizione di esplorare con grande rispetto le culture del mondo, anche quelle più ancestrali, di entrare nel tessuto più profondo dell’uomo per farne emergere la natura sociale.
Per ricucire le diversità, oltre gli steccati e i confini.
Riti che ricollegano l’uomo alla natura, pur non demonizzando la tecnologia (presente in abbondanza nelle opere), pongono l’urgenza di costruire un nuovo equilibrio tra uomo, natura e cultura. E il richiamo al “Terzo Paradiso” di Michelangelo Pistoletto, presente sull’Isola di San Giorgio in una mostra collaterale, è un necessario omaggio al grande artista.
Olafur Eliasson (1967, Copenaghen) porta all’interno del salone centrale dei Giardini Green Light – An artistic workshop, creazione collettiva di lampade ecosostenibili, con la partecipazione di giovani rifugiati, studenti, e pubblico. Qui un ‘immagine del lavoro:
Cerchi disegnati, vissuti, realizzati.
La forma simbolica del cerchio che accomuna molte esperienze di azione pubblica e sociale si ritrova in altri progetti artistici.
Il cerchio ricorre nel lavoro della giovane artista Adelita Husni-Bey (1985), del Padiglione Italia. Un gruppo di ragazzi, seduti in cerchio, discutono tra loro a partire dalle carte dei tarocchi, arcani/pretesto per riflettere sui temi che riguardano la loro vita, il loro futuro; sul pavimento dell’installazione-video linee morbide definite da fili di sferette luminose disegnano forme curve e sinuose guidate da calchi di mani, strumento di disegno/creazione artistica.
Adelita Husni-Bey, The Reading / La Seduta, 2017
E, una lenta danza sul cerchio, con richiami alle “hore” balcaniche, ci viene proposta nel magico e surreale video Gardens di un’altra giovane artista, russa, Sasha Pirogova, (1986), nel Padiglione Russo, quale riflessione tra vita/luce e morte/oscurità, cercando nell’oscurità il principio della luce.
Nel Padiglione di Grenada, Jason de Caires Taylor (1974) documenta il proprio lavoro Vicissitudes; alcuni fotogrammi restituiscono la forza espressiva propria al girotondo di calchi di bambini di varie etnie immerso sui fondali marini, installazione mutevole nel tempo, che evoca molti significati:
Jason deCaires Taylor, Vicissitudes, 2016. Cemento con PH neutro e alghe coralline vive, 26 figure a grandezza naturale a 5 m di profondità.
Ancora, la fiaba nigeriana allestita dall’artista Peju Alatise (1975) in Flying Girs, viene illustrata con un dinamico movimento rotatorio di giovani donne alate, tra voli di farfalle e rondini:
Sfera, forma della fragilità/sacralità del mondo.
Siamo come palloncini colorati che galleggiano incerti, legati da un filo invisibile, ma cullati dal mare; possiamo scoppiare, colpiti, ma subito un altro palloncino coloratissimo è pronto a rinascere; Balloons in The Sea di Hale Tenger (1960, artista turca), è un’installazione multimediale poetica e profonda).
Hale Tenger, Ballons in The Sea, 2011, installazione video a sette canali con sonoro
Sfere di pietra con trame marmoree come pianeti caduti dal cielo a terra ci inquietano parlandoci con improbabili sussurri di Alicja Kwade (1979, polacca):
Sferoidali sono i gomitoli enormi e coloratissimi che tappezzano la parete di fondo dell’Arsenale, nella Scalata al di là dei terreni cromatici allestiti dall’americana Sheila Hicks (1934):
Quasi sferici sono i 77 deliziosi e quasi immateriali berretti di lana marocchini appoggiati sul pavimento, illuminati all’interno da una fonte di luce calda, dell’artista marocchina Younès Rahmoun.(1975); l’installazione, Taqiya Nur, è una meditazione sacra sul significato della luce, quale verità, da svelare.
Sferico è anche il sole nei 44 tramonti filmati da Charles Atlas (1949 Usa): una magnetica videoinstallazione accompagnata da suoni suggestivi e da un cronometro che misura con un conto alla rovescia il tempo del tramonto e, dopo il buio assoluto, una tenera drag quinn che racconta di sé e della politica americana.
