59ª Biennale di Venezia: Polonia, Malgorzata Mirga-Tas

Malgorzata Mirga-Tas (1978), Reincantare il mondo – Segno dei gemelli, 2022 – installazione tessile
Padiglione della Polonia, 59ª Biennale di Venezia

Colori e forme, come emozionanti fuochi d’artificio, accolgono il visitatore nel Padiglione della Polonia.

Il coinvolgimento dello spazio architettonico, dato dal completo rivestimento delle pareti con installazioni tessili, suggestivi arazzi disegnati con tarsie di tessuti variopinti, reinterpreta il ‘Ciclo dei mesi’, rinascimentale, di Palazzo Schifanoia di Ferrara.

Il complesso impianto iconografico traslato da Ferrara permette a Malgorzata di narrare la storia e la cultura della propria etnia rom, creando una composizione in cui figure, architetture e paesaggio, si susseguono ritmicamente scanditi dal passare dei mesi.

Malgorzata Mirga-Tas (1978), Reincantare il mondo – Segno dell’ariete, 2022 – installazione tessile
Padiglione della Polonia, 59ª Biennale di Venezia

La struttura del racconto si articola in tre registri:

1. in alto, immagini dei viaggi del popolo nomade, Out of Egypt, tratte dall’iconografie delle stampe seicentesche di Jacques Callot, Les bohémiens en marche. Se nei disegni di Callot il vagabondare del popolo rom veniva rappresentato in modo ostile, dando voce alle paure che lo straniero sconosciuto suscitavano tra la gente, Malgorzada capovolge tale interpretazione per superare stereotipi ancora molto diffusi:

Malgorzata Mirga-Tas (1978), Reincantare il mondo – Segno dell’ariete, part., 2022 – installazione tessile
Padiglione della Polonia, 59ª Biennale di Venezia

2. al centro, la rappresentazione ‘Herstories’; decani e segni zodiacali, vengono riletti dall’artista con figure della propria gente, ritratti di donne dal proprio popolo:

Malgorzata Mirga-Tas (1978), Reincantare il mondo – part., 2022 – installazione tessile
Padiglione della Polonia, 59ª Biennale di Venezia

3. la fascia inferiore mette in scena momenti della vita quotidiana del popolo rom, in particolare della sua famiglia e dei suoi amici:

Malgorzata Mirga-Tas (1978), Reincantare il mondo – part., 2022 – installazione tessile
Padiglione della Polonia, 59ª Biennale di Venezia

Il progetto dell’intervento artistico è stato ispirato dal libro di Silvia Federici, ‘Re-incantare il mondo. Femminismo e politica dei “commons” ‘(2019) e dalla proposta di ricostruire una solidale comunità tra persone, fauna, flora e natura, rigenerando il mondo sotto un nuovo incantesimo. Il ruolo principale in questo processo spetta alle donne, definite dall’autrice ‘le meravigliose maghe delle leggende’.

Per la prima volta una donna artista rom viene incaricata di allestire un padiglione alla Biennale di Venezia; questa scelta si allinea coerentemente all’impostazione della curatrice Cecilia Alemani, volta a dar voce nell’esposizione alle culture artistiche marginalizzate.

Testo e foto di Ivetta Galli

59ª Biennale di Venezia: Turchia, Füsun Onur

Füsun Onur (1939), Once upon a time, Dance, 2022 – filo metallico, carta crespa, tulle, palline da ping pong,
Padiglione della Turchia, Arsenale, Venezia

Galleggiano leggeri e fragili, su bianche piattaforme, i protagonisti di questa favola messa in scena da Füsun Onur: cani e gatti si alleano per contrastare il potere agito dagli uomini sull’ambiente, distruggendo gli equilibri naturali e generando effetti devastanti, non ultimo, la pandemia di Covid.

L’artista del Padiglione Turco visualizza la nostra situazione di uomini di fronte alla diffusione del virus utilizzando un linguaggio che coglie in pieno tutta la fragilità e l’incertezza della nostra specie.

Füsun Onur (1939), Once upon a time, 2022 – filo metallico, carta crespa, tulle, palline da ping pong,, filo di rame
Padiglione della Turchia, Arsenale, Venezia

Cani e gatti, come in ogni favola che si rispetti, incarnano le esperienze e i vissuti degli umani, paure, preoccupazioni, ma vivono anche i momenti più emozionanti della vita, la collaborazione per risolvere un problema, momenti di festa, incontri d’amore.

Füsun Onur (1939), Once upon a time, 2022 – filo metallico, carta crespa, tulle, palline da ping pong,, filo di rame
Padiglione della Turchia, Arsenale, Venezia

A loro l’artista sembra affidare il compito di ‘salvare l’umanità’, proponendo un necessario ribaltamento di visione dei rapporti tra le specie viventi, riflessione ricorrente all’interno della Biennale.

Per apprezzare i dettagli di questa estesa messa in scena dobbiamo curvarci, accovacciarci, dialogare con un mondo in miniatura, alla caccia di particolari che la nostra vista, superficiale, spesso non coglie. Füsun ci sfida anche in questo, non solo decostruendo linguaggi più aulici e tradizionali, ma anche costringendoci a ‘farci piccoli’, a metterci allo stesso livello dei suoi protagonisti. Così troviamo una feroce denuncia nei confronti dell’antropocentrismo costruita con poesia e delicatezza, con sensibilità e serenità.

Füsun Onur (1939), Once upon a time, 2022 – filo metallico, carta crespa, tulle, palline da ping pong,, filo di rame
Padiglione della Turchia, Arsenale, Venezia

Accompagna il racconto il tema del viaggio in mare, immaginando i protagonisti partire da Istanbul per arrivare a Venezia, per trovare alleati alla propria impresa. E il racconto si ferma lì, rimane sospeso, in coerenza con l’atmosfera di sogno, così poeticamente allestita.

Testo e foto di Ivetta Galli

59ª Biennale di Venezia: Uganda, Acaje Kerunen e Collin Sekajugo

Acaje Kerunen, Radience – They Dream in Time, 2022 – Padiglione Uganda, Palazzo Palumbo Fossati, Venezia

Persi tra i labirinti di calli e rii veneziani, giungiamo finalmente al Padiglione dell’Uganda, in Palazzo Palumbo Fossati, scrigno prezioso dei lavori di due artisti quarantenni ugandesi, Acaje Kerunen e Collin Sekajugo.

Un’energia vitale sprigiona dalle opere dei due protagonisti, esposte in dialogo tra loro.

Acaje Kerunen è un’artista multidisciplinare, spazia tra performance, installazioni, scrittura, recitazione ed attivismo politico.

Acaje Kerunen, Ouganda, 2021 – Mixed Media, Palazzo Palumbo Fossati, Venezia

L’artista, per la realizzazione dei suoi lavori, ha coinvolto le donne della propria terra, creatrici di ceste, tappeti, borse, stuoie, per riannodare, in un percorso di crescita collettiva, gesti e motivi della cultura indigena; dall’intreccio di fibre vegetali presenti in loco, di banani e sorgo, da foglie di palma, dalla rafia, ha dato loro la possibilità di affermare con orgoglio il proprio ruolo e la propria esistenza.

Acaje ha curato l’aspetto formale, l’accostamento cromatico, trasformando oggetti d’artigianato in opere d’arte. Con quest’intervento artistico ha realizzato alcuni dei suoi obiettivi sociali e politici: l’affermazione del lavoro delle donne, in funzione di un riscatto definitivo dallo sfruttamento coloniale e patriarcale, la ricerca di un dialogo con gli elementi naturali, motivo urgente di fronte alle tematiche ecologiche attuali.

Nell’installazione Rain of Prayer, una fitta presenza di nastri intrecciati che cadono dall’alto, rievoca un rito antico volto ad augurare la pioggia (quanto necessario lo comprendiamo oggi, in questo periodo di siccità!).

Acaje Kerunen, Rain of Prayer, 2022 – Mixed Media, Palazzo Palumbo Fossati, Venezia

L’emersione di una antica cultura africana, riletta in chiave artistica contemporanea, portata alla luce con un intento quasi antropologico, accanto alla voce data alle donne e al loro fare creativo, volto alla cura delle persone e alla progettazione di un ambiente accogliente e collaborativo, è un tema ricorrente nella 59ª Biennale, curata da Cecilia Alemani.

Acaje Kerunen, Radience – They Dream in Time, 2022 – Padiglione Uganda, Palazzo Palumbo Fossati, Venezia

Accanto alla ricerca di Acaje si impongono i dipinti di Collin Sekajugo: potenti tele, dipinte con acrilici, con inserti a collage di stoffa di corteccia o cotone cerato, utilizzando ciò che la tradizione ugandese offre.

Collin Sekajugo, due opere della serie Stock Image 0 in ‘Radience – Dream in Time’, 2022 – Padiglione Uganda, Palazzo Palumbo Fossati, Venezia

Ritratti di persone rubati in momenti di intimità, spontanei e profondamente umani; frammenti di racconti di quotidianità e di vissuti. Figure che si perdono tra pezze decorative di tessuti o carte da parati, pattern di simboli che ci ribaltano nella cultura africana. Trame ritmiche di tinte cariche e sature in primo piano, più smaterializzate, quasi al confine del sacro, sul fondo, per rimarcare la tensione emotiva narrata.

Collin Sekajugo, Stock Image 001 – Boy In Wheelchair, 2021 e Stock Image 010 – Falling in love, 2018-21

L’artista coglie frammenti di realtà, trasfigurati in cromie e decorazioni che ne avvolgono le sembianze, documentando il desiderio inarrestabile di superare una condizione di subalternità alle culture ed economie eurocentriche, per rivendicare con orgoglio la propria esistenza.

Testo e foto di Ivetta Galli

Otobong Nkanga, Agnieszka Kurant, Bracha Ettinger:

percorsi nello spazio, nel tempo e nella memoria

Bracha Ettinger, Notebooks, 1984-2021 – Castello di Rivoli

Salire e scendere le numerose rampe sospese del Castello di Rivoli rappresenta un buon viatico al viaggio che si intraprende immergendosi nei progetti artistici di tre protagoniste del mondo contemporaneo: Bracha Ettinger, nata nel 1948 a Tel Aviv, Otobong Nkanga, nel 1974 a Kano (Nigeria) e Agnieszka Kurant, nel 1978 a Lodz (Polonia).

Otobong Nkanga, Of Cords Curling around Mountains, installazione site-specific, 2021Castello di Rivoli

Le artiste, che utilizzano mezzi espressivi anche molto differenti, frutto della loro formazione e cultura, con i progetti esposti danno forma ad alcuni ‘topos’ ricorrenti, quali: la figura del paesaggio, della mappa geografica e della rete di connessione tra luoghi, storie e vissuti; la corda, la linea, il filo, il segno che può delimitare, contenere, e anche legare, intrecciare o tessere collegamenti tra nodi, punti significativi.

Agnieszka Kurant, Maps of Phantom Islands, 2011, pigmenti di colore su carta cartone – Castello di Rivoli

Al fondo di molti lavori si percepisce un senso di perdita, nella coscienza di vite e di mondi inorganici che si esauriscono e si trasformano e, nello stesso tempo, si fa il forte il desiderio di ricreare e modellare, attraverso la bellezza dei procedimenti artistici, lo spazio in cui siamo immersi.

Otobong Nkanga

Otobong Nkanga disegna, al terzo piano del Castello, un planisfero multisensoriale disponendo una corda che inanella sculture di forma organica, simbolo della terra, degli alberi, di bozzoli di esseri viventi, ricchi di concavità che raccolgono erbe ed olii curativi e profumati, frammenti delle risorse naturali della sua terra, o sfere che diffondono piacevoli voci narranti.

La corda, intrecciata manualmente con fili di cotone, è il ‘filo conduttore’ che penetra le pareti delle sale del piano, invitandoci ad esplorare l’al di là del muro, con un percorso di sorprese successive, fino a trovare il “tesoro”, due morbidi e vivaci tappeti, dalle nervature del quarzo e della malachite, da cui la corda ha origine.

Materiali e risorse naturali, di cui è ricca la terra africana, immagine di una cultura troppo a lungo colonizzata e sfruttata, diventano gli elementi protagonisti dell’intervento di Otobong: l’artista lavora recuperando un operare artigianale, manipolando sapientemente le ‘materie’ in modo sostenibile ed ecologico.

Sulle pareti dipinte, di un giallo caldo, Otobong traccia versi poetici, quasi cassa di risonanza al richiamo della nostra responsabilità alla cura degli elementi del mondo naturale, della vegetazione, della materia organica ed inorganica che supporta la nostra vita. Una ‘poetica’ denuncia anche del pesante sfruttamento coloniale delle risorse africane.

Agnieszka Kurant

Agnieszka Kurant costruisce i propri progetti sfruttando le potenzialità dell’intelligenza artificiale, convinta che ciascuno di noi può influenzare i cambiamenti nella collettività utilizzando, in particolare, le risorse del mondo digitale. Nello stesso tempo l’artista sceglie modalità di intervento volte a sostenere gruppi e associazioni che operano politicamente per informare criticamente sull’uso dei social media.

Agnieszka Kurant, Conversions 2019-2021- frame1 – Inchiostro a cristalli liquidi su lastra di rame, programmazione personalizzata, transistor 58 3/4 x 36 3/4 pollici – Castello di Rivoli
Agnieszka Kurant, Conversions 2019-2021- frame2 – Inchiostro a cristalli liquidi su lastra di rame, programmazione personalizzata, transistor 58 3/4 x 36 3/4 pollici – Castello di Rivoli

Il dipinto a cristalli liquidi produce un’immagine in trasformazione che richiama un paesaggio notturno registrato da droni che colgono punti-luce di una mappa in evoluzione.

La dilatazione dei punti colorati è determinata dall’intensità delle emozioni di attivisti che partecipano a manifestazioni di protesta, rilevata ed elaborata da algoritmi che attingono, dalle banche dati dei social media, tali informazioni.

In Adjacent Possible, Agnieszka Kurant utilizza migliaia di immagini di segni grafici dei dipinti rupestri Asiatici ed Europei, raccolte in archivi di dati, per generare, attraverso procedimenti algoritmici, nuovi segni, che risultano frutto di un’intelligenza collettiva. L’artista costruisce un ponte con un passato lontano rielaborando tracce di impronte preistoriche attraverso strumenti digitali.

Agnieszka Kurant, Adjacent Possible, 2021, pietra di Luserna e pigmenti vivi – Castello di Rivoli

Il supporto, la pietra di Luserna, viene ricoperto da segni realizzati con pigmenti vivi, cioè da una miscela studiata osservando la trasformazione dei colori dei dipinti paleolitici, dovuta alla colonizzazione nel tempo di batteri e funghi; l’artista, con la collaborazione di biologi, ha sintetizzato nuovi pigmenti utilizzando particelle di funghi, licheni, coralli e meduse.

Agnieszka Kurant sperimenta con la sua ricerca il concetto che l’opera d’arte può essere frutto dell’intelligenza artificiale e dell’intelligenza collettiva, umana e non, mettendo in discussione il tradizionale concetto di ‘autorialità’.

Bracha Ettinger

Paesaggi dell’inconscio, mappe di frammenti della memoria, sono tracciati da Bracha Ettinger sui taccuini, utilizzati anche nell’attività di psicanalista e, per questo, ricchi anche di note scritte, in inglese, ebraico e francese. Nootebooks che vengono poi rilegati a mano con estrema cura, racchiusi in copertine di tessuto, ricamate con simboli, segni, note varie e nastri colorati.

Bracha Ettinger, Notebooks, 1984-2021 – Castello di Rivoli

Bracha Ettinger, filosofa, psicoterapeuta e artista, dà forma ad una materia complessa, quale è il territorio della nostra parte più oscura, utilizzando una gamma cromatica definita: il rosa, il color glicine, nelle sue sfumature anche più intense di viola, la gamma dal grigio al nero.

Bracha Ettinger, Notebooks, 1984-2021 – Castello di Rivoli

La raccolta dei taccuini, giacimento prezioso anche per i contenuti che raccolgono di riflessione e documentazione psicanalitica, testimoniano quanto l’arte possa ‘curare e guarire’.

Bracha Ettinger, Notebooks, 1984-2021 – Castello di Rivoli

Della necessità di riparare traumi, si fanno testimoni anche i quadri dipinti da Bracha (i cui genitori sono sopravvissuti all’Olocausto), nati dall’elaborazione di fotografie del 1942 di donne e bambini ebrei nel ghetto di Mizoch (oggi Ucraina), prima di essere uccisi dai Nazisti.

Bracha Ettinger, Euridice n.54, 2015-16, olio su carta su tela – Castello di Rivoli

Le velature sovrapposte di colori evocano forme che, piegate dal dolore, si stringono disperatamente.

“Nei quadri, pur nell’infinità degli strati, nulla viene propriamente cancellato. In un processo che allude a un divenire infinito, essi liberano ‘memorie della dimenticanza’ che appaiono come fantasmi.” (da Il processo della pittura è senza fine di Marcella Beccaria, dal Catalogo alla Mostra su Bracha Ettinger al Castello di Rivoli, Skira 2021)

Viaggio nella memoria e nella storia, le opere autobiografiche di Bracha urlano il dolore della tragedia dell’Olocausto, aprono alle inquietudini e angosce dell’inconscio, eppure, magneticamente attraggono e confortano per la forza dell’elaborazione estetica.

Testo e foto di Ivetta Galli

CHEN ZHEN, ‘Short-circuits’. Le forme del pensiero

Opening of Closed Center, 1997, particolare dei ‘Pots de riz’

Finalmente si può tornare ad esplorare lo spazio dell’immaginario e della creatività degli artisti!

E l’Hangar Bicocca ci regala un affascinante viaggio nell’arte di Chen Zhen, artista cinese nato a Shangai nel 1955 e morto per malattia prematuramente nel 2000 a Parigi.

Le grandi installazioni che si incontrano durante il percorso della mostra aprono flash ‘illuminanti’ sulle tematiche della seconda metà del Novecento.

L’artista rielabora la propria esperienza plasmando forme pregne di simboli create con oggetti e materiali attinti dagli elementi che il pensiero taoista utilizza per descrivere l’ambiente che ci circonda, legno, fuoco, terra, metallo e acqua, e base della medicina tradizionale cinese, integrando le sue radici orientali alla cultura occidentale.

Le chemin/Le Radeau de l’écriture, 1991, particolare
Le chemin/Le Radeau de l’écriture, 1991

Mettiamoci in cammino dall’opera ‘Le chemin/Le Radeau de l’ecriture’, del 1991, seguendo un itinerario cronologico delle opere esposte, che non corrisponde alla collocazione delle stesse nello spazio espositivo.

Traversine ferroviarie in disuso, sulle quali l’artista incide il proprio nome, evocano il viaggio, memoria del proprio emigrare a Parigi, nel 1986; le travi di legno poggiano su giornali e libri deteriorati dall’uso e mescolati ai frammenti di roccia alla base. Natura, cultura, tecnologia si compattano in questa piattaforma alla deriva, motivi comuni alle culture dell’est e dell’ovest, facendoci percepire la vertigine della velocità delle trasformazioni in atto, sull’onda della globalizzazione.

Simile riflessione si coglie in ‘Le Rite suspendu/moullié’, opera dello stesso anno, concepita come riflessione sui medium del fare arte.

Chen Zhen ingabbia cornici di legno e strumenti tradizionali dell’operare artistico in teche di vetro e metallo, annegandoli in acqua, qua e là tinta di rosso. Il ‘rosso’ è forse l’unico colore che l’artista utilizza: memoria ‘visiva’ del suo vissuto infantili della lettura imposta del Libretto Rosso di Mao? Al centro delle quattro teche un gruppo di una decina di cilindri trattati in modo simile: contenitori di rotoli di antiche pergamene dipinte, preziosi documenti della storia della pittura cinese.

Chen Zhen, ora a Parigi, si apre ad un fare artistico contemporaneo sollecitato dalla rivoluzione dadaista facendo propri i linguaggi dei movimenti della seconda metà del Novecento: New-Dada, Nouveau Réalisme e Arte Povera.

In ‘Round Table’, del 1995 lo sguardo poetico di Chen Zhen, nutrito dai propri vissuti personali, si intreccia con i temi politici e sociali della propria epoca.

Round table, 1995

L’essenziale ed ampio tavolo di legno rotondo, luogo del pasto consumato nelle feste e spazio di incontro e di dialogo, qui richiama le ‘tavole rotonde’ delle Nazioni Unite, nazioni incarnate dalle sedie sospese di foggia diversa, attorno al cerchio centrale su cui sono incisi alcuni temi della Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo.

Round table, 1995 particolare

Diritti dell’Uomo ancora lontani da essere realizzati per tutti, come ci ricorda in ‘The voice of Migrators’, dello stesso anno.

The voice of Migrators, 1995

La forma del globo/mondo che ritorna nell’immaginario artistico di questi anni, simbolo dell’esplosione dei temi della globalizzazione, tinta di vari colori dei lacerti di vestiti intrecciati, emette, da altoparlanti, voci di uomini che raccontano storie di migrazione.

Chen Zhen, figlio di medici, scopre nel 1970 di avere una malattia autoimmune; la ricerca di terapie di guarigione lo induce ad approfondire la medicina tradizionale cinese ed a vivere esperienze di meditazione buddista; patrimonio che si riversa nel suo operare artistico, vissuto anche come cura.

Obsession de longévité, 1995, stanza che racchiude medicamenti della medicina tradizionale cinese

Lavoro suggestivo e ricco di simboli stratificati è l’installazione ‘ Daily Incantations’, del 1996.

Daily incantation, 1996

L’artista costruisce un’orchestra silente con strutture lignee a forma concava a cui sono appesi e allineati una serie di vasi da notte, sul modello di un antico strumento musicale cinese, il Bianzhong; la percussione delle campane di bronzo creava suoni e armonie musicali suggestive per la meditazione.

Bianzhong, from the Tomb of Marquis Yi of Zeng dated 433 BC

Ogni mattina mi recavo a scuola al suono dei vasi da notte che venivano risciacquati…”, racconta Chen Zhen. L’evocazione di questo umile gesto, come colonna sonora di un rito quotidiano, da un lato appare permeata da sottile ironia, dall’altro lato trasforma il vaso di legno in un prezioso scrigno artistico, oggetto di creazione artigianale e cassa di risonanza del ritmo vitale.

Daily incantation, 1996, particolare

Il grande globo che racchiude scarti di ferraglie di oggetti contemporanei legati alla riproduzione del suono elettronico, ripropone quel corto-circuito tra passato e presente, tra antichi e lenti tempi e vorticose mutazioni dell’oggi, generanti un “mondo di scarti”.

Daily incantation, 1996, particolare

Dal lavoro di Chen emerge una forte tensione spirituale, come il desiderio di ritualizzare momenti della quotidianità per ricreare un forte senso di collettività tra gli uomini; la propria esperienza personale/individuale è collegata a quell’energia universale di cui è solo una delle tante espressioni, come principio delle filosofie orientali.

In Crystal Gazing, del 1999, la limpida sfera di cristallo di una semplice ampolla di laboratorio, richiama la nostra attenzione dopo esserci avvicinati a una intrigante forma organica avvolgente, grande goccia d’acqua o utero o frutto, appesa ad una struttura lignea.

Racchiusa da file di sferette di legno, tratte dagli abachi per contare, ma anche palline per pregare dei rosari buddisti, la superficie convessa della sfera/mondo di cristallo, riempita di acqua fisiologica, riflette l’universo attorno capovolto, con le nostre piccole sagome.

Siamo piccole parte di quell’universo collettivo, siamo fragili e bisognosi di cura.

Chen Zhen era attratto dal mondo della medicina, a lui contiguo per i problemi di salute oltre che per motivi familiari; nel fare arte cerca e trova una funzione terapeutica e la grande ‘installazione relazionale’ ‘Jue Chang – Dancing Body – Drumming Mind (The last Song)’, del 2000, è concepita proprio come una summa della sua ricerca ed una proposta di apertura ad una partecipazione collettiva che, tuttavia, oggi, per il Covid 19, non è esperibile.

Jue Chang – Dancing Body – Drumming Mind (The last Song), installazione, 2000

L’artista assembla attorno ad uno spazio centrale sedie e strutture lignee di letti, intelaiati tra loro con uno spago che disegna una regolare maglia intrecciata; tende poi sugli oggetti pelle di vacca, come negli antichi strumenti di percussione, proprio per invitarci a battere ritmicamente insieme, danzando, creando una grande cassa di risonanza del nostro mondo emotivo.

Jue Chang – Dancing Body – Drumming Mind (The last Song), installazione, 2000, particolare
Jue Chang – Dancing Body – Drumming Mind (The last Song), installazione, 2000, particolare

Peccato non poter prendere parte a questo rituale di liberazione e gioia che nasce da una massima buddista per cui battere, colpendo le parti coinvolte in una disputa, viene considerato un modo necessario per risolvere i conflitti.

Il gesto si fa metafora della ricerca di un’armonia universale.

Uno sguardo disincantato ai conflitti violenti del mondo contemporaneo e un racconto del dramma dell’emigrazione/fuga soprattutto dei più giovani dalle proprie terre invivibili prende forma nell’opera ‘Six Roots Enfance/Garcon‘, 2000

Non servono commenti, il messaggio è esplicito per chi vuole capire.

Six Roots Enfance/Garcon’, 2000, installazione, tre particolari

L’ultima sala dell’esposizione, racchiude una riflessione sgomenta/serena sulla morte; ancora un corto circuito che Chen Zhen ci propone come lascito della sua intensa e affascinante ricerca artistica.

Lo stesso titolo, ‘ Jardin lavoir’, ci costringe a fare i conti con il concetto di trasformazione e ciclicità della vita, percezione che viene valorizzata dalla forma letto/fontana.

Undici letti/fontana sono distribuiti nell’ampio spazio cubico della sala; il pellegrinaggio che siamo invitati a percorre da un’opera all’altra, reliquie della nostra storia, ci permette di scoprire forme e colori che circondano la nostra esistenza e, come la nostra esistenza, diventano ‘nature morte’, oggetti che hanno una vita limitata, che nel tempo della storia e nella corrosione lenta determinata dall’acqua e degli elementi naturali, si riscatteranno, forse, in qualcosa d’altro.

Molto altro si può scoprire in questa mostra, di cui ho selezionato solo alcune opere; Chen Zhen si rivela essere un grande artista, interprete della seconda metà del Novecento.

Testo e foto di Ivetta Galli

UNA “BUONA NOVELLA” DIPINTA, CASTELSEPRIO – 7. FIGURE E CORNICI DEL CICLO

FIGURE

Il racconto dell’infanzia di Gesù si dipana su due registri, sulla parete dell’abside, proponendo una sequenza figurativa continua sui modelli dei ‘rotuli’ antichi; le scene, tuttavia, sono inquadrate da cornici (fasce rosse) che scandiscono il ritmo della narrazione, contenendo, in alcuni casi, più episodi.

La fascia superiore è inframmezzata da tre clipei, sopra le tre aperture dell’abside, dei quali solo quello centrale, con il Cristo Pantocratore, si è conservato; gli altri due probabilmente rappresentavano Maria, alla destra di Cristo, e Giovanni Battista, alla sua sinistra, disegnando la rappresentazione della Deesis.

L’icona del Cristo si impone per le dimensioni e per l’intensità dello sguardo, reso ancor più umano da un leggero strabismo. Un uomo maturo, coi capelli lunghi, un viso scavato, triangolare, coperto da una barba molto rada, quasi smaterializzato; nella mano sinistra Cristo stringe un ‘rotulo’ avvolto con riflessi luminosi e con la destra benedice, seguendo la tradizione bizantina: due dita unite, la doppia natura di Cristo e tre dita leggermente aperte, il richiamo alla Trinità.

I tre clipei/icone dialogano con la raffigurazione posta di fronte sull’arco trionfale: al centro è dipinto un medaglione, quarto clipeo, con l’etimasia affiancata da due arcangeli in volo, simmetrici; il modello riprende una composizione trionfale romana detta “sinassi”, la cui struttura si rifà al tema delle vittorie alate in volo e simmetriche che sostengono l’immagine dell’imperatore o altri alti dignitari.

L’etimasia dell’arco trionfale presenta un trono su cui sono posti una croce ed una corona, il sacrificio di Cristo e la sua vittoria sulla morte con la Resurrezione, l’insieme diviene il simbolo della sua seconda venuta.

Gli arcangeli simmetrici al trono rappresentano un alto brano di pittura, per la loro modellazione chiaroscurale e la dinamica leggerezza della loro disposizione; anche solo alcuni particolari permettono di coglierne la bellezza del segno dipinto.

Secondo C. Jolivet-Levy, la collocazione di due arcangeli all’ingresso del santuario (presbiterio), è attestata in molte chiese della Cappadocia, ed è legata al loro ruolo di protettori ed intercessori.

CORNICI

Al di sotto del registro narrativo inferiore corre un elegante cordone di forma cilindrica, sulla cui superficie è disegnata una sorta di embricatura, abbastanza regolare, con tinte a tratti alternate azzurro/rosso, avvolto da un nastro azzurro, interrotto da piccole pezze bianche, ad andamento elicoidale, dall’aspetto serico.

I disegni riportati nel testo di Bognetti, Castelseprio, guida storico-artistica, Neri Pozza Editore, del 1974, (immagine a sinistra) sono preziosi documenti per ricostruire questi particolari che, al tempo della scoperta dell’opera, erano meglio conservati.

In corrispondenza all’episodio dell’Adorazione dei Magi, il cordone esce da un vaso ad imbuto, secondo una modalità che ritroviamo in altre testimonianze che documento nell’approfondimento.

Parallela al cordone/festone, è dipinta una finta mensola sorretta da travicelli, in prospettiva, che accompagna, con la diversa inclinazione dei travicelli a destra e a sinistra, la concavità dell’abside, accentuandone virtualmente la forma ad esedra.

Come si vede nella foto le tracce rimaste sono molto labili.

Nella zona centrale, in asse col Cristo Pantocratore, alcuni frammenti di affreschi ci testimoniano l’immagine di un trono con cuscino e libro chiuso, dalla copertina gemmata, ora poco leggibile; una relazione simbolica lega il trono con il libro chiuso, il Vecchio Testamento che profetizza la venuta di Cristo, collocato in asse con l’icona di Cristo nel clipeo, il Signore incarnato, e, di fronte, il trono vuoto in attesa della sua seconda venuta.

A fianco del trono, tracce dipinte di due portali simmetrici, ad arco ribassato; sotto tali arcate, un’asticella reggeva velari chiari che, si presume, dovessero coprire tutta la parte inferiore dell’abside.

Si intravedono appena, purtroppo, adagiati sopra l’asticella, le sagome diverse di due colombe, disposte frontalmente, e, tra loro, il segno di una crocetta appesa ad una catenella pendente dall’arco.

Possiamo solo immaginare la meraviglia che doveva suscitare l’insieme dei dipinti, nella loro completezza, anche solo cogliendo la freschezza e il naturalismo di queste deboli tracce conservate!

APPROFONDIMENTO ICONOGRAFICO

ICONA DEL CRISTO PANTOCRATORE

Dal confronto proposto tra le diverse ma affini rappresentazioni del Cristo Pantocratore, risulta evidente la continuità del modello elaborato nella prima pregnante icona, conservata nel Monastero di Santa Caterina del Sinai e risalente al VII secolo; nell’immagine, capolavoro dell’arte bizantina, la doppia natura umana e divina di Cristo si fa concreta nel segno naturalistico tracciato dal pittore.

L’affresco di Castelseprio sembra riproporre il profondo significato dell’icona, tema che caratterizza l’interpretazione del ciclo nel suo complesso, oltrechè ricalcare alcuni elementi fisiognomici del busto del Cristo; tuttavia, al posto del codice gemmato, propone il rotulo di pergamena, particolare abbastanza raro tra le opere sopravvissute di questa iconografia.

La presenza del rotulo mi ha stimolato a ricercare altre immagini simili; dall’indagine sono emerse le testimonianze che ho riportato: dal mosaico bizantino perduto di Nicea, dell’XI secolo, affine anche per la composizione nel tondo; come al mosaico di Roma, nel Sacello di San Zenone, del IX secolo, L’altra icona conservata nel Sinai, di cui non ho trovato data, ripropone il rotulo pur scostandosi nella definizione del busto del Cristo. Infine il mosaico di Istanbul, più recente, ricalca in modo interessante il modello iniziale.

Proprio in merito al ‘rotulo’ ho trovato alcune immagini di Cristo rappresentato in catini absidali, parte di differenti iconografie; nelle rappresentazioni più antiche Cristo, a volte, è adolescente. Il rotulo appare frequentemente nelle rappresentazioni della “traditio legis” , con Pietro e Paolo, insieme o da soli, rivolti a ricevere da Cristo le leggi sacre. Nella sequenza proposta ci sono anche due miniature: una di origine armena del VI secolo, in cui il Cristo in Maestà tra Santi stringe nella mano sinistra il ‘rotulo’, l’altra, de IX secolo, di ambito carolingio. Durante il IX secolo, a Roma, sotto il pontificato di Pasquale I nei catini absidali compaiono più rappresentazioni di Cristo con rotulo.

DEESIS ED ETIMASIA CON ARCANGELI

La presenza dei tre clipei che interrompono il ciclo storico, dei quali solo quello centrale è ancora leggibile con l’immagine di Cristo, viene interpretata come rappresentazione della Deesis, Maria e Giovanni Battista a fianco di Cristo, che si fanno intercessori tra il popolo e Dio.

Tale motivo accompagnava spesso il ciclo dell’incarnazione, negli affreschi in Cappadocia, come evidenziato dalle analisi di C. Jolivet-Levy: “La presenza della Vergine e del Battista (a fianco di Cristo, n.d.r.) è caratteristica di tutta una serie di programmi absidali della Cappadocia (dal X secolo n.d.r.), ma rivela una tradizione probabilmente più largamente diffusa dall’epoca paleocristiana: lo testimoniano la decorazione dell’Ampolla n.20 di Bobbio (VI sec) e una miniatura del MS Vat gr. 699, f. 76, del IX sec., ma copia di un originale del VI di Cosmas Indicopleustes, che concordemente si considerano come il riflesso di decorazioni monumentali…

MS Vat gr. 699, f. 76, del IX sec. – Affiancano la ‘Deesis’, Zaccaria e d Elisabetta, mentre nei due clipei, Anna e Gioacchino.

il programma absidale … che subordina alla visione di Cristo in Gloria i testimoni principali dell’Incarnazione, proclama, inoltre, la doppia natura umana e divina di Cristo e i dogmi fondamentali dell’Incarnazione e della Redenzione: si può collocare la sua creazione nel contesto delle controversie cristologiche protobizantine e della lotta, particolarmente viva in Cappadocia, contro le eresie. Questa tradizione che afferma la validità della rappresentazione di Cristo in forma umana, fu ripresa, o mantenuta, nella regione dopo l’Iconoclastia.” (Catherine Jolivet-Levy, op. cit., p.340).

Una testimonianza della precocità della rappresentazione della Deesis in clipei, all’interno di programmi decorativi absidali, la troviamo nei mosaici che rivestono l’arco trionfale dell’abside del Monastero di Santa Caterina del Sinai, risalenti alla metà del VI secolo.

Particolare dei mosaici dell’abside e dell’arco trionfale della Basilica di Santa Caterina del Sinai, VI secolo

Il tema figurativo che incornicia la Trasfigurazione del catino absidale vede al centro dell’arco un clipeo con la raffigurazione dell’Agnello di Dio sovrapposto ad una croce greca, a cui due arcangeli simmetrici, in volo, con ali di pavone, offrono un globo e lo scettro entrambi crociati.

Sotto di loro, in due clipei, il volto di Giovanni Battista e quello di Maria.

Dalla lettura del testo ‘I mosaici della Basilica del Monte Sinai’ di Jerzy Miziolek (in Arte Cristiana 94, 2006), si evince che Kurt Weitzmann avrebbe ravvisato in questi soggetti una precoce rappresentazione della Deesis e l’autore dello studio citato interpreta il clipeo con l’Agnello una rappresentazione della seconda venuta di Cristo, l’Agnello dell’Apocalisse, seconda venuta celebrata anche con il simbolo dell’Etimasia; il riferimento al ritorno di Cristo sulla terra è sotteso anche all’iconografia della Trasfigurazione, qui in asse al medaglione dell’Agnello,

Notiamo un’affinità sorprendente tra le figure angeliche del Sinai e quelle di Castelseprio, compositivamente desunte dalle vittorie alate presenti nei monumenti romani celebranti figure imperiali.

L’artista di Castelseprio nel concepire il proprio raffinato programma teologico ha rielaborato figure e simboli radicati nelle rappresentazioni dei cicli decorativi liturgici dell’epoca di Giustiniano, come si evince anche dal mosaico presente a Ravenna, in San Vitale, coevo al VI secolo:

Troviamo anche un riscontro nel disegno degli affreschi persi di San Severo in Classe a Ravenna, datati al IX secolo, documento interessante oltre che per gli arcangeli simmetrici in volo disposti sull’arco, per la presenza dei clipei sopra le aperture centinate: sembra che quello a destra possa contenere un volto femminile, Maria, quello al centro ripropone l’Agnello di Dio, mentre non c’è più traccia del volto del terzo clipeo a sinistra.

Approfondendo gli studi dei cicli dipinti in Cappadocia si trova una riflessione interessante sull’intreccio simbolico tra rappresentazione della Deesis e dell’Etimasia; è sempre Catherine Jolivet- Levy che, nel descrivere gli affreschi dell’abside nord del Monastero dell’Arcangelo San Michele, dell’XI secolo, a Cemil in Cappadocia,  ci fa osservare che:

“La Vergine e il Battista…inquadrano la nicchia… La presenza simultanea della Vergine orante e del Battista profeta della salvezza, testimoni della venuta del regno di Cristo, rappresentato più in alto, al centro, richiama una tradizione più antica dei programmi absidali della regione….

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Disegno ricostruttivo del registro inferiore dell’abside nord di San Michele a Cemil, Cappadocia, XI secolo

Ma il programma che associa il ricordo dell’Incarnazione e della Redenzione alla evocazione della seconda venuta trionfale, tema strettamente legato tramite la liturgia della preghiera d’intercessione dei fedeli, è ugualmente attestato a Costantinopoli: il grande arco orientale di Santa Sofia, decorato verso il 1355, mostra il trono dell’etimasia (con la croce) tra la Vergine orante e Giovanni Battista”. ( Catherine Jolivet- Levy, op. cit. p. 160)

Un’ultima riflessione, infine, relativa al frammento del trono con libro, con copertina gemmata, adagiato su un cuscino, in asse con l’icona di Cristo, che rappresenterebbe la parola dell’Antico Testamento, dipinta al centro della parete absidale, quindi di fronte all’arco trionfale: questa figura richiama, sia per soggetto che per collocazione all’interno dell’abside, la struttura architettonica del ‘synthronon’, dipinta nell’episodio de “La prova delle acque amare”; un simile motivo è rappresentato nella miniatura del ‘Primo Concilio di Costantinopoli’, del MS gr. 510, del IX secolo, conservato nella Biblioteca Nazionale di Francia; il confronto tra le due rappresentazioni evidenzia affinità compositive anche nella scelta di affiancare due nicchie simmetriche al trono.

CORNICI DIPINTE

Il motivo delle mensole con travicelli in prospettiva che a Castelseprio separa i due registri narrativi dalla fascia in basso, ha un’origine molto antica; lo troviamo, ad esempio, dipinto nella camera funeraria a Palmira della ‘Tomba dei tre fratelli’, del II secolo d.C..

A Salonicco abbiamo una testimonianza dello stesso motivo nei mosaici della Cupola in San Giorgio, risalenti al V secolo.

Un’ importante cornice a mensola appare anche nei disegni già citati degli affreschi perduti di San Severo in Classe a Ravenna, del IX secolo.

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Lo stesso motivo viene usato in Cappadocia per delimitare cicli narrativi, come nell’esempio riportato in Tokali Kilise a Goreme del X secolo.

Abbiamo visto che sopra la mensola correva un cordone cilindrico, rivestito di foglie ad embricatura, avvolto da un nastro elicoidale; anche questo elemento è caratteristico del repertorio classico e si trova in numerose testimonianze: in quelle più antiche, delle prime fasi paleocristiane, il cordone era una vera e propria ghirlanda con frutta  e fiori, avvolta da un nastro elicoidale; oppure, lo stesso motivo, poteva essere interpretato in forma semplificata e geometrizzata, secondo stilemi tardoantichi, in particolare in ambito scultoreo. Il motivo decorativo pare essere molto diffuso intorno al IX e X secolo, come documentano le testimonianze raccolte, che spaziano da Roma a Bisanzio e sono relative sia ad edifici sacri importanti che a miniature.

Ivetta Galli

UNA “BUONA NOVELLA” DIPINTA, CASTELSEPRIO – 6. PRESENTAZIONE AL TEMPIO DI GESU’

Collocato in posizione privilegiata, a destra della finestra centrale dell’abside, l’episodio della Presentazione al Tempio di Gesù viene inquadrato da una elegante e complessa architettura.

Il portale, leggermente eccentrico, sfonda con un imponente catino absidale decorato a conchiglia, e incornicia la scena dell’”incontro” (significato del termine greco della festa, Hypapanti), tra l’anziano Simeone e il bimbo Gesù. Attorno, gli altri protagonisti: a sinistra, l’anziana profetessa Anna, appena visibile per i danni del tempo, in piedi ed alle spalle di Simeone, dall’altra parte Maria, che porge Gesù a Simeone, quindi Giuseppe e altri due uomini, non facilmente identificabili.

La Presentazione di Gesù al Tempio documenta una cerimonia ebraica che veniva celebrata quaranta giorni dopo la nascita del figlio maschio primogenito (terminata la purificazione della madre) e che prevedeva, per il momento dell’incontro tra il bimbo appena nato e il sacerdote del Tempio, un’offerta di due tortore o giovani colombi, portata da Giuseppe.

L’immagine che attira la nostra attenzione è proprio l’Incontro tra Simeone e Gesù, poiché tra i due protagonisti si instaura un dialogo intenso di sguardi e gesti: Simeone è una nobilissima e fragile figura di anziano incurvato (centodieci anni, ci dice il Vangelo dello Pseudo Matteo), Gesù incarna l’energia e la vitalità di un bambino che, curioso, si protende con la propria manina verso Simeone quasi rischiando di scivolare dalle braccia di Maria.

Come nella scena della Visitazione, il pittore ci restituisce l’umanità e l’intensità dei sentimenti sottesi agli episodi sacri, con un’abilità artistica difficilmente riscontrabile in simili iconografie.

Impareggiabili sono i lunghi capelli bianchi, la barba cadente, gli occhi infossati coperti da folte sopracciglia canute, ma rapiti dalla presenza di Gesù, nel definire la figura dell’ultracentenario Simeone!

L’ingrandimento ci permette di cogliere di nuovo il particolare della croce nel nimbo di Cristo terminante a “capocchia” di chiodo, su cui ho riflettuto nel precedente lavoro, e di osservare la mirabile mano destra affusolata in scorcio, di Simeone, a differenza della sinistra coperta da un lembo del pallio.

Secondo Meyer Shapiro il pittore riprenderebbe un’iconografia bizantina preiconoclastica, poiché dopo l’iconoclastia Simeone viene rappresentato con le due mani velate.

Un possibile riscontro lo troviamo in un mosaico del VII secolo a Roma che, tuttavia, rappresenta San Sebastiano in San Pietro ai Vincoli.

APPROFONDIMENTO ICONOGRAFICO

Il dipinto può incarnare sia il testo del Vangelo dello Pseudo Matteo che il Vangelo di Luca; questo episodio non è raccontato nel Protovangelo di Giacomo. Tuttavia, la sottolineatura dell’età di Simeone, si trova nell’apocrifo dello Pseudo Matteo:

“…Terminati i giorni della purificazione di Maria, secondo la legge di Mosè, Giuseppe condusse il fanciullo al tempio del Signore. Dopo che il fanciullo ebbe ricevuto il ‘peritomo’ – circoncisione – offrirono per lui un paio di tortore o due piccini di colombe.

Nel tempio c’era un uomo di Dio, perfetto e giusto, di nome Simeone, di anni centodieci.

Questi aveva da Dio ricevuto la risposta che non avrebbe gustato la morte senza avere veduto, vivo in carne, il Cristo figlio di Dio. Visto il bambino, egli esclamò a gran voce: Dio visitò il suo popolo e il Signore adempì alla sua promessa. – E subito lo adorò…

Nel tempio c’era pure la profetessa Anna…. Anch’essa adorò il bambino.”

La Presentazione al Tempio assume un ruolo importante nei cicli cristologici, per i significati che assume e che, nei punti a seguire, cerco di sviluppare.

La collocazione a Castelseprio sembra confermare tale centralità.

1. DISPOSIZIONE DEI PROTAGONISTI

Non sono sopravvissute molte testimonianze dell’episodio, dall’epoca paleocristiana all’Altomedioevo; tuttavia, si possono fare alcune riflessioni sui testi figurativi che sono riuscita a recuperare.

Seguendo le osservazioni di Aleksandr M. Kopirovskij (ne La presentazione di Gesù al tempio, 2019), l’iconografia del soggetto si definisce dal IX/X secolo, quando si stabilizza lo schema compositivo.

In effetti vedremo negli esempi che la disposizione abituale vede collocato Simeone a destra con alle spalle, spesso, la profetessa Anna. Simeone si trova davanti ad una struttura che richiama un ciborio e si appresta a ricevere Gesù dalle braccia di Maria; a volte già lo regge sulle sue braccia. Maria, con alle spalle Giuseppe, è disegnata a sinistra della scena.

In tutte le opere che ho trovato, Simeone ha entrambe le mani velate, a differenza della figura di Castelseprio, dove Simeone ha la mano destra scoperta mentre la sinistra è velata. A proposito, riporto un’osservazione di A. Cutler, tratta dal volume dell’Electa sull’Altomedioevo, in “La questione bizantina nella pittura italiana”, in cui l’autore nota che al pittore di Castelseprio dovesse essere familiare il modo in cui si somministrava la comunione nel rito greco, proprio in base alla posizione delle mani di Simeone. Non sono in grado di documentare tale affermazione, tuttavia, credo possa essere un indizio interessante da approfondire per l’identificazione dell’artista del ciclo affrescato.

La selezione delle opere proposte spazia tra immagini del V e l’XI secolo. Aggiungo qui due testimonianze cronologicamente successive, che si trovano in Puglia, all’interno di chiese rupestri, molto interessanti.

Presentazione al tempio del XII sec. in San Biagio, chiesa rupestre presso San Vito dei Normanni (BR)

L’episodio qui riportato fa parte di un ciclo sull’infanzia di Cristo, tema raramente documentato tra gli affreschi conservati nelle chiese rupestri pugliesi. Il linguaggio pittorico è narrativo, ingenuo e spontaneo, e tuttavia riesce a comunicare la intensa dinamica psicologica che si instaura tra i protagonisti.

Il secondo documento pittorico si trova nella Cripta della Candelora, nome della festa in cui si celebra l’episodio della Presentazione al Tempio. In questo caso l’episodio della Cripta di Massafra non è parte di un ciclo cristologico, ma affiancato ad una rarissima rappresentazione di Maria che tiene per mano Gesù, osservandolo teneramente; il bambino porta un cesto colmo di uova, prefigurazione forse della Passione e Resurrezione.

Nicchia con la Presentazione al Tempio dell’inizio del XIII secolo nella Cripta della Candelora, Massafra (TA)
Particolare della Presentazione al Tempio dell’inizio del XIII secolo nella Cripta della Candelora, Massafra (TA)

In questo caso, la scelta dell’artista di inquadrare il dipinto sui protagonisti principali, ci porta a cogliere le intense sfumature delle emozioni che si stabiliscono tra di loro, rese verosimili da accorte e sapienti pennellate di forme e di colori.

2. ARCHITETTURA, ELEMENTI STRUTTURALI E COMPOSITIVI

Tornando all’affresco di Castelseprio, l’architettura che si impone alle spalle dei protagonisti della scena, leggermente eccentrica rispetto al riquadro, disegna un arco modellato che apre ad una copertura concava, su modello dei catini absidali tardoantichi decorati a forma di conchiglia. Tuttavia, è una struttura aperta, sorretta da pilastri, che lascia intravedere scorci di cielo azzurro, tanto da richiamare un ciborio, elemento che d’altra parte abbiamo visto presente nelle opere precedenti, qui realizzato con citazioni ellenistiche.

La forma del padiglione a conchiglia ricorda modelli riscontrabili nei mosaici ravennati o della chiesa di San Giorgio a Tessalonica.

particolare dei mosaici della cupola della chiesa di San Giorgio a Tessalonica, V sec.
particolare del mosaico di Teodora nella Basilica di San Vitale a Ravenna, V sec.

Motivi architettonici affini alla complessa e ‘surreale’ architettura che traspare dall’affresco, purtroppo non sempre leggibile, sono presenti nel paesaggio costruito della miniatura del Salterio di Davide di Parigi.

MS gr. 139, Salterio di Davide f.3, Biblioteca Nazionale di Francia, Parigi

Nella miniatura, citata come espressiva di un simile ambito culturale, lo studioso Marco Rossi riscontra anche un’impaginazione affine all’affresco di Castelseprio, nella disposizione dei protagonisti, uno eretto, l’altro incurvato con figure secondarie a lato. 

Il codice, di origine bizantina, MS Grec. 139, per la qualità del linguaggio, che riprende motivi ellenistici, viene considerato un’opera chiave della ‘rinascenza macedone’ e datato al X secolo.

3. COLLOCAZIONE DELL’EPISODIO ALL’INTERNO DEL CICLO

Nel Vangelo di Luca la Presentazione al Tempio rappresenta l’ultimo episodio dell’infanzia di Gesù, mentre nel testo dello Pseudo Matteo a questa segue l’arrivo dei Magi, la Fuga in Egitto, la Strage degli Innocenti ed episodi della sacra famiglia in Egitto, prima del ritorno.

Nel Protovangelo di Giacomo l’episodio non è trattato e il testo termina, dopo le figure dei Magi, con la fuga di Elisabetta per proteggere Giovanni dalla strage degli innocenti e l’assassinio di Zaccaria.

Non esistendo un unico racconto lineare di questi episodi si fa problematica l’interpretazione delle scene che si sono perse nel ciclo, che, d’altra parte, non sempre rispetta la sequenza degli eventi. Tratterò l’argomento in un capitolo a parte.

Si possono fare alcune riflessioni interessanti intorno alla scelta della collocazione dell’episodio a Castelseprio, quasi al centro del ciclo e dietro all’altare, recuperando alcune affermazioni di Catherine Jolivet Lévy, tratte dal testo “Les églises bizanthine de Cappadoce”.

L’autrice osserva che la Presentazione al Tempio non ha un posto fisso nei cicli arcaici della Cappadocia; spesso la scena è collocata alla fine del ciclo dell’infanzia di Cristo ma anche, frequentemente, è oggetto di un’attenzione particolare per il suo valore simbolico e per questo dipinta vicino all’abside: infatti, evoca il tema dell’incarnazione, anticipazione del sacrificio sulla croce e prefigurazione dell’offerta eucaristica.

Sul significato eucaristico dell’episodio si trova anche il riferimento già citato di Anthony Cutler, per il quale la posizione della mano destra non velata di Simeone potrebbe richiamare la somministrazione della comunione nel rito greco.

Ma ci sono ancora alcune osservazioni che voglio segnalare in merito al rapporto tra la Presentazione al Tempio e gli altri episodi dipinti nei cicli cristologici, recuperando ancora alcune riflessioni di C. Jolivet-Lévy tratte da “The Bahattin Samanliğı Kilisesi at Belisırma”, EDU, 2009, intorno agli affreschi della fine del X o inizio dell’XI secolo. Nei dipinti di questa chiesa della Cappadocia, l’autrice osserva che la Presentazione al Tempio interrompe il ciclo di Giovanni Battista, allineandosi con l’Adorazione dei Magi, come avviene nella chiesa Nuova di Tokali Kilisesi.  Le due scene documentano il riconoscimento della divinità di Cristo da parte dei Pagani (Magi) e degli Ebrei (Simeone), valorizzando, dunque, il tema dell’incarnazione.

L’associazione tra l’Adorazione dei Magi e la Presentazione al Tempio, si trova anche: nel MS gr. 510, fol. 137, Omelie di Gregorio di Nazianze, del IX secolo, intrecciato alla Fuga di Elisabetta e l’uccisione di Zaccaria:

MS Gr. 510, fol. 137, Omelie di Gregorio di Nazianze, IX sec.

come nel MS Vat. Cod gr. 1613, Menologio di Basilio II, del X secolo:

Ivetta Galli

UNA “BUONA NOVELLA” DIPINTA, CASTELSEPRIO – 5. ADORAZIONE DEI MAGI

Un albero dipinto sullo spigolo tra la parete absidale e quella dell’arco trionfale apre alla scena dell’Adorazione dei Magi.

I tre Magi, arrivati dal lontano oriente, sono guidati dall’angelo che ancora in volo indica loro Gesù; ora, giunti ai piedi di Maria e Gesù, hanno appena depositato alcuni” bagagli” e tengono in mano grandi vassoi; il primo magio porge con vigore e devozione il proprio dono verso Gesù, stabilendo un intenso dialogo di sguardi; gli altri due, in attesa del proprio turno, si scambiano alcune parole, disponendosi in cerchio.

Vestono allo stesso modo: con una clamide, allacciata sulla spalla destra o davanti e una corta tunica chiara con maniche, tenuta attorno alla vita da una cintura di stoffa. Le gambe sono coperte dagli “anassiridi”, pantaloni aderenti dei cavalieri persiani, su di uno dei quali si intravvede una decorazione di macchiette bianche a gruppi di tre, tipo trifoglio.

Il copricapo pare una sorta di berretto frigio, la cui forma richiama un morbido cilindro, annodato sotto il mento.

Gesù è rivolto verso il primo magio con uno sguardo intenso, pare meravigliato e felice allo stesso tempo; dal nimbo cruciforme, che si intravvede appena intorno al suo capo, fuoriescono le linee che disegnano la croce terminanti con “capocchie di chiodi”, come nella scena della Lavanda e della Presentazione al tempio.

Un’iconografia volta a richiamare il sacrificio futuro di Gesù che ha radici antiche: sulle ampolle palestinesi del VI secolo il motivo è già evidente nel disegno della croce all’interno del nimbo di Cristo come nella figura della croce stessa.

In ordine, Ampolla palestinese n. 7 e n. 12, conservate a Monza.

La salda e rassicurante figura di Giuseppe è seduta ai piedi di Maria, in atteggiamento raccolto e pensoso. La sua figura è disegnata vicino al gradone roccioso su cui è seduta Maria, probabilmente all’ingresso della grotta. Il pittore di Castelseprio rimane fedele al testo apocrifo del Protovangelo di Giacomo ed alla sua interpretazione profondamente umana del ciclo: l’evento si svolge presso la grotta, Maria non esibisce attributi di regalità, è solo collocata solo più in alto rispetto al gruppo; Giuseppe continua a non avere il nimbo della santità attorno al suo capo.

La scena si svolge all’aperto: si scorgono sul fondo alcune architetture lontane e qualche albero; l’affresco ha subito molti danni e purtroppo si legge con fatica.

APPROFONDIMENTO ICONOGRAFICO

Tra i testi narrativi a cui il pittore di Castelseprio fa riferimento, in questa rappresentazione sembra esser stato privilegiato il Protovangelo di Giacomo. Dato lo stato di conservazione precario dell’episodio non possiamo scorgere la stella che, possiamo immaginare, doveva essere dipinta, come sulla grotta della Natività, ora appena leggibile.

 “… Ed ecco che la stella che avevano visto in oriente li precedeva finché giunsero alla grotta, e si fermò in capo alla grotta. E i magi videro il bambino con sua madre Maria, e trassero fuori dalla loro bisaccia dei doni: oro, incenso e mirra” (dal Protovangelo di Giacomo).

1. IL DISEGNO DEI MAGI

La scena dell’Adorazione dei Magi viene rappresentata con una certa frequenza, fin dall’epoca paleocristiana, sia integrato alle complesse rappresentazioni della Natività di Gesù (come abbiamo visto nella trattazione precedente) che come episodio autonomo.

Possiamo affermare che il modello iconografico di Castelseprio sia coerente alle rappresentazioni precedenti il X secolo, in particolare per le figure dei Magi, se assumiamo la tesi espressa da Giovanni Feo e Francesca Roversi Monaco, in “BOLOGNA e il secolo XI. STORIA, CULTURA, ECONOMIA, ISTITUZIONI, DIRITTO – Bononia University Press, 2011” che qui riporto:

Nella scena dell’Adorazione dei Magi si ripropone un’iconografia di antica tradizione, attestata per la prima volta nella Cappella Greca delle catacombe di Priscilla a Roma (II sec.) e costituita per lo più da tre personaggi abbigliati all’orientale, con mantello, corta tunica, calzoni aderenti, stivali e, innanzi tutto, il tipico berretto frigio, da sempre simbolo di orientalità. Il tema, sostanzialmente invariato per secoli, … mutò solamente intorno al X secolo quando, privilegiando il racconto del Salmo 7253, i Magi vennero descritti come sovrani e rappresentati con corone regali”.

Viene proposta una carrellata di opere sul tema; si noterà che i Magi vengono disposti o in parallelo, oppure, come nel caso di Castelseprio su piani diversi, quasi in cerchio, dove il personaggio di mezzo si rivolge all’ultimo arrivato. Maria e il bambino sono collocati sia a destra che a sinistra, alle spalle quasi sempre troviamo Giuseppe, in posizione arretrata. Anche un angelo compare di frequente nel racconto, così come la stella.

Per motivi tecnici ho raggruppato inizialmente le opere in rilievo, poi quelle pittoriche, sempre in ordine cronologico.

Ivetta Galli

UNA “BUONA NOVELLA” DIPINTA, CASTELSEPRIO – 4. NATIVITA’ DI GESU’

DENTRO E ATTORNO ALLA GROTTA

Nella stessa ‘location’ sono narrati fatti successivi nel tempo.

Protetta da una spelonca rocciosa, Maria è sdraiata sul proprio giaciglio, coperto da un lenzuolo bianco, vestita con un pallio azzurro, con le gambe appena sollevate e il busto sorretto dai gomiti, quasi a raccogliere le forze dopo la fatica del parto, per rivolgersi con affetto al figlio, fasciato e sdraiato vicino a lei in una rustica culla di legno. 

A sinistra, Salomè, la levatrice incredula, solleva con il braccio sinistro il destro, paralizzatosi per aver dubitato e verificato la verginità di Maria (Vangeli Apocrifi); anche se dipinta di profilo ci comunica l’espressione sgomenta per la punizione subita e contemporaneamente la supplica per il perdono che le verrà accordato toccando Gesù.

La ritroviamo nella scena della “lavanda di Gesù”, sotto il giaciglio di Maria, mentre immerge il bimbo nella tinozza in cui Zelomi, la seconda levatrice descritta dai Vangeli Apocrifi, sta versando l’acqua da una brocca.

Giuseppe è seduto quasi al centro della scena in primo piano, isolato dal gruppo indaffarato delle donne ma rivolto a loro; pare stanco e in pensiero, smarrito di fronte al ruolo che gli è stato assegnato; tuttavia, la sua figura resa imponente dalla curata modellazione plastica, comunica un saldo rigore morale.

Vicino a lui un grosso cane da pastore introduce l’arrivo dei pastori con le greggi, chiamati da un angelo che compare di corsa dal retro della grotta con le grandi ali spiegate ad annunciare la nascita di Gesù; frammenti rimasti di paesaggio naturale e, all’orizzonte, le mura di Betlemme completano il racconto.

Stupore, tenerezza, gioia, pienezza, ma anche un velo di malinconia: ogni personaggio di questa potente e impossibile istantanea incarna i diversi e naturali vissuti intorno ad una nascita speciale, in una famiglia non tradizionale.

APPROFONDIMENTO ICONOGRAFICO

La ricerca di modelli iconografici che precedano la struttura del racconto della Natività di Castelseprio ci porta ad opere elaborate intorno al VII secolo, immagini in cui si inizia a trovare una simile sintesi delle fonti già citate (Protovangelo di Giacomo, Vangelo dello Pseudo Matteo e Vangelo di Luca); simile, tuttavia, raramente uguale, in quanto la resa essenziale ma completa dell’arte del Mestro di Castelseprio rimane unica.

Inoltre, delle rappresentazioni altomedievali della Natività abbiamo spesso solo frammenti “superstiti” e questo rende ancora più difficile fare ipotesi sulla genesi della figurazione; occorre considerare che il tema comincia a diffondersi  dopo il V secolo, quando viene proclamata la divina maternità di Maria nel Concilio di Efeso (431 dC).

1. PIU’ SCENE CONTEMPORANEAMENTE

Tra i documenti artistici più antichi che ho raccolto sulla rappresentazione della Natività ne seleziono alcuni che presento nelle slide di seguito, da sfogliare.

2. LA FIGURA DI SALOME’, LEVATRICE DUBBIOSA

La cura con cui il pittore di Castelseprio tratteggia la figura di Salomè induce ad approfondire questo personaggio.

Se l’episodio della levatrice incredula è citato anche nel Vangelo dello Pseudo Matteo, tuttavia mi sembra che la fonte più coerente alla nostra rappresentazione sia da trovare nel  Protovangelo di Giacomo, che qui riporto in parte:

“Giunti a metà del cammino, Maria gli disse:

– Fammi scendere dall’asina, perché quello che è in me mi fa forza per venire alla luce. –

… trovò là una grotta e ve la condusse dentro, lasciando presso di lei i suoi figli ed egli uscì a cercare una levatrice ebrea nel paese di Betlemme….

Ed ecco una donna che scendeva dalla montagna e mi domandò: – Uomo dove vai? – … – Cerco una levatrice ebrea…Vieni a vedere. – E la levatrice andò con lui.

La levatrice uscì dalla grotta e si imbatté in lei Salomè… Ed ella disse: – Salomè, ho da raccontarti un fatto straordinario: una vergine ha partorito, ciò che è contrario alla sua natura! –

Ma Salomè rispose: – Come è vero che vive il Signore mio Dio, se non introdurrò il mio dito ad esaminare la sua natura, non crederò mai che una vergine abbia partorito. –

Allora la levatrice entrò e disse a Maria: – Mettiti giù per bene, poiché c’è intorno a te una non piccola discussione – …. E Salomè introdusse un dito nella natura di lei e mandò un urlo e disse: – Maledizione alla mia empietà e alla mia incredulità! Poiché ho messo a prova il Dio Vivente, ed ecco la mia mano si stacca da me, arsa dal fuoco. – E piegò le ginocchia davanti al Signore, dicendo: – O Dio dei miei Padri, ricordati di me: non fare di me un esempio per I figli di Israele, ma rendimi ai miei poveri: tu sai infatti, o Signore, che nel tuo nome io compivo le mie opere di assistenza e la mia mercede la ricevevo da te. –

Ed ecco un angelo del Signore le fu presso, dicendole: – Salomè, il Signore ti ha dato ascolto: accosta la tua mano al bambino e sollevalo, e sarà per te salute e felicità. –

E Salomè si avvicinò e lo sollevò… ed ecco subito Salomè fu guarita.”

Abbiamo visto che nelle rappresentazioni più diffuse della Natività di Gesù la figura di Salomè compare con Zelomi solo nella scena della lavanda di Gesù.

Una ricerca orientata alla citazione di Salomè nel momento della richiesta di perdono per la propria incredulità, in opere altomedievali, mi ha permesso di raccogliere questi esempi precedenti l’anno Mille, che ho riportato nelle slide seguenti.

È veramente particolare il radicale realismo con cui viene dipinta Salomè a Castelseprio: il capo è coperto da un semplice fazzoletto annodato dietro al collo, i tratti del suo volto sottolineano una età matura, sembra di intravvedere un incarnato bronzeo, che si ripete sul braccio nudo. Dal suo semplice abbigliamento da popolana, tuttavia, si impone un elegante orecchino costituito da una serie di piccole perle, quasi un piccolo bracciale.

Salomè, da una foto del 1946, che ci permette di vedere alcuni particolari oggi persi

Sopra il suo capo la scritta Emea, in lettere bianche come per altri personaggi del ciclo, oggi in parte persa, ci porta a riflettere sull’origine greca della fonte (il pittore, o i modelli a cui si rifaceva?), in quanto Emea è la traslitterazione dal greco di Salomè.

Intorno a questa figura ho trovato una lettura suggestiva fatta da Angelo Arlati, nel sito: http://www.gypsypedia.it/archives/la-nativita-di-castelseprio-i-rom-in-italia-nel-ix-secolo-2/

L’autore, esperto di cultura rom, ritiene di individuare in Salomè la figura di una donna proveniente da quella cultura.

Ivetta Galli

UNA “BUONA NOVELLA” DIPINTA, CASTELSEPRIO – 3. SOGNO DI GIUSEPPE E VIAGGIO A BETLEMME

QUALE PATERNITA’ PER GIUSEPPE?

Proseguendo la lettura oltre la suggestiva icona del Cristo Pantocratore, di cui farò un approfondimento specifico, i due episodi che chiudono il registro superiore del ciclo, vedono entrare in scena Giuseppe con un ruolo più definito.

Giuseppe sta dormendo sdraiato su di un giaciglio color azzurro con lenzuolo porpora; ha una mano abbandonata sulla gamba e veste la stessa tunica del frammento pittorico precedente; purtroppo il volto è gravemente danneggiato e non possiamo capire quale sfumatura emotiva Giuseppe esprima per il conflitto lacerante di dover accettare un figlio non suo. Il carico di responsabilità che si assume non cancellerà mai del tutto un sentimento di disagio che, vedremo, riemergerà nella scena della Natività.

La figura dell’angelo in volo è disposta parallelamente a lui e, con atteggiamento sicuro, interviene per rassicurarlo e convincerlo ad accettare una paternità, di cui non è protagonista, in nome della fede.

Un’elegante colonna a sinistra introduce la scena e costruisce, con altri elementi architettonici classici, una cornice al sogno, aprendo la vista di una prospettiva lontana su di un paesaggio di cui cogliamo alcuni tratti.

Il racconto prosegue con il Viaggio a Betlemme, per il censimento.

(Giuseppe) Sellò quindi l’asina e vi fece sedere Maria, e suo figlio conduceva la bestia, e Giuseppe li seguiva.... le disse:”Maria , che cos’hai, che vedo il tuo viso ora ridente ora accigliato?” E disse Maria a Giuseppe: “E’ perchè vedo con i miei occhi due popoli: uno che piange e si batte il petto, l’altro che è lieto ed esulta”. (Protovangelo di Giacomo. XVII).

Maria è seduta lateralmente su di un asinello che avanza a fatica e sembra scalpitare per il peso della donna ormai prossima al parto; l’asino è trainato da un giovane, Giacomo, il figlio di Giuseppe, di cui si scorge la gamba tesa nello sforzo del cammino. Un frammento d’ala a destra del nimbo di Maria, disegnato sotto le torri della fortezza di Betlemme, lascia supporre che un angelo seguisse in volo il gruppo. Ancora, dunque, una inconsueta e sapiente sintesi tra i due Apocrifi che ispirano questi dipinti: nel testo dello Pseudo Matteo non viene citato Giacomo, ma un angelo, come guida.

Giuseppe avanza con un bastone, curvo e stanco per il viaggio; tuttavia, tutta la sua attenzione è teneramente rivolta a Maria, incuriosito dal suo stato d’animo e dalle sue repentine variazioni d’umore; pare dialogare con lei, con grande rispetto per la sua condizione. Maria con una mano accarezza il ventre e con l’altra s’aggrappa al lenzuolo /sella dell’asino.

Il gruppo familiare sta uscendo dalla cittadina di Betlemme, oltrepassando la porta delle mura della città dove non ha trovato alloggio e in cerca di un riparo per la notte.

APPROFONDIMENTO ICONOGRAFICO

Il Sogno di Giuseppe e il Viaggio a Betlemme sono qui rappresentati in sequenza; troviamo poche, ma importanti, testimonianze artistiche dello stesso accostamento.

Nell’avorio della Cattedra di Massimiano, a Ravenna, del VI secolo, i due episodi sono rappresentati sovrapposti nella stessa formella e il Sogno di Giuseppe vede disposte le figure in modo simile a quelle di Castelseprio, mentre la versione del Viaggio a Betlemme riprende il racconto del Vangelo dello Pseudo Matteo, introducendo un angelo che guida il gruppo familiare, e che dialoga con Giuseppe.

Rilievo eburneo della Cattedra di Masimiano, VI sec., Ravenna, Museo Arcivescovile.

All’interno di San Marco a Venezia, il registro musivo dell’infanzia di Cristo vede accostati i due episodi, mettendo in scena i tre protagonisti del Protovangelo di Giacomo.

Mosaici della Cattedrale di San Marco a Venezia, XII secolo

Mentre il Sogno di Giuseppe, che nei Vangeli Apocrifi introduce alla Prova delle acque amare, è raramente rappresentato e a volte confuso con il Sogno che precede la Fuga dalla persecuzione di Erode, il Viaggio a Betlemme compare più frequentemente negli antichi cicli pittorici sull’Infanzia di Cristo e spesso viene confuso con la Fuga in Egitto.

CHE FARO’ IO?

La necessità di sottolineare “l’accoglienza” da parte di Giuseppe di una paternità non biologica è particolarmente sottolineata nei Vangeli Apocrifi, e il Sogno di Giuseppe diviene un tassello fondamentale per questa operazione, volta a ribadire il tema il tema dell’Incarnazione di Dio in Cristo.

Nel ciclo di Castelseprio l’angelo che appare a Giuseppe ha le stesse generali connotazioni dell’Arcangelo Gabriele, tranne che per i tratti del volto e la capigliatura, scelta che conferisce una nota di umanità anche a questo soggetto incorporeo; sguardi e gesti sono curati con una attenta definizione psicologica e finezza descrittiva; mi colpisce anche da un lato il volto giovane e delicato dell’Arcangelo Gabriele, dall’altro il profilo più marcato, maturo e non idealizzato dell’angelo che appare a Giuseppe; potrebbe anche essere il risultato di pittori diversi.

Nei mosaici paleocristiani dell’arco trionfale di Santa Maria Maggiore a Roma l’episodio del Sogno segue l’Annunciazione:

Mosaici dell’arco trionfale di Santa Maria Maggiore, V secolo, Roma

Giuseppe è in piedi e rivolto all’angelo che lo sta convincendo ad accogliere Maria e la sua gravidanza; a destra e a sinistra dei protagonisti ci sono due architetture, a sottolineare che ancora Maria e Giuseppe vivono in case separate.

Uno schema, in parte simile, che troviamo disegnato anche in una miniatura del MS gr. 74, conservato a Parigi, decisamente più tarda, dell’XII secolo:

Miniatura da MS gr. 74, Parigi, Biblioteca Nazionale

LA CASA DI GIUSEPPE

L’ambientazione architettonica dell’episodio a Castelseprio è particolarmente ricca; gli elementi che incorniciano il Sogno sembrano citazioni di dipinti classici: una colonna con capitello simil corinzio, sulla quale poggia forse una meridiana, un drappo rosso annodato al fusto della stessa; il capitello regge un piedritto con arco ribassato (forma che ritorna frequentemente) che prospetticamente “sfonda” verso destra, sostenuto da un robusto pilastro; si intravvede poi una villa con finestre alte e strette, due torri laterali, su modelli romani, con brani di paesaggio intrecciati ma poco visibili. Un gioco tra interno/esterno che ritroveremo nelle costruzioni architettoniche della pittura del XIII e XIV secolo.

Sono stati evidenziati da molti studi le corrispondenze tra questi elementi e i disegni delle miniature del MS gr. 510 delle Omelie di San Gregorio di Nazianzo, risalente alla fine del IX secolo e con il Salterio di Parigi, MS gr.139, del X secolo (ultima immagine delle quattro), ambedue conservati nella Biblioteca Nazionale di Francia:

1,2,3, MS gr. 510 delle Omelie di San Gregorio, risalente al IX; 4, MS gr.139, del X secolo

E’ indubbio che, se da un lato esistono evidenti riscontri iconografici, il Maestro di Castelseprio dimostra di saper costruire una scenografia decisamente più proporzionata e integrata alle figure protagoniste, rivelando un controllo nella impaginazione dello spazio decisamente unico.

IN CAMMINO, VERSO BETLEMME

Oltre agli esempi già riportati, in Cappadocia, nei cicli cristologici dell’Infanzia, tra X e XI secolo, si trovano dipinti dell’iconografia del Viaggio a Betlemme strutturata come da versione del Protovangelo di Giacomo.

Di seguito una carrellata degli esempi che sono riuscita a raccogliere, a cui ho aggiunto il mosaico più tardo del XIV secolo di Kariye Kami ad Istanbul, preceduto dal Sogno di Giuseppe.

Per la documentazione relativa alla Cappadocia: Catherine Jolivet-Levy, Les Eglises Byzantines de Cappadoce, Edition du CNRS, e il sito: bancadati.museovirtualecappadocia.it/pschede, raccolta di dati che nasce dalle ricerche sul campo della missione italiana dell’Università della Tuscia nella Cappadocia rupestre a partire dal 2006. Direttore della missione: Maria Andaloro.

INDAGINE SU PARTICOLARI DI FIGURA E DI ARCHITETTURA

Per quanto i confronti proposti non diano risposta in merito ai problemi cronolocigi che il ciclo di Castelseprio pone, i frammenti raccolti possono costituire ulteriori riflessioni per la ricerca.

Un disegno del Codice Vat. gr. 699, f.59 di Cosma Indicopleus, originario di Alessandria d’Egitto, del VI secolo, propone suggestivi modelli grafici confrontabili con l’affresco, anche se non riguardano la stessa iconografia

Un altro riscontro interessante riguarda la figura dell’asino; dallo studio degli affreschi di San Salvatore a Brescia è emersa una sinopia, che probabilmente riguarda “La fuga in Egitto”, in cui la corrispondenza con l’asino di Castelseprio, (messa in evidenza da Saverio Lomartire in “Riflessioni sulla decorazione del San Salvatore di Brescia alla luce delle nuove indagini archeologiche” in https://journals.ub.uni-heidelberg.de › article › downloadPDF), è indiscutibile.

Infine qualche immagine sull’ambientazione architettonica dell’episodio, messa in relazione con gli affreschi carolingi di San Giovanni a Mustair e della Cripta di Sant’Epifanio a San Vincenzo al Volturno del IX secolo, nello studio di John Mitchell (IV. THE PAINTINGS, Nuove ricerche su sequenza, cronologia e contesto degli affreschi di Santa Maria foris portas di Castelseprio, a cura di Gian Pietro Brogiolo, Vincenzo Gheroldi, Flavia De Rubeis, John Mitchell, 2014).

Di Mustair viene proposto un particolare architettonico dell’episodio della Guarigione del sordomuto, di San Vincenzo al Volturno, il Martirio di Santo Stefano.

Si riprone la stessa osservazione precedente della più organica risoluzione del problema spaziale a Castelseprio, al di là delle affinità di alcune strutture architettoniche ricorrenti.

Ivetta Galli