Emisferiche e convesse sono le numerose gocce di ceramica dorata, depositate a terra su lastre si metallo nero, sparse nell’ampio salone dell’Arsenale, dell’artista cinese Liu Jianhua (1962), una ricerca intorno agli opposti, materiale liquido/solido, opaco/lucido, luce/ombra, che ha rimandi alla filosofia buddista.
Massicce e giocosamente minacciose sono le meteore colorate sospese nel Padiglione della Gran Bretagna, allestite dall’artista inglese Phyllida Barlow (1944):
5. Gettati nel mondo
Molti Padiglioni Nazionali premono tutt’attorno gettandoci con forza nel mondo e nei problemi urgenti della contemporaneità.
Forte è l’odore di muffa che ci perseguita nel Padiglione Israeliano: odore di materia che si decompone, lento e inesorabile deterioramento che rende quasi insopportabile la permanenza all’interno dello spazio; siamo tuttavia catturati dal meraviglioso paesaggio che la muffa disegna sulle pareti, attratti dalla bellezza della forma e del colore. Gal Weinstein, con Sun Stand Still tenta di “bloccare” il tempo, recuperando dal degrado la possibilità di un riscatto:
Simile sensazione di forte odore di putrefazione e di costrizione faticosa e si vive percorrendo la galleria post-umana creata da Roberto Cuoghi nel Padiglione Italia: Imago Christi è un lavoro complesso, difficile, intrigante, che nasce da una sollecitazione, radicata nella nostra terra, tratta dal titolo Il mondo magico, di Ernesto De Martino. E’ il desiderio di “eternare” l’uomo, con l’atto creativo di modellare la forma di un corpo-Cristo, corpo che nel percorso si deteriora, si corrode decomponendosi e, nonostante il tentativo estremo di bloccarne l’integrità con la mummificazione, si ritrova frantumato per parti, braccia, testa gambe, appeso alla parete come reliquia, frammenti fissati in un disperato tentativo di conservazione della vita.
Roberto Cuoghi, Imago Christi
Ansia, paura del vuoto, smarrimento si vivono camminando sul pavimento trasparente, sospeso, del Padiglione Tedesco (premiato con il leone d’oro), e su ciò che rimane sotto di noi, detriti, tracce di vita vissuta, a documentare la lunga e intensa performance di Anne Imhof (1978), purtroppo presente, con i suoi interventi, solo nei giorni dell’inaugurazione:
Anne Imhof, Padiglione Tedesco
L’angoscia che pervade il nostro mondo minacciato costantemente dalla violenza del terrorismo si rende percepibile nella coinvolgente e fantasmagorica installazione ambientale dell’artista Grisha Bruskin, Theatrum Orbis: un mondo fantastico di forme fisse e in movimento, tutte bianche in ambiente nero, ci racconta il rapporto tra potere e controllo delle masse, tra integralismi e gesti irrazionali e violenti.
Grisha Bruskin, Scene Change, 2016-2017
Violente repressioni e genocidi denunciati nel Padiglione Cileno da una selva di maschere terribili, simulacro di tutte le vittime che sopravvivono nonostante lo Stato abbia tentato di cancellarle dalla memoria; il Werken, messaggero, rappresenta la comunità mapuche sterminata di cui i nomi, in led rossi, scorrono ossessivamente in cerchio sulle pareti dell’ampia sala.
Bernardo Oyarzun, Werken
Suoni, musica, voci anche sussurrate accompagnano molte installazioni, presenze sonore che ci catturano e leniscono a tratti il senso di disorientamento, se non di forte disagio, che alcuni padiglioni nazionali comunicano.
E’ l’avviso di una presenza, la necessità di porsi in ascolto, la possibilità di aprire un dialogo. Il Padiglione Turco, così come quello Francese, o il percorso suggestivo nei Giardini all’Arsenale, creato dal giovane Hassan Khan, lavori molto diversi tra loro per medium e progetto artistico, risultano comunque affini per il significato che ricercano